Carlo Formenti
Fra
qualche giorno all’arena coperta di Vistalegre (Madrid), Podemos celebrerà la
sua seconda assemblea generale, un evento che potrebbe segnare una svolta
importante nella vita di questa formazione politica che rappresenta a tutt’oggi
l’unica sinistra del Vecchio Continente in grado di competere alla pari con
l’establishment neoliberale. Nel mio ultimo libro (“La variante populista”, DeriveApprodi) ho indicato in Podemos il
più importante esempio europeo (accostandolo alle rivoluzioni bolivariane in
America Latina e al movimento nato attorno alla candidatura di Sanders negli
Stati Uniti) del tentativo di cavalcare a sinistra l’onda populista che in tutto
il mondo si sta sollevando come reazione alle devastazioni sociali, civili ed
economiche provocate da decenni di regime neoliberista.
Prima di analizzare le opzioni strategiche che si confronteranno a Vistalegre – proverò a farlo mettendo a confronto i documenti programmatici presentati, rispettivamente, dal segretario generale Paolo Iglesias e dal suo competitore Inigo Errejón – è utile premettere alcune sintetiche considerazioni sul mutamento di scenario mondiale in corso (segnato, fra gli altri eventi, dalla Brexit, dall’elezione di Trump e dalla sconfitta di Renzi nel referendum dello scorso dicembre) e sulle sfide che esso impone a tutti i movimenti antiliberisti del mondo.
Prima di analizzare le opzioni strategiche che si confronteranno a Vistalegre – proverò a farlo mettendo a confronto i documenti programmatici presentati, rispettivamente, dal segretario generale Paolo Iglesias e dal suo competitore Inigo Errejón – è utile premettere alcune sintetiche considerazioni sul mutamento di scenario mondiale in corso (segnato, fra gli altri eventi, dalla Brexit, dall’elezione di Trump e dalla sconfitta di Renzi nel referendum dello scorso dicembre) e sulle sfide che esso impone a tutti i movimenti antiliberisti del mondo.
Il
presupposto da cui intendo partire è che stiamo vivendo la fase inziale di un
rapido e caotico processo di de-globalizzazione. Non ho qui lo spazio di
argomentare adeguatamente tale tesi per cui mi limito a enunciarla in modo
apodittico rinviando all’articolo del vicepresidente boliviano Linera, che ho già avuto modo di
commentare su queste pagine. In quel pezzo Linera scriveva, fra le
altre cose, che Trump “non è il boia dell’ideologia trionfalista della libera
impresa, bensì il medico legale al quale tocca ufficializzare una morte
clandestina”. Clandestina, aggiungo io, per l’ottusa ostinazione con cui le
sinistre si ostinano a non prenderne atto. E aggiungeva che l’era in cui stiamo
entrando è ricca di incertezze, e proprio per questo potenzialmente fertile, se
sapremo navigare nel caos generato dalla morte delle narrazioni passate.
Sulla
stessa lunghezza d’onda vale la pena di segnalare un lungo, notevole articolo firmato Piotr e
apparso sul sito megachip che sostiene, fra le altre cose: 1) che Trump non
rappresenta solo un elettorato fatto di perdenti della globalizzazione
(disoccupati, lavoratori bianchi poveri, ecc.) ma anche un composito mosaico di
frammenti delle élite dominanti spaventati dall’inerzia di una politica neocons
trasversale (Hillary Clinton su tutti) disposta a rischiare una guerra
mondiale, pur di difendere l’egemonia americana fondata sul binomio
finanziarizzazione/globalizzazione; 2) che questa base incoerente e composita
lo costringerà a condurre una politica altrettanto incoerente e contraddittoria
(per esempio facendo marcia indietro sulla globalizzazione senza smettere di
difendere gli interessi della finanza globale); 3) che per opporsi al suo
pseudo new deal autoritario le lobby liberal-imperiali lotteranno (è cronaca di
questi giorni) con il coltello fra i denti, mobilitando un’ideologia
identitaria “arroccata dietro il dogma e l’inquisizione della correttezza
politica, cioè una forma ideologica elitaria che preferisce tutto ciò che è
minoranza, perché le minoranze non pongono sfide esiziali mentre se sfruttate
bene possono minare quelle poste dalla maggioranza. Minoranze che quindi devono
essere tenute sotto tutela da lobby che si erigono a loro rappresentanti. Lobby
di minoranza incorporate in un establishment dedito a politiche elitarie”; 4)
che una sinistra che voglia lottare sia contro il globalismo alla Clinton che
contro il trumpismo dovrà surfare, con spirito pragmatico ma senza rinunciare i
principi, l’onda populista. Il che ci riporta ai dilemmi di Podemos.
Iniziamo
col dire che Podemos è oggi oggetto di una violenta aggressione da parte di
tutti i media spagnoli, simile a quelle che in tutti gli altri paesi
occidentali vengono condotte contro la minaccia “populista”. Le virgolette
s’impongono perché il termine viene usato in modo totalmente indifferenziato:
populisti sono Evo Morales e Marine Le Pen, Rafael Correa e Grillo, Trump e
Podemos. Un appiattimento che non è frutto di incapacità di analisi politica;
al contrario: riflette la secca polarizzazione formulata qualche settimana fa
dal direttore del Wall Street Journal, il quale ha dichiarato che, d’ora in
avanti, lo scontro non sarà fra destra e sinistra ma fra globalisti e
antiglobalisti. Altrettanto univoca la ricetta per fronteggiarli: costruire
grandi coalizioni fra liberali e socialdemocratici per sbarrare loro il passo
(coalizioni cui tendono ad accodarsi in posizione subordinata quei partiti di
sinistra “radicale” che si lasciano convincere dalle élite liberali della
necessità di far fronte contro il pericolo “fascista”). In Spagna, come spiega
un articolo del
deputato di Podemos Manolo Monereo, questa campagna si è fatta isterica da
quando Podemos ha scelto di stringere un’alleanza elettorale con Izquierda
Unida piuttosto che con il PSOE. Perciò, visto che la prima opzione è stata
sostenuta da Pablo Iglesias e la seconda da Inigo Errejón, e visto che le due
tesi si confronteranno nuovamente nell’assemblea di Vistalegre, i media stanno
entrando a gamba tesa nel dibattito precongressuale nella speranza di riuscire
a spaccare il partito o, in via subordinata, a rafforzare al suo interno la
corrente che fa capo a Errejón. Ma veniamo ai documenti.
Il documento di Iglesias muove
da considerazioni analoghe a quelle esposte poco sopra in merito alla fase
storica mondiale: la globalizzazione sta entrando in crisi a mano a mano che
sorgono nuove resistenze e avversari politici: non solo i movimenti sociali, ma
anche quei governi guidati da forze politiche sovraniste/progressiste che,
soprattutto in America Latina, tentano di restituire un ruolo strategico allo
stato in materia di politica economica e perseguono programmi di riforme
radicali, mentre è in corso un riequilibrio dei rapporti di forza geopolitici
dovuto all’emergenza di superpotenze vecchie e nuove, come la Russia e la Cina.
La crisi europea è parte integrante di tale contesto: gli effetti devastanti
del progetto ordoliberista (elevamento del trattato di Maastricht a rango
costituzionale sotto egemonia tedesca, perdita della sovranità monetaria e
conseguente esautoramento dei governi nazionali privati di potere decisionale
su temi strategici; attacco a salari e stato sociale; tagli generalizzati alla
spesa pubblica; sistema dei media “blindato” a sostegno del pensiero unico
liberista ecc.) generano una resistenza crescente dei popoli europei. In Spagna
il consenso, a lungo fondato su settori sociali che aspiravano a venire
integrati nella classe media e alternativamente gestito da democristiani e
socialisti, si è dissolto dopo l’esplosione della crisi globale e a fronte
della “cura” che la Ue ha imposto alla Spagna e che ha prodotto
deindustrializzazione e disoccupazione. Così sono nati movimenti di massa che
rivendicavano democrazia e sovranità popolari, provocando una vera e propria
crisi di regime. In questa situazione i media mainstream si sono fatti garanti
della continuità delle scelte politiche liberal liberiste, favorendo la nascita
di una grande coalizione liberal socialdemocratica sul modello tedesco.
Il
documento passa poi a ricostruire la breve storia di Podemos: nato nel 2013/14
su iniziativa di un gruppo di militanti di varia provenienza (movimenti
studenteschi, sinistra anticapitalista, ex comunisti, movimenti di base, ecc.)
ispirati dall’esempio del “giro all’izquierda” che ha visto molti Paesi
latinoamericani costruire esperimenti populisti di sinistra, il partito ha
lanciato un programma politico che chiedeva l’avvio di un processo costituente
fondato su riforme radicali: riconquista della sovranità popolare con la
possibilità di realizzare una politica economica ridistributiva e di recuperare
i diritti sociali; riforma in senso proporzionale del sistema elettorale,
riforma della giustizia per accrescerne l’autonomia dal sistema politico; lotta
contro il TTIP, lotta per la parità di genere e per il riconoscimento del
carattere plurinazionale dello stato spagnolo, ecc. Programma che ha riscosso
largo consenso nei settori popolari e nelle classi medie impoverite,
consentendo di ottenere importanti successi elettorali.
Dopodiché
Iglesias richiama (e rivendica) la svolta che ha visto il partito scegliere
l’alleanza elettorale con la sinistra radicale di Izquierda Unida e la
contrapposizione frontale al blocco di potere liberal -socialdemocratico.
Ricorda che tale svolta è maturata dopo un serrato dibattito interno, in cui la
base ha respinto l’opzione (difesa da Errejón) di un accordo con il PSOE,
scegliendo invece la strada di un’alternativa radicale al sistema di potere.
Questa linea, che Iglesias si appresta a difendere nella prossima assemblea
generale, si fonda sull’ipotesi che la crisi politica ed economica non stia
avviandosi alla normalizzazione ma sia al contrario destinata ad acuirsi
ulteriormente. Il compito di Podemos, quindi, non è quello di proporre un piano
alternativo di governo, bensì quello di costruire un nuovo progetto di paese,
tenendo saldamente insieme un blocco sociale formato da settori popolari e
classi medie.
Per
attuare questo progetto occorre una riforma dell’organizzazione del partito
che, nella convulsa fase di crescita, si era concentrato sulla costruzione di
una macchina elettorale favorendo la concentrazione del potere decisionale
nelle mani del vertice. Ora si tratta di superare questo assetto verticistico
sia rafforzando le strutture di base che affondano le radici nei territori, sia
promuovendo e accompagnando la nascita di vere e proprie istituzioni di
democrazia popolare, una rete di contropoteri che faccia sì che le vittorie
siano percepite come vittorie di un blocco sociale più che come vittorie di
Podemos. Infine, se si vuole costruire un modello alternativo di Paese, il programma
di questo partito di tipo nuovo - che deve rappresentare un progetto condiviso
da identità politiche, sociali e territoriali diverse - deve compiere un salto
di qualità che il documento identifica con obiettivi ambiziosi: istituire un
controllo democratico (attraverso regolazione pubblica e/o
nazionalizzazioni) sui settori produttivi strategici e in particolare sui
settori finanziario, dell’energia, delle comunicazioni; reindustrializzare il
Paese contro la sua riduzione a Paese prevalentemente turistico imposta dalla
Ue; impegnarsi a realizzare la sovranità alimentare; offrire sostegno alla
piccola e media impresa, al cooperativismo e all’economia sociale.
Il documento di Errejón dedica
meno spazio all’analisi della fase storica, in quanto si concentra soprattutto
sui rapporti di forza fra i partiti, sulle alleanze e sulle prospettive
elettorali, dando relativamente poco peso ai fattori socioeconomici. In
particolare, vengono affrontati i seguenti temi: 1) analisi degli errori di
Podemos che, secondo Errejón, ne avrebbero frenato l’ascesa elettorale; 2)
concentrazione sulla necessità di trasformare Podemos in forza di governo; 3)
rilancio, a tale scopo, dell’ipotesi di alleanza con il PSOE (e critica
dell’alleanza con IU) ; 4) necessità di riformare il partito, ridimensionando
il potere del vertice e “femminilizzandolo”; 5) spostamento dall’obiettivo di
costruire di un blocco sociale a quello di “costruire un popolo” (vedi, in
proposito, il libro-dialogo fra Inigo Errejón e Chantal Mouffe, “Construir
pueblo”), da cui consegue la riformulazione del conflitto sociale quasi
esclusivamente nei termini della opposizione alto/basso, popolo/élite; 6) forte
attenzione per le aspettative di sicurezza e ordine delle classi medie. Ma
vediamone più in dettaglio lo sviluppo.
Per
Errejón, Podemos incarna un ciclo di mobilitazione che ha dicotomizzato la
società spagnola fra la “gente comune” e una casta privilegiata (si tratta
della formulazione “classica” del fenomeno populista secondo le teorie di
Ernesto Laclau). Perciò la sua vocazione è quella di costruire una forza
politica di tipo nuovo (al di là dei dogmi della sinistra tradizionale) che
persegua un cambio di potere in favore delle maggioranze sociali (cambio di
potere, non rottura sistemica!).
Per
superare l’attuale struttura verticistica (obiettivo sul quale concorda anche
Iglesias, come si è visto) Errejón propone una ricetta fondata sui principi
“classici” della democrazia parlamentare borghese e dei suoi partiti: divisione
dei poteri, distribuzione delle cariche in base a un criterio di
“proporzionalità” fra le correnti interne (la cui esistenza viene data per
scontata in quanto garanzia di democraticità). Infine “femminilizzazione” del
partito in ossequio a quello che in Italia definiremmo il principio delle quote
rosa (punto su cui tornerò più avanti perché mi sembra rilevante ai fini delle
differenze di prospettiva politica fra i due approcci).
![]() |
Ernesto Laclau |
Sul
tema delle alleanze Errejón è fortemente critico nei confronti dell’accordo
elettorale con IU (al quale imputa la mancata crescita nell’ultima tornata
elettorale), mentre rilancia l’ipotesi dell’alleanza con il PSOE, in barba alla
tragica crisi di questo partito e al fatto che la base aveva bocciato (vedi
documento Iglesias) tale idea. Da un lato, sostiene che se si fosse impostato
il rapporto con il PSOE in modo “laico” (implicita allusione all’ostilità
ideologica della base di sinistra nei confronti dei socialisti) si sarebbero
ottenuti risultati più produttivi di quelli realizzati con la linea di
contrapposizione frontale che si è imboccata. A parte il fatto che questa tesi
dà per scontata la possibilità di costringere il PSOE ad aderire a un’alleanza
di centrosinistra, è evidente che il risultato cui qui si allude consiste nella
possibilità che Podemos riesca finalmente a convertirsi in forza di governo. Ma
a quale prezzo politico? Il documento, non a caso, sorvola sulle politiche
condotte dal PSOE negli anni precedenti, vale a dire sulla sua piena
conversione al credo neoliberale. Forse per non ammettere che un accordo con il
PSOE implicherebbe, molto più probabilmente, un spostamento verso il centro di
Podemos piuttosto che uno spostamento a sinistra dei socialisti.
Del
resto Errejón ribadisce la propria convinzione che, alla forza delle élite, non
si può contrapporre la sinistra ma “la maggioranza eterogenea di chi sta in
basso”. Su quale sia la natura della maggioranza eterogenea che ha in testa Errejón,
ci offre un indizio il suo ripetuto riferimento alla necessità di venire
incontro alle esigenze di certezza, ordine e sicurezza della gente: il “popolo”
in questione è fatto soprattutto da quelle classi medie che sperano di poter
recuperare le posizioni di privilegio perse a causa della crisi, un popolo che
non va spaventato contraendo imprudenti alleanze con le classi subalterne. In
sintesi, potremmo dire che siamo di fronte a un progetto neo socialdemocratico,
in ragione del quale Podemos si troverebbe impegnato a integrare, assorbire
e rivitalizzare un partito socialista delegittimato per avere consegnato
il Paese al saccheggio del capitale finanziario globale.
Come
si vede l’alternativa prospettata dai due documenti è radicale: da un lato
abbiamo l’idea che la crisi è destinata ad aggravarsi e non richiede un
semplice cambio di politica economica bensì un vero e proprio cambio di
civiltà, dall’altro l’idea che esiste una possibilità di “normalizzazione”
della crisi attraverso un cambio di governo e l’adozione di misure capaci di
mitigare l’asprezza della civiltà liberista; da un lato abbiamo la concezione
di un processo costituente gestito da nuove istituzioni di contropotere
popolare e da un partito capace di guidare un blocco sociale fatto di classi
subordinate e classi medie impoverite, dall’altro lato la convinzione che basti
rivitalizzare le istituzioni della democrazia rappresentativa e rifondare la
socialdemocrazia per restituire potere decisionale al popolo.
Potremmo
anche dire che si confrontano due concezioni diverse del concetto di egemonia:
la prima ispirata all’idea di blocco sociale di Gramsci, la seconda all’idea di
popolo di Laclau - due concezioni che rinviano a due modelli diversi di
“socialismo del XXI secolo” (non va mai dimenticato che tanto Iglesias quanto
Errejón devono la propria formazione politica all’esperienza latinoamericana):
da un lato il modello della rivoluzione boliviana di Morales e Linera,
dall’altro il modello della Revolucion Ciudadana di Rafael Correa (quello, per
intenderci, che piace a Grillo: se vincesse Errejón, Podemos somiglierebbe
all’M5S assai più di quanto gli somigli adesso).
Infine
è significativa la differenza di atteggiamento dei due documenti sul tema della
parità di genere: entrambi attribuiscono un’importanza fondamentale
all’obiettivo, ma nel documento di Errejón esso è al centro di riferimenti
ripetuti quasi ossessivamente, nei quali si evoca a più riprese il concetto di
”femminilizzazione” (del partito, delle istituzioni, del programma, ecc.). Il
dubbio è che tanta insistenza sia spiegabile, più che come omaggio
all’ideologia femminista, come convergenza con la campagna globale che il
fronte liberal sta conducendo contro la minaccia populista, campagna in cui
l’ideologia politically correct, i diritti civili e individuali e l’esaltazione
di tutte le differenze – vedi sopra – vengono mobilitati per impedire che la
lotta per i diritti sociali torni a occupare il centro della scena.
Per
concludere: è auspicabile che l’eterogeneità dei due blocchi sociali e delle
due culture politiche che oggi convivono in Podemos non provochi una rottura
che sarebbe disastrosa per il movimento antiliberista spagnolo ma, almeno dal
punto di vista di chi scrive, è non meno auspicabile che l’unità venga mantenuta
sotto l’egemonia della linea di Iglesias, alla quale credo si possa
rimproverare quasi solo l’evidente incoerenza sul problema dell’Europa:
l’esperienza greca ha dimostrato che l’obiettivo di riconquistare la sovranità
popolare in materia di democrazia, welfare e politica economica non è
compatibile con la permanenza nella Ue – incompatibilità della quale, finora,
nemmeno Iglesias ha avuto il coraggio di prendere atto