1. «Collettivismo della miseria, della sofferenza»
Com’è noto, la rivoluzione che tiene a battesimo la Russia
sovietica e che, contro ogni aspettativa, si verifica in un paese non compreso
tra quelli capitalistici più avanzati, è salutata da Gramsci come la «rivoluzione contro Il capitale». Nel
farsi beffe del mecanicismo evoluzionistico della Seconda Internazionale, il
testo pubblicato su «Avanti!» del 24 dicembre 1917 non esita a prendere le
distanze dalle «incrostazioni positivistiche e naturalistiche» presenti anche
«in Marx». Sì, «i fatti hanno superato le ideologie», e dunque non è la
rivoluzione d’Ottobre che deve presentarsi dinanzi ai custodi del «marxismo» al
fine di ottenere la legittimazione; è la teoria di Marx che dev’essere ripensata
e approfondita alla luce della svolta storica verificatasi in Russia1. Non c’è
dubbio, memorabile è l’inizio di questo articolo, ma ciò non è un motivo per
perdere di vista il seguito, che non è meno significativo. Quali saranno le
conseguenze della vittoria dei bolscevichi in un paese relativamente arretrato
e per di più stremato dalla guerra?:
«Sarà in principio il collettivismo della miseria, della sofferenza. Ma le stesse condizioni di miseria e di sofferenza sarebbero ereditate da un regime borghese. Il capitalismo non potrebbe subito fare in Russia più di quanto potrà fare il collettivismo. Farebbe oggi molto meno, perché avrebbe subito di contro un proletariato scontento, frenetico, incapace ormai di sopportare per altri i dolori e le amarezze che il disagio economico porterebbe […]. La sofferenza che terrà dietro alla pace potrà essere solo sopportata in quanto i proletari sentiranno che sta nella loro volontà, nella loro tenacia al lavoro di sopprimerla nel minor tempo possibile».
In questo testo il comunismo di guerra che sta per imporsi
nella Russia sovietica viene al tempo stesso legittimato sul piano tattico e delegittimato
sul piano strategico, legittimato per l’immediato e delegittimato con lo
sguardo rivolto al futuro. Il «collettivismo
della miseria, della sofferenza» è giustificato per le condizioni concrete
in cui versa la Russia del tempo: il capitalismo non sarebbe in grado di fare nulla
di meglio. Ma il «collettivismo della
miseria, della sofferenza» deve essere superato «nel minor tempo possibile».
Non è affatto un’affermazione banale. Vediamo in che modo il
francese Pierre Pascal interpreta e saluta la rivoluzione bolscevica di cui è
testimone diretto:
«Spettacolo unico e inebriante: la demolizione d’una società. Si stanno realizzando il quarto salmo dei vespri domenicali e il Magnificat: i potente rovesciati dal trono e il povero riscattato dalla miseria […]. I ricchi non ci sono più: solo poveri e poverissimi. Il sapere non conferisce né privilegio né rispetto. L’ex operaio promosso direttore dà ordini agli ingegneri. Alti e bassi salari s’accostano. Il diritto di proprietà è ridotto agli effetti personali».
Lungi dal dover essere superata «nel minor tempo possibile»,
la condizione per cui ci sono «solo poveri e poverissimi» ovvero, nel linguaggio
di Gramsci, il «collettivismo della miseria, della sofferenza», tutto ciò è
sinonimo di pienezza spirituale e di rigore morale. È vero, Pascal era un fervente
cattolico, ma ciò non significa che i bolscevichi fossero immuni da questa
visione all’insegna del populismo e del pauperismo. Anzi, ci si può chiedere se
non ci sia traccia di populismo e pauperismo nella definizione che trasfigura
come «comunismo» e sia pure come «comunismo di guerra», un regime
caratterizzato dal tracollo dell’economia (con il ritorno a tratti al baratto)
e in certi momenti dalla requisizione forzata degli alimenti necessari alla sopravvivenza
della popolazione urbana; un regime cioè che Gramsci più correttamente
definisce quale «collettivismo della miseria, della sofferenza». Nel 1936-37 è
Trotskij a ricordare criticamente «le tendenze ascetiche dell’epoca della
guerra civile», diffuse tra i comunisti, il cui ideale sembrava essere la
«miseria socializzata». È una formula che fa pensare a quella di Gramsci ma
che è posteriore di quasi vent’anni.
A descrivere nel modo più efficace, negli anni ’40, il clima
spirituale dominante nel periodo immediatamente successivo alla rivoluzione d’Ottobre
è un militante di base del partito comunista dell’Unione sovietica: «Noi giovani comunisti eravamo tutti
cresciuti nella convinzione che il denaro fosse stato tolto di mezzo una volta
per tutte […]. Se ricompariva il denaro, non sarebbero ricomparsi anche i
ricchi? Non ci trovavamo su una china scivolosa che ci riportava al capitalismo?».
A provocare la catastrofe della guerra erano stati la gara
per la conquista delle colonie, dei mercati e delle materie prime, la caccia al
profitto, in ultima analisi l’auri sacra
fames, e dunque il «comunismo di guerra» non solo era sinonimo di giustizia
sociale ma era anche la garanzia che non si sarebbero più verificate tragedie
del genere. Era un clima non certo confinato in Russia. Nel 1918 il giovane
Ernst Bloch si attendeva, sull’onda della rivoluzione d’Ottobre, l’avvento di
un mondo liberato una volta per sempre da «ogni economia privata», da ogni «economia
del denaro» e, con essa, dalla «morale mercantile che consacra tutto quello che
di più malvagio vi è nell'uomo».
Secondo il Manifesto
del partito comunista, i «primi moti del proletariato» sono spesso
caratterizzati da rivendicazioni all’insegna di «un ascetismo universale e un rozzo
egualitarismo»; d’altro canto, non c’è «nulla di più facile che dare all’ascetismo
cristiano una mano di vernice socialista»6. È esattamente quello che si
verifica nella Russia rivoluzionaria. Si deve però subito aggiungere che il
fenomeno così efficacemente descritto da Marx ed Engels ha un’estensione
temporale e spaziale ben superiore a quella da loro suggerita.
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Anche nel
Novecento, e persino nell’ambito di movimenti che fanno professione di materialismo
storico e di ateismo, troviamo confermata la regola per cui le grandi
rivoluzioni popolari, i sommovimenti di massa delle classi subalterne tendono a
stimolare un populismo spontaneo e ingenuo, che, ignorando del tutto il
problema dello sviluppo delle forze produttive, si attende o celebra la
riscossa di coloro che occupano l’ultimo gradino della gerarchia sociale, la riscossa
dei poveri e dei «poveri nello spirito».
A questa tendenza Gramsci risulta estraneo già dai suoi
primi interventi.