Giuseppe Acconcia
| Molti analisti e accademici hanno sottovalutato l’anima sociale
delle rivolte che hanno attraversato il Medio Oriente tra il 2011 e il 2015.
Eppure altri studiosi, come Giulio Regeni, hanno sottolineato quanto le
proteste fossero radicate nella trasformazione dei rapporti tra stato, capitale
e lavoro che hanno avuto luogo nei 35 anni precedenti al 2011 a livello locale
e globale. Per esempio, Joel Beinin nel suo Workers and thieves. I movimenti dei lavoratori e le rivolte
popolari in Tunisia ed Egitto (Stanford, p. 176, 2015) è lo studioso del
Medio Oriente che più ha puntato sul uy–monitoraggio delle proteste dei
lavoratori.
Secondo il docente dell’Università di Stanford,
i sindacati egiziani hanno pagato la minore organizzazione rispetto all’Unione
generale del Lavoro (Ugtt) in Tunisia. Già Gilbert Achcar, docente dell’Università di
Parigi, con The People Want. Un’esplorazione radicale
delle rivolte arabe (Saqi Books, 2013) aveva
anticipato che il movimento del 2011 era il risultato di una lunga battaglia
sociale al cui centro c’era un movimento popolare che parte dal basso.


Alexander e Bassiouny in Pane, Libertà e Giustizia sociale. Operai e
rivoluzione (Zed Books, 2014) capovolgono magistralmente la centralità
mediatica delle piazze, come Tahrir, e assicurano che le vere battaglie si sono
svolte nelle periferie a tal punto che gli scioperi «hanno creato una nuova geografia urbana».
Tuttavia, gli autori sottolineano i limiti
dell’integrazione tra battaglie politiche e sociali: «I lavoratori non hanno
impiegato il loro potere collettivo e sociale per risolvere la crisi politica
della classe dirigente a loro favore». Gli autori adottano un punto di vista
più sfumato per giudicare l’azione politica dei Fratelli musulmani, definendoli
conservatori più che «reazionari», come è stata abituata a fare una parte della
sinistra, da Samir Amin ad Alaa al-Aswany, finendo per fare il gioco dei regimi
autoritari al potere. E così un politico neo-nasserista come Hamdin Sabbahi,
candidato alle presidenziali del 2012 in Egitto, ha finito per preferire
un’alleanza controproducente con gli uomini del vecchio regime piuttosto che un
accordo politico con gli islamisti moderati.
Sui rapporti tra sinistra e Fratellanza
musulmana, Patrizia Manduchi, docente all’Università di Cagliari, in I movimenti giovanili nel mondo arabo
mediterraneo (Carocci, 2014) spiega in modo molto efficace le dinamiche
repressive, soprattutto da parte della polizia che spinsero, prima delle
rivolte del 2011, i Fratelli musulmani ad accordarsi con i Socialisti
rivoluzionari nell’Alleanza nazionale per il cambiamento e nei sindacati
universitari. Lo stesso avvenne nei movimenti contro la guerra in Iraq del 2003
e nella campagna di solidarietà con l’Intifada palestinese (2000).


Concorderebbe su questo anche la docente
dell’Istituto universitario europeo, Donatella Della Porta che in Mobilizing for Democracy. Comparando il 1989
con il 2011 (Oxford University, 2014), confronta le transizioni
democratiche in Cecoslovacchia e nella Repubblica Democratica tedesca del 1989
con le rivolte in Egitto e Tunisia del 2011. Le conclusioni della studiosa sono
che i movimenti sociali erano più sviluppati in Nord Africa e Medio oriente che
nell’Europa dell’Est. Sebbene nel primo caso gli antagonisti fossero più
repressi dalle autorità statali, c’era qui una più forte organizzazione dei
lavoratori rispetto al secondo caso.

Eppure,
come spiega benissimo Charles Tripp, docente di Scienza politica all’Università
di Londra (Soas), in The Power and
the People. Percorsi di resistenza in Medio
oriente (Cambridge, 2013), dove racconta in modo originale i 18 giorni di
occupazione della piazza e i movimenti sociali, la politica economica dei
governi ad interim egiziani (2013–2015, con tagli ai sussidi e grandi opere)
niente ha a che fare con il socialismo e il nasserismo, risponde solo alla
necessità di al-Sisi di rappresentare le sue azioni come create su misura dalle
richieste della strada e dei movimenti dei lavoratori.
Evidentemente i Fratelli musulmani non sono stati capaci di integrare nelle loro
politiche le richieste di poveri e delle classi subalterne, mentre in altri
contesti, per esempio durante la rivoluzione iraniana del 1979, il clero sciita
ha saputo cooptare una parte dei movimenti di strada nel sistema assistenziale
post-rivoluzionario.
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