Samuele Mazzolini | L’ultima fatica di Michele Filippini, Una politica di massa. Antonio Gramsci e la
rivoluzione della società, Carocci, Roma 2015 è un libro
contenutisticamente ricco, rigoroso sul piano della ricostruzione, pieno di
accenni teorici e rimandi storici sempre esaustivi, come d’altronde ben
testimoniato dalla folta bibliografia. Tuttavia, non è di ricostruzione storica
che il libro si occupa, e nemmeno di questioni post-gramsciane, interesse che
l’autore ha dimostrato in altre sedi (Filippini, 2011; Laclau e Mouffe, 2011).
Qui invece la riflessione è prettamente gramsciana, rimanendo tesa all’esercizio esegetico del corpus del pensatore sardo. Il prisma attraverso cui questa interpretazione viene condotta non è però scontato ed è in questo aspetto che il contributo risulta prezioso. Si tratta infatti di rileggere Gramsci alla luce di due delle grandi novità, fra loro correlate, che caratterizzarono la sua epoca: l’irruzione della politica di massa e lo sviluppo delle scienze sociali. L’opera rimane in questo senso una lettura storica per espresso obiettivo del libro, ma che potenzialmente fornisce spunti e intuizioni di grande impatto strategico anche per la politica odierna, se ripensati sulla scorta delle circostanze attuali.
Qui invece la riflessione è prettamente gramsciana, rimanendo tesa all’esercizio esegetico del corpus del pensatore sardo. Il prisma attraverso cui questa interpretazione viene condotta non è però scontato ed è in questo aspetto che il contributo risulta prezioso. Si tratta infatti di rileggere Gramsci alla luce di due delle grandi novità, fra loro correlate, che caratterizzarono la sua epoca: l’irruzione della politica di massa e lo sviluppo delle scienze sociali. L’opera rimane in questo senso una lettura storica per espresso obiettivo del libro, ma che potenzialmente fornisce spunti e intuizioni di grande impatto strategico anche per la politica odierna, se ripensati sulla scorta delle circostanze attuali.
Vale la pena di soffermarsi sui due aspetti centrali per inquadrare meglio il campo all’interno del quale si muove il contributo di Filippini. La politica di massa corrisponde al trasferimento del locus della pensabilità del politico dal palazzo alla società, e più concretamente alla moltiplicazione dei corpi intermedi che mobilitano e attivano fasce crescenti di popolazione, infittendo in tal modo le trame sociali, politiche ed economiche. È una transizione di non poco conto, giacché presuppone un’uscita delle masse dalla passività che le aveva contraddistinte in epoche precedenti e che pone una sfida particolarmente delicata per il mantenimento della società borghese.
Il capitolo iniziale ben testimonia questa attenzione per la
società di (e per la) massa. Qui viene analizzatain primis la crisi
dell’ordine liberale di inizio secolo. Emerge in queste pagine la curiosa
convergenza del giovane Gramsci con il liberismo economico, da intendersi in
netta contrapposizione al liberalismo politico. Il liberismo economico infatti,
a differenza dei canali integrativi del riformismo e del protezionismo
ampiamente abusati dal giolittismo e dalla sinistra storica, spinge senza
mediazioni per un processo di massificazione e socializzazione capitalista,
pre-condizione per una socializzazione diversa e alternativa. Quella di Gramsci
è dunque una convergenza figlia di una lettura meccanicista, che prevede il
pieno sviluppo dello stadio capitalista e di tutte le sue contraddizioni prima
di poter transitare verso un nuovo ordine.
Non si tratta di un meccanicismo destinato a durare.
Gramsci, riconoscendo appieno la portata della Rivoluzione Russa e
dell’elemento soggettivo, non tarda a vedere nel trionfo del leninismo una
rivoluzione contro Il Capitale di
Marx e i rigidi canoni del materialismo storico. In questo contesto non viene
esplicitato come Gramsci, nel periodo che va dal 1916 al 1919, renda
compatibili la necessità di libertà economica volta alla massificazione e
questi sprazzi di eterodossia, ma ciò è forse in virtù di un’ambiguità che
rimane latente negli stessi scritti di Gramsci e che si dipanerà completamente
soltanto qualche anno dopo.
Tuttavia, è proprio all’interno del milieu liberista
torinese che si sviluppano una serie di elaborazioni teoriche che avranno una
prima importante influenza lessicale e orienteranno gli interessi di Gramsci. A
quest’ultimo non sfugge che lo sviluppo di questi nuovi apparati teorici ed
analitici – e qui abbiamo il secondo asse portante del libro – è strettamente
collegato all’apparizione della società di massa e alla necessità ingigantita
dell’ordine borghese di controllo e disciplina. L’interesse di Gramsci è
spiegato da Filippini come un ripensamento della teoria della rivoluzione:
viene infatti compreso che il sovvertimento non avverrà attraverso un colpo di
mano, bensì tramite ‘una strategia articolata, che deve basarsi sulla
conoscenza delle dinamiche che influiscono e determinano l’ordine stesso’ (p.
33). Un Gramsci, dunque, interessato alla fitta rete di meccanismi e fenomeni
di disciplinamento non direttamente politici, ma tipicamente sociali, che in un
primo momento vengono scambiati per riflesso della struttura economica, salvo
poi essere compresi pienamente nel loro ruolo di riproduzione dell’ordine
borghese. La vera sfida dell’opera di Filippini è quindi inquadrare il contesto
di massificazione e gli strumenti delle scienze sociali che corrono in ausilio
delle nuove esigenze di questo tipo di società, per poi capire come queste
suggestioni vengano percepite, ma soprattutto rielaborate da Gramsci, e messe
al servizio di un progetto di società diverso. In tal modo, il doppio statuto
del pensiero gramsciano è posto in primo piano: da una parte l’aspetto
analitico , la «filologia della società», dall’altra lo slancio
strategico-programmatico.
Il primo capitolo presenta un crogiolo di temi gramsciani
trattati negli scritti pre-carcerari: argomenti non interamente dissimili fra loro,
ma talvolta disassati. In questo modo, la trama non si svela immediatamente, ma
emerge con maggior chiarezza lungo il corso del testo. Qui trovano spazio le
considerazioni di Gramsci circa il conformismo, concettualizzato come
un’inerzia diffusa che risulta funzionale al mantenimento armonico della
formazione sociale e che è indotta attraverso pratiche di potere che si
intrufolano fino agli aspetti più intimi della vita dell’uomo. Tale elemento
viene approfondito nel secondo capitolo con un riferimento alla disamina
gramsciana dei minuti fenomeni della vita quotidiana e il ruolo sottile
dell’ideologia. Quest’ultima, tuttavia, non è più intesa da Gramsci come un
apparato mistificatore e induttore di falsa coscienza, bensì – in una mossa che
anticipa Althusser – come un sistema di idee, una visione del mondo che
inquadra gli individui in schemi d’azione preordinati, contribuendo in tal modo
a sostenere ‘spontaneamente’ un sistema di potere.
A ben vedere però, sono soprattutto le riflessioni
epistemologiche di Gramsci a rivestire un ruolo principe nel primo capitolo. In
questo senso, Gramsci è critico sia del positivismo delle scienze sociali che
di quello evoluzionista di marca socialista, ma nonostante ciò ne importa i
concetti di ‘modello’ e ‘legge’, pur attenuandone la portata. In altre parole,
modello e legge rappresentano per Gramsci degli strumenti di somma importanza
per l’indagine della realtà sociale, anche quando non vanno loro attribuiti
valori assoluti come nel caso delle scienze naturali. L’inevitabilità insita
nel positivismo socialista viene però avversata da Gramsci senza riserve, a
causa della passività politica che induce tra le masse operaie. Tuttavia, il
pensiero stesso di Gramsci ne risulta influenzato: un esempio tra tutti è la
concezione della società come un organismo di cui studiare le disfunzioni.
Queste “anomalie” vengono però spiegate attraverso la presenza di norme sociali
diverse, portatrici del seme di un nuovo conformismo ispirato a un’altra
umanità.
Di questo seme è depositaria, per Gramsci, la classe
operaia, anche in virtù delle condizioni di socialità strutturata e
concentrazione che rendono la fabbrica il posto più congeniale all’apparizione
di un’alternativa. Un Gramsci operaista negli anni del biennio rosso dunque?
Filippini affronta in modo persuasivo questo nodo classico dell’interpretazione
di Gramsci rifiutando l’ipotesi della discontinuità teorica, e inquadrando le
riflessioni di quegli anni nella congiuntura storica dell’agitazione operaia.
Gramsci, dunque, non rinuncia a concepire gli operai come la classe
fondamentale, ma sempre nella cornice di un’alleanza con i contadini e i gruppi
sociali intermedi – vera e propria novità del pensiero gramsciano nel solco
avviato da Lenin.
Con il secondo capitolo, l’attenzione passa interamente ai
Quaderni. Il punto di partenza è la concezione dell’uomo, per Gramsci un
dinamico «centro di annodamento» tra individualità e mondo esterno, un’entità
stratificata all’interno della quale coesistono in tensione permanente la
soggettività individuale e l’oggettività della pressione sociale. Oltre
all’influenza marxista, Filippini scorge qui l’impatto della sociologia
francese e di Émile Durkheim in particolare; ma mentre per quest’ultimo gli
individui sono ‘contenuti da un principio di coesione che è immanente alla
società’ (p. 72) e che quindi impedisce che una parte vi agisca con possibilità
di stravolgerla, Gramsci ravvisa una fessura che contempla il sovvertimento dei
rapporti vigenti, attraverso la costituzione di una personalità – collettiva in
questo caso – di un settore della società in risposta alle condizioni di
socialità a cui è sottoposta.
È a cavallo tra la resistenza dell’ordine capitalista in
Occidente e lo sviluppo della società comunista in Unione Sovietica che si
sviluppa il tema dell’organicità in Gramsci, a cominciare dalla celeberrima
questione degli intellettuali. Qui, secondo Filippini, il contributo originale
in Gramsci ha a che fare non tanto con il processo di costituzione di
un’intellettualità propria della classe operaia, ma piuttosto con la relazione
da stabilire con gli intellettuali classici, concettualizzati da Gramsci come
‘sedimentazione storica di mutamenti politici e sociali del passato’ (p. 76) e
quindi organici alla società in generale, ma non necessariamente al gruppo
dominante. L’autonomia di cui godono questi intellettuali li rende in qualche
modo conquistabili alla causa della classe operaia, attraverso l’erosione dei
legami esistenti con il gruppo dominante e il loro riorientamento. Si tratta di
un problema tecnico oltre che politico, il quale ha avuto la sua massima
espressione nelle difficoltà dei bolscevichi a gestire l’apparato burocratico
con i ‘tecnici borghesi’. Si noti quindi che per Gramsci – e di questo aspetto
dà ben conto il quinto capitolo – la nozione di intellettuale ha un’estensione
maggiore rispetto alla concezione tradizionale che contempla unicamente la
dimensione teorica, includendo qualunque figura sia in qualche modo funzionale
all’organicità di un determinato ordine e portatrice di una razionalità che la
legittima e la precede.
Queste riflessioni rendono chiara l’idea di come per Gramsci
la preoccupazione maggiore sia quella di gettar luce sui dinamici meccanismi
interni alla società civile che permettono l’esistenza di un determinato ordine
politico. Emerge qui tutta l’eterodossia di Gramsci: non è sufficiente che un
gruppo si affermi nel mondo della produzione né che costituisca
un’intellettualità rigorosa tale da rendere il gruppo omogeneo e consapevole.
Piuttosto, c’è bisogno di aggredire l’organicità della società stessa attraverso
una guerra di posizione che disarticoli e riarticoli diversamente gli elementi
esistenti. Seguendo le tracce dell’organicità, si arriva anche alla concezione
gramsciana del centralismo democratico (o organico) in contrapposizione a
quello burocratico: mentre quest’ultimo prevede una semplice cooptazione
attorno a una direzione sacerdotale, il primo consiste nell’adeguamento
dell’organizzazione al movimento della realtà, alla ricerca di una forma
unitaria che permetta tuttavia pluralità e conflittualità al proprio interno,
cercando in tal modo il consenso attivo e partecipato dei singoli. Solo così
sarà possibile approfittare delle crisi oggettive di organicità dell’ordine
capitalista: attraverso un movimento soggettivo che rende concreta un’organicità
alternativa, la quale appunto si coltiva costituendo una nuova struttura
sociale, un nuovo blocco storico.
Filippini affronta poi i giudizi negativi espressi da
Gramsci riguardo al testo ‘La teoria del materialismo storico’ di Nikolaj
Bucharin. Vi è qui una lunga digressione storica che contestualizza
l’intervento gramsciano e che permette una rilettura radicale del rapporto
intellettuale tra i due. Secondo Filippini infatti, Gramsci fraintende il
contributo buchariniano, il cui nocciolo è in realtà consonante al suo. In
breve, entrambi sostengono l’importanza dei nessi causali nello studio della
società, nel nome di una certa regolarità dei fenomeni sociali. Questo però non
li porta ad abbracciare il fatalismo, coscienti del fatto che la relativa
stabilità di certe dinamiche non possa portare ad ascrivere alcuna finalità ai
processi storici. Nel dibattito moderno, si tratta di una mossa simile a quella
compiuta da Jon Elster attraverso la sua nozione dei meccanismi causali, veri e
propri sostituti delle leggi: i meccanismi, in altre parole, hanno capacità
esplicativa, ma non di previsione. Dove invece la critica gramsciana di
Bucharin coglie nel segno, secondo Filippini, è nel rifiuto dell’oggettività
come dato immodificabile, ritenendola piuttosto il frutto della battaglia tra
diverse ideologie, le quali svolgono una funzione unificante, normalizzante,
rendendo storica l’oggettività. Bucharin invece, pur dando ampio spazio alla
questione delle sovrastrutture, giustifica il materialismo storico attraverso il
senso comune, e quindi rimpicciolendo lo spazio per una presa di coscienza
critica sull’oggettività.
Altrettanto importanti sono le convergenze più schiettamente
politiche tra i due. Spicca in questo senso l’equazione tra la teoria
dell’equilibrio di Bucharin e quella dell’egemonia di Gramsci. Il russo,
attraverso la NEP, aveva infatti dato vita alla costruzione di un’alleanza tra
operai e contadini sul piano economico, base del nuovo blocco storico da
costruire. Gramsci crede che questa operazione vada svolta anche a monte della
conquista dell’apparato statale: la funzione dirigente, vera e propria cifra del
concetto di egemonia, consiste per la classe operaia nel forgiare i nessi
nell’ambito culturale e intellettuale con altri settori sociali prima della
presa del potere. Tuttavia, è anche nell’analisi della fase successiva alla
presa del potere che Filippini scorge una corrispondenza tra Bucharin e
Gramsci. Entrambe le teorie contemplano infatti la fluidità dell’equilibrio e
con essa la necessità di rinnovare all’interno della «vita statale», intesa da
Gramsci in termini allargati come connubio tra società politica e società
civile, la tessitura tra gli interessi del gruppo fondamentale e di quelli
subordinati.
Sarebbe però sbagliato leggere Gramsci come un autore
esclusivamente interessato a preoccupazioni di indole culturale. Di questo
Filippini rende ben merito mettendo a tema le riflessioni di Gramsci su
americanismo e fordismo, che non sono altro che le trasformazioni “di massa”
nella sfera economica. Su questo punto l’autore del testo sottolinea
giustamente che le trasformazioni produttive vengono inquadrate da Gramsci in
un contesto societario più ampio che non si esaurisce con la fabbrica. Si
tratta cioè dei processi di disciplinamento che includono il tentativo di
regolamentare l’intera vita dell’operaio e renderla consona alle nuove esigenze
produttive. Per il pensatore sardo però, questo tentativo è destinato a
rimanere inconcluso, in quanto a suo dire il lavoratore non riuscirà mai a
interiorizzare del tutto quella che resta un’imposizione esterna (pur condotta
soprattutto attraverso mezzi persuasivi), in contrasto con quanto starebbe
accadendo in Unione Sovietica, dove invece i lavoratori acquisiscono e fanno
propria una nuova disciplina. Vi è qui un elemento di ambiguità che è bene
porre in rilievo. Gramsci infatti trova che l’americanismo, la fusione cioè tra
taylorismo (un discorso tecnico di razionalizzazione aziendale) e il fordismo
(il disciplinamento di cui sopra), rimanga aperto alla conflittualità,
all’irruzione dell’anticonformismo operaio. Un’insistenza che tradisce i
residui di necessità in Gramsci: se la contingenza che implicitamente tematizza
fosse veramente assunta fino in fondo, ogni ordine sarebbe esposto per
definizione all’instabilità, mentre Gramsci sembra suggerire la possibilità di
trascenderla in un sistema comunista, grazie a una completa e naturale
interiorizzazione della disciplina che viene richiesta.
Su ciò che viene definito il nesso psico-fisico, cioè il
tipo di equilibrio psichico e fisiologico richiesto dall’industrialismo
americano, Filippini traccia un pregevole parallelo tra le riflessioni di
Gramsci e quelle di Max Weber. Anche il tedesco infatti si concentra nello
studio delle qualità caratteriologiche preferite dalla moderna industria e su
quanto quest’ultima sia al contempo legata a una serie di condizioni pre-esistenti
nel corpo produttivo. Ne emerge però un quadro pessimista di fronte a ciò che
Weber definisce la gabbia d’acciaio della razionalizzazione, la quale determina
una perdita di senso del mondo e che può essere mitigata solamente da una forza
d’animo individuale. Gramsci al contrario ribalta l’ineluttabilità weberiana,
nella convinzione che il processo sia dipendente dal comando politico che lo
promuove (il quale può essere cambiato) e che il prototipo di operaio medio che
l’americanismo cerca di plasmare attraverso un assortimento di coercizione e
salari alti sia impossibile da ottenere. Solo in ordine nuovo, caratterizzato
da un’altra condotta che l’operaio sarà in grado di recepire come
emancipatrice, il potere “conformante” potrà essere percepito come propria
emanazione.
Per questo c’è bisogno di un nuovo rapporto tra governanti e
governati. Di questo si occupa l’ultimo capitolo del libro. Qui, come segnala
lo stesso Filippini, si intrecciano i campi semantici della democrazia e della
rivoluzione. D’altronde, il paradosso che si crea tra democrazia intesa come
governo del popolo e democrazia intesa come tecnica di decisione di quella che
resta una minoranza, si intensifica nella società di massa e pone in evidenza
difficoltà non del tutto estranee al campo rivoluzionario. Gramsci infatti
assume criticamente la trattazione di queste problematiche effettuata da
scienziati sociali estranei alla sua tradizione, per poi riorientarne le
acquisizioni al servizio del rinnovo della teoria rivoluzionaria. In particolare,
Gramsci rivolge la propria attenzione ai concetti di ‘classe politica’ in
Gaetano Mosca ed ‘élite’ in Vilfredo Pareto: nozioni che lo aiuteranno a
sviluppare la famosa distinzione tra classe dirigente e classe dominante.
Filippini tuttavia si sofferma in particolare sul rapporto tra individuo
singolo ed organismo collettivo. In questo senso, il «moderno principe» deve
evitare di riprodurre la divisione tra lavoro intellettuale e lavoro manuale,
così come quella speculare tra rappresentanti e rappresentati. Questo in vista
della necessità di anticipare nella società presente gli elementi dell’ordine
nuovo. Il partito della classe operaia, in altre parole, è antesignano del
nuovo Stato e deve già covare al proprio interno una relazione diversa tra comando
e obbedienza. Fa bene l’autore a sottolineare a questo punto la dipartita del
pensiero gramsciano da quello leninista, all’interno del quale invece il
partito svolge una funzione di avanguardia: un’esperienza irripetibile in
Occidente, dove una nuova volontà collettiva va costituita all’interno del
vecchio ordine, aderendo il più possibile alla vita intima delle masse.
È in questo senso chiara la sfida che Gramsci lancia alla
«legge dell’oligarchia» di Robert Michels, il quale postulava invece il governo
di una piccola minoranza su una grande maggioranza all’interno degli organismi
collettivi come una necessità assoluta, imputabile a fattori organizzativi e
psicologici intrinseci. Per Gramsci, la soluzione risiede invece nella
creazione di élites intellettuali che rimangono a stretto contatto con la massa
e che ricevono la propria spinta dal basso, pur senza abdicare a un ruolo
educativo che rivoluziona i costumi dell’epoca. In tal senso, la continuità
della struttura non può essere messa in discussione, altrimenti si corre il
rischio dell’improvvisazione: la filosofia della prassi di Gramsci traccia
quindi un percorso teso ad evitare la Scilla del burocratismo e il Cariddi
della discontinuità, tenendo sempre presente la necessità di assicurare un
rapporto fluido e dinamico tra masse ed élites.
Per concludere, l’opera di Filippini compie una serie di
operazioni teoriche con importanti ricadute sui piani dell’analisi e della
strategia. In primo luogo, l’autore mette in luce come Gramsci tenda sempre ad
ampliare l’accezione dei concetti e dei fenomeni sociali. Nozioni come diritto,
coercizione, Stato assumono nuove connotazioni nella rielaborazione di Gramsci,
e Filippini inquadra particolarmente bene questo movimento con un lavoro
esegetico ottenuto grazie a un sistematico raffronto tra il corpus gramsciano e
gli stimoli intellettuali delle scienze sociali a lui coeve. Si tratta di
estensioni concettuali che non diluiscono le nozioni, ma le arricchiscono,
gettando luce su aspetti spesso rimasti inesplorati e fornendo nuovi strumenti
di comprensione della realtà. Come non cogliere in questo lavoro, dunque, un
monito verso coloro che da sinistra perseguono i propri obiettivi analitici in
isolamento rispetto a quanto avviene odiernamente nel contesto delle scienze
sociali mainstream, le quali possono risultare preziose, previo
re-indirizzamento, alla teoria emancipatrice.
Tale avvizzimento ha un parallelo anche nella sfera
strategica. Filippini rende ben onore alla carica anti-positivista di Gramsci e
alla sua natura di pensatore marxista eterodosso. Gramsci ci viene restituito
come vero innovatore del marxismo, grazie allo sdoganamento dell’importanza
della soggettività e del carattere storico dell’oggettività. Sono passaggi con
ricadute particolarmente ricche su come impostare la pratica politica
emancipatrice, non tanto in virtù del riconoscimento della varietà geografica
occidentale che vuole lo Stato e il suo rapporto con la società civile diversi
(un Gramsci come Lenin dell’Europa Occidentale, nell’intepretazione di Biagio
Di Giovanni), quanto in virtù dell’indebolimento del riduzionismo classista. Su
questo fronte abbiamo quindi un richiamo velato a tutti coloro che hanno
imbalsamato Gramsci, attraverso un immagazzinamento e una riproposizione
statica del suo pensiero, con l’effetto di trasformare la figura in una
semplice immagine votiva di cui citare i passi più celebri. Di Gramsci, in
altre parole, non si coglie oggigiorno il metodo: lo storicismo assoluto,
nozione di cui Filippini non fa mai esplicitamente menzione, ma che aleggia
pervasivamente lungo il testo. Certo, come sottolineato qualche riga più su,
permangono dei residui di economicismo ed essenzialismo in Gramsci, propri in
parte della centralità operaia della sua epoca e in parte di un percorso di rinnovamento
del marxismo non ancora completo: questioni che Filippini non tematizza, ma che
d’altronde rimangono fuori dallo scopo dichiarato del libro. Tuttavia, è
proprio lo slancio volto alla revisione dei fondamenti, pur mantenendo un
solido ancoraggio alla tensione ideale di partenza, a risultare centrale. Forse
dunque, essere fedeli a Gramsci vuol dire non tanto aderire strictu senso al
contenuto del suo corpus, quanto allo spirito che lo ha animato.
Bibliografia
Filippini, M. (2011) Gramsci globale. Guida pratica alle intepretazioni di Gramsci nel mondo,
Bologna: Odoya
Laclau, E. e Mouffe, C. (2011) Egemonia e strategia socialista. Verso una politica democratica
radicale (1985), traduzione di F.M. Cacciatore e M. Filippini, Genova: Il
Melangolo
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