Lelio La Porta |
A pagina 28 del Corriere della
Sera del 10 gennaio scorso appariva un articolo a firma Tommaso Labate
intitolato: Da Pasolini a Gramsci,
l’appropriazione interessata dell’album di sinistra. A proposito di
Gramsci, l’autore faceva presente come il noto “Odio gli indifferenti” sia
“diventato lo slogan di un (…) moderato doc, Alfio Marchini”. Infatti,
non sarà sfuggito a quante e a quanti frequentano i piuttosto malmessi servizi
pubblici della Capitale che alcuni autobus sono tappezzati dalla propaganda
elettorale (a Roma si voterà in primavera per l’elezione del Sindaco) del
“moderato doc”, appena citato, sulla quale campeggia il famoso incipit dell’articolo gramsciano del febbraio del 1917.
Le compagne e i compagni, le lettrici e i lettori di questo
settimanale vorranno perdonare l’autore di queste brevi note di riflessione per
le modalità di inizio, in chiave non tanto polemica quanto indignata, di un
articolo il cui cuore è il ricordo del 125° anniversario della nascita di
Antonio Gramsci (22 gennaio 1891 ad Ales).
Nel numero 48 della rivista “Current Comments” del dicembre del 1986 compare una ricerca a firma di Eugene Garfield dal titolo The 250 Most-Cited Authors in the Arts & Humanities Citation Index, 1976-1983, nella quale ci sono soltanto cinque autori italiani dal XVI secolo in poi: Giorgio Vasari, Giuseppe Verdi, Benedetto Croce, Umberto Eco, Antonio Gramsci.
Commentando i risultati di questa ricerca Hobsbawm osservava
che “in questo elenco non è compreso né Vico né Machiavelli, mentre invece è
citato Antonio Gramsci”. Inseriamo un breve e recente commento alle parole
dello storico inglese: “Se questo era vero quindici anni fa, oggi una
classifica del genere farebbe di certo scalare qualche altra posizione al
politico e intellettuale comunista italiano che trascorse quasi dieci anni
nelle prigioni di Mussolini” (M. Filippini, Gramsci globale. Guida pratica
alle interpretazioni di Gramsci nel mondo, Odoya, Bologna, 2011, p. 7).
Torniamo a Hobsbawm che aggiungeva: “Essere citati non significa ancora garanzia di conoscenza e neppure di
comprensione per l’autore in questione, tuttavia è pur sempre indizio di una
presenza intellettuale” (E. J. Hobsbawm, Per capire le classi
subalterne in “Rinascita-Il Contemporaneo”, Gramsci nel mondo, 28 febbraio
1987). Lo stesso Hobsbawm, alcuni anni dopo, presentando una serie di saggi
sulla conoscenza e la diffusione di Gramsci nel mondo, scriveva:
“Gramsci è divenuto ‘importante’ (…) persino fuori dal suo Paese, dove la sua statura nella storia e nella cultura nazionale è stata riconosciuta praticamente fin da subito. Adesso è riconosciuta nella maggior parte del mondo. La fiorente scuola di ‘studi subalterni’, che ha il suo centro a Calcutta, sostiene anzi che l’influenza gramsciana sia tuttora in espansione. Gramsci è sopravvissuto alle congiunture politiche che furono alla base del suo primo successo internazionale. È sopravvissuto allo stesso movimento comunista europeo. Ha dimostrato la sua indipendenza dagli alti e bassi delle mode ideologiche (…). È sopravvissuto a quella chiusura nei ghetti delle accademie che pare essere il destino di tanti altri pensatori del ‘marxismo occidentale’. È persino riuscito ad evitare di divenire un ‘ismo’” (E. J. Hobsbawm, Gramsci in Europa e in America, a cura di Antonio A. Santucci, Laterza, Roma-Bari, 1995, pp. IX-X).
Quindi Gramsci è sicuramente un classico ma è un classico
molto “inattuale” e, per questo, scomodo, soprattutto nei tempi che viviamo, in
quanto pone al centro dell’attenzione le questioni della grande politica che si
collocano al di là della semplice amministrazione e vanno a coinvolgere temi e
trasformazioni di portata inaudita:
“La giustizia, la libertà, l’eguaglianza, addirittura l’elementare diritto alla vita, non sono infatti capitoli di filosofia morale, ma finalità specifiche della democrazia politica non ancora acquisite ovunque. Se continueranno a restare ai margini, allora sì che le idee di Gramsci saranno definitivamente sconfitte” (Antonio A. Santucci, Antonio Gramsci 1891-1937, Sellerio, Palermo, 2005, p. 173).
Proprio nel tentativo di cogliere l’“inattualità
attuale" di Gramsci, vogliamo proporre la lettura di passi tratti dai suoi
scritti pur nella consapevolezza di rendere una comunque incompleta idea dello
spessore umano, etico, politico e intellettuale di Gramsci per giungere,
comunque e credo unanimemente, alla stessa conclusione a cui pervenne anni fa
Raul Mordenti: “Antonio Gramsci era comunista” (R. Mordenti, Gramsci e la
rivoluzione necessaria, Editori Riuniti, Roma, 2007, p. 11).
“Quando discuti con un avversario, prova a metterti nei suoi panni. Lo comprenderai meglio e forse finirai con l’accorgerti che ha un po’, o molto, di ragione. Ho seguito per qualche tempo questo consiglio dei saggi. Ma i panni dei miei avversari erano così sudici che ho concluso: è meglio essere ingiusto qualche volta che provare di nuovo questo schifo che fa svenire” (Margini in “La Città Futura”, numero unico pubblicato dalla Federazione giovanile socialista piemontese, 11 febbraio 1917, in A. Gramsci, La Città Futura 1917-1918, a cura di S. Caprioglio, Einaudi, Torino, 1982, pp. 23-24).
“… io sono stato abituato dalla vita isolata, che ho vissuto fino dalla fanciullezza, a nascondere i miei stati d’animo dietro una maschera di durezza o dietro un sorriso ironico ed è qui tutta la differenza. Ciò mi ha fatto male, per molto tempo: per molto tempo i miei rapporti con gli altri furono un qualche cosa di enormemente complicato, una moltiplicazione o una divisione per sette di ogni sentimento reale, per evitare che gli altri intendessero ciò che io sentivo realmente. Che cosa mi ha salvato dal diventare completamente un cencio inamidato? L’istinto della ribellione, che da bambino era contro i ricchi, perché non potevo andare a studiare, io che avevo preso 10 in tutte le materie nelle scuole elementari, mentre andavano il figlio del macellaio, del farmacista, del negoziante in tessuti. Esso si allargò per tutti i ricchi che opprimevano i contadini della Sardegna ed io pensavo allora che bisognava lottare per l’indipendenza nazionale della regione: ‘Al mare i continentali!’ Quante volte ho ripetuto queste parole. Poi ho conosciuto la classe operaia di una città industriale e ho capito ciò che realmente significavano le cose di Marx che avevo letto prima per curiosità intellettuale. Mi sono appassionato così alla vita, per la lotta, per la classe operaia. Ma quante volte mi sono domandato se legarsi a una massa era possibile quando non si era mai voluto bene a nessuno, neppure ai propri parenti, se era possibile amare una collettività se non si era amato profondamente delle singole creature. Non avrebbe ciò avuto un riflesso sulla mia vita di militante, non avrebbe ciò isterilito e ridotto a un puro fatto intellettuale, a un puro calcolo matematico la mia qualità di rivoluzionario?” (Lettera del 6 marzo 1924 da Vienna alla moglie Giulia in A. Gramsci, Lettere 1908-1926, a cura di Antonio A. Santucci, Einaudi, Torino, 1992, pp. 271-272).
“Carissimo Delio, mi sento un po’ stanco e non posso scriverti molto. Tu scrivimi sempre e di tutto ciò che ti interessa nella scuola. Io penso che la storia ti piace, come piaceva a me quando avevo la tua età, perché riguarda gli uomini viventi e tutto ciò che riguarda gli uomini, quanti più uomini è possibile, tutti gli uomini del mondo in quanto si uniscono tra loro in società e lavorano e lottano e migliorano se stessi non può non piacerti più di ogni altra cosa. Ma è così? Ti abbraccio. Antonio” (Lettera dal carcere al figlio Delio in A. Gramsci, Lettere dal carcere 1926-1937, a cura di Antonio A. Santucci, Sellerio editore, Palermo, 2013, pp. 805-806).
Dalla lettura di questi tre estratti emerge l’importanza
fondamentale della storia nella vita e nel pensiero di Gramsci e la
centralità che in essa, nel suo processo, occupano le grandi masse, la classe
operaia, protagoniste della grande politica a cui oggi pochi prestano
attenzione attratti come sono dalle questioni di infimo profilo politico
quotidiano e di bottega partitica, ma si coglie anche la dimensione
intellettuale della battaglia da lui combattuta nei suoi aspetti più
particolari legati alla coerenza etica, morale e politica. Per questo, come ha
sostenuto Giuseppe Prestipino, studiarlo è necessario (A. Gramsci, Contro
l’indifferenza, antologia per la scuola media superiore, a cura di L. La
Porta con un saggio di G. Prestipino intitolato Studiare Gramsci è
necessario, Edizioni SEAM, Roma, 2008). E studiarlo in Italia è possibile
grazie anche all’attività della “International Gramsci Society” e
dell’”Università Popolare Antonio Gramsci”.
Un’ultima osservazione. In una lettera alla cognata Tania
(19 marzo 1927), Gramsci dice di voler scrivere für ewig, ossia per l’eternità. Molti hanno per troppo tempo inteso
ciò come il tentativo di nascondere all'aguzzino fascista il vero obiettivo
dell’opera che Gramsci stava per intraprendere in carcere e da cui avrebbero
preso vita i Quaderni. In realtà, c’è stato, fra gli studiosi gramsciani,
chi ha invece notato che il für ewig è l’essenza stessa dell’opera di
Gramsci al punto che deve essere sottratto alla dimensione di pura neutralità
teorica per divenire il carattere distintivo del fare politica gramsciano al
cui soggetto storico rivoluzionario “la ricerca dei Quaderni tenta di fornire
voce e pensiero, egemonicamente.
Quel soggetto storico rappresenta dunque per Gramsci il vero
autore e, al tempo stesso, il vero destinatario della sua scrittura für ewig”
(R. Mordenti, cit., p. 170). Nelfür ewig si manifesta in modo limpido ciò
che Gramsci intende, riprendendo il concetto da Marx e da Labriola,
per filosofia della praxis, ossia quel nesso inscindibile fra pensiero e
prassi che fa in modo che il soggetto operi in direzione della trasformazione
dell’oggetto; in sostanza, la prassi rivoluzionaria che trasforma il mondo.
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