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Benedetto Croce & Antonio Gramsci |
L’ultimo lavoro di Antonio Carlo, che in questo caso si
occupa di due intellettuali, sia pure molto diversi e contrapposti tra di loro
sul piano politico come Croce e Gramsci, ma influenzati entrambi
dall’idealismo. Non è una tesi nuova, nonostante il recente innamoramento per
il pensiero di Gramsci da parte di tanta sinistra, anche radicale, sia su scala
nazionale, ma forse ancora di più a scala internazionale. E già questo ci
sembra un ulteriore indicatore dello stato di salute del pensiero e del
movimento comunista attuale (si parva licet).
In particolare ci è sembrato interessante mettere in
relazione la produzione teorica di questi due intellettuali con il livello di
sviluppo del capitalismo in Italia e le caratteristiche tanto della classe
dominante quanto di quelle del proletariato. […] lo studio di Antonio Carlo è fondato su una solida e
rigorosa documentazione con cui occorre confrontarsi prima di esprimere giudizi
lapidari. Come al solito non sempre le sue conclusioni sono convincenti su
tutti i piani, almeno per noi, e ci sembra che la sua combattiva foga prenda il
sopravvento sull’argomentazione analitica.
Premesso che effettivamente queste due tesi si presentavano
alquanto deboli ed influenzate dal pensiero degli estensori (rispettivamente
Sanna e Graziadei per le prime e Tasca e Gramsci per le seconde), ci pare che
il terreno di scontro decisivo in quel congresso furono le tesi sulla tattica,
queste scritte da Bordiga e Terracini, finalizzate proprio ad ostacolare una
commistione con le tendenze riformiste da parte del giovane partito comunista e
a tutelarne la sua indipendenza politica, organizzativa e di tattica appunto.
Antonio ritiene generiche queste tesi e prive di indicazioni concrete, e questo
potrebbe essere un terreno di confronto, di cui però non ci pare questa la sede
opportuna. Ma egli si concentra soprattutto sulla condivisione da parte di
Bordiga delle altre due tesi, dato che furono approvate dal congresso, viste
quale indicatore di un brusco ritorno nell’alveo riformista, come vaticinato da
Turati nel congresso di separazione dai socialisti a Livorno.
Ora Bordiga è stato incolpato nel corso degli anni di tutto
ed il suo contrario, ma neppure i suoi maggiori denigratori del Partito Comunista
stalinizzato degli anni ’30, che lo accusavano persino di essere un agente
provocatore al servizio dei fascisti, sono arrivati a definirlo un riformista.
Tra l’altro tutti gli appellativi che gli sono stati affibbiati: da settario a
determinista, da astratto a dogmatico, lo stesso Bordiga li rivendicava con
orgoglio e quali titoli di merito poiché egli li contrapponeva a coloro che
proponevano la flessibilità, l’arricchimento, l’indeterminatezza dei principi e
della teoria, per fare strame di quel bagaglio di insegnamenti che era
condensato a suo avviso nel marxismo. Ma crediamo si sarebbe rivoltato nella
tomba se avesse appreso di essere considerato un riformista, che era la bestia
feroce contro cui ha combattuto per tutta la sua vita di militante comunista.
Si può contestare l’efficacia di questa sua battaglia, considerando però il se
ed il quanto si poteva fare di diverso nel contesto dato, ma imputargli una
sorta di cedimento al riformismo ci pare una enormità ingenerosa.
Tra l’altro, proprio sulle tematiche delle due tesi
criticate nel lavoro di Antonio Carlo, Bordiga aveva prodotto negli anni
precedenti dei testi inequivocabili, dalla questione agraria a quella dei
consigli e del sindacato. Infatti quando il PCI degli anni ‘70, non poté più
limitarsi alla semplice denigrazione e alla calunnia, poiché una nuova
generazione di storici e di militanti ricominciavano a valorizzare il vero
contenuto della battaglia condotta da Bordiga, dovette produrre dei testi di
storia del partito meno indecenti per giustificarne il trasformismo e le
capriole del suo gruppo dirigente, si concentrò proprio sulle accuse di
estremismo e di radicalismo inconcludente, a loro dire. Alcune delle critiche
con cui si cercava di immunizzare le nuove generazione di militanti dalla
riscoperta della figura di Bordiga, si concentravano proprio sulla sua
sottovalutazione dei contadini in nome di una purezza classista e sulla
radicalità del programma da egli difeso in relazione alla questione agraria.
Altrettanto si è fatto sulla tematica dei consigli e del sindacato, imputando a
Bordiga una sottovalutazione dei consigli (accusa paradossale per uno che aveva
fondato un giornale intitolato ai Soviet) e del sindacato in nome di una
primazia del partito visto come la principale organizzazione attraverso
cui si potevano esprimere gli interessi storici ed indipendenti del
proletariato.
Un ultima annotazione in generale sulle ondivaghe ed a volte
contrapposte critiche rivolte di volta in volta a Bordiga: l’accusa circa la
sua rigidità e settarismo, peraltro abbiamo visto provocatoriamente
rivendicati, mal si accompagnano con quelle che ci dipingono il giovane partito
comunista come un’accozzaglia di soggetti dalle posizioni più disparate.
Considerando il ruolo predominante svolto da Bordiga in questo periodo nel
Partito, ne viene fuori un dirigente politico rivoluzionario molto tollerante
nella sostanza verso posizioni che spesso niente avevano a che fare con la
teoria marxista, benché mai sottacesse la critica cameratesca nei loro
confronti.
In verità sono stati coloro che vengono presentati come
icone della tolleranza e della democrazia (altro termine a ragione odiato da
Bordiga), che con l’aiuto dell’internazionale in via di stalinizzazione,
l’hanno prima escluso dal ruolo dirigente che aveva nel partito e nel
proletariato rivoluzionario dell’epoca, attraverso manovre veramente poco
edificanti e poco “democratiche”, per poi espellerlo con ignominia dando
avvio a quel processo degenerativo che, di arricchimento in arricchimento, ha
fatto approdare i loro epigoni al Partito della Nazione attuale.
Le reazioni parallele: Benedetto Croce (falso
liberalismo); Antonio Gramsci (falso socialismo) — Antonio Carlo
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