► Questa conferenza è stata tenuta alla Maison
de l’Amerique Latine, a Parigi, il 27 maggio 2015

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Partiamo da un primo punto. La moltitudine
caratterizza le società contemporanee – ci dice Laclau – ma la moltitudine non
conosce determinazioni ontologiche e tantomeno – oggi – regole che possano
presiedere alla propria composizione. Solo dall’esterno (pur rispettandone la
natura) sarà possibile ricomporre la moltitudine. L’operazione è quella
kantiana dell’intelletto che si confronta con la “cosa in sé”, inconoscibile
altrimenti che col suggello della “forma”. L’operazione è quella della sintesi
trascendentale.
È possibile e desiderabile che eterogenee soggettività
sociali organizzino se stesse spontaneamente o debbono piuttosto essere
organizzate? La domanda è consueta e sta alla base del criticismo. A questa
questione Laclau risponde che oggi non c’è alcun attore sociale per sé,
“classe universale” (com’era definita marxianamente la classe operaia), e
neppure un soggetto semplicemente prodotto dalla spontaneità sociale, da una self-organization che
potrebbe pretendere egemonia. Ora, il marxismo classico aveva operato una
semplificazione della lotta sociale di classe sotto il capitalismo e aveva
costruito un soggetto, un attore di emancipazione, nel quale l’autonomia e la
centralità coincidevano. Ma nella contemporaneità è appunto questo terreno che
si è decomposto – si è invece imposto un terreno fatto di eterogeneità: solo
una costruzione politica può ormai muoversi in questo spazio di non omogeneità
sociale (quando si intenda per “omogeneità” qualcosa che si dovrebbe
presupporre oppure quando ci si limiti alla constatazione di ciò che esiste: in
ogni caso quell’omogeneità è scomparsa). Ecco quello che la teoria laclauiana
dell’egemonia si propone di affrontare. Essa non nega che vi siano momenti di
autonomie auto-organizzate né forti soggettività che sorgono sulla scena
storica: scopre fra queste figure soggettive una “tensione” – e comunque pensa
che esse vadano “messe in tensione”. Laclau considera questa tensione
“costitutiva”. È l’immaginazione trascendentale in azione. Laclau – mi sembra –
consideri che il contesto politico si presenti come un Giano a due facce e pone
la tensione fra queste due facce come se si trattasse di spazio e di luogo,
come tessuto e trama, che ogni costruzione di potere deve percorrere e
trascendere, risolvere e determinare. Così nasce l’egemonia/potere.
Secondo punto. Deve essere chiaro che l’immanenza,
l’autonomia e la pluralità costitutive della moltitudine non solo sono incapaci
di costruire potere ma rappresentano degli impedimenti al formarsi di ogni
scena politica. Perciò, prosegue Laclau, se la società fosse interamente
eterogenea, l’azione politica richiederebbe che le singolarità fossero capaci
di avviare sul piano di immanenza un processo di “articolazione” al fine di
strutturare quella tensione sulla quale ho brevemente insistito, e per
definire, tra le singolarità, delle relazioni politiche. Ma ne sono capaci?
La risposta di Laclau è negativa. Questa negazione rinvia ad
un motore trascendentale. L’articolazione è dunque posta, senza possibile
alternativa, su un terreno formale, ben comprendendo che “forma” non significa,
in questo caso, “qualcosa di vuoto” ma piuttosto “involucro costitutivo”.
Laclau insiste sul fatto che affinché sia possibile un’articolazione della
moltitudine deve emergere una qualche istanza egemonica al di sopra del
semplice piano di immanenza – un’istanza egemonica che sia in grado di dirigere
il processo e che funga da centro di identificazione di tutte le singolarità.
“Non c’è egemonia senza la costruzione di una identità popolare a partire dalla
pluralità delle domande democratiche”.
Se il contesto sociale è configurato da una moltitudine
disomogenea, occorre stabilire una forza di articolazione fra le differenti
parti di questa disomogeneità per garantire la loro integrazione. L’insistenza
sull’auto-organizzazione o il rinvio a soggetti precostituiti non devono
eliminare né dimenticare la necessità di creare temi comuni e linguaggi
omogeneizzanti che circolino attraverso le differenti organizzazioni locali.
Tale articolazione/ mediazione non può in nessun caso ripetere il vecchio
modello delle “forti” organizzazioni tradizionali (partiti, chiese,
corporazioni ecc.). Questa articolazione/mediazione deve piuttosto essere
avvicinata attraverso la nozione di “significante vuoto”. Ma abbiamo appena
precisato che “significante vuoto” non significa qui vuote forme di unità
dogmaticamente legate a qualche preciso significato, significa piuttosto
“involucro costitutivo”. Non siamo più sul kantiano terreno dell’estetica o
dell’analitica ma su quello dell’immaginazione trascendentale.
C’è un momento infatti nel quale Laclau, con un diverso
approccio, quasi un nuovo tempo musicale, ripropone il tema del significante
“fluttuante” e “vuoto” a fronte dell’eterogeneità del sociale in termini assai
potenti – direi, se non fosse una forzatura, ontologicamente produttivi. Quando
infatti Laclau affronta il tema dell’“articolazione” di diverse lotte sociali,
questo momento (già in Egemonia e strategia socialista, nel 1985)
rappresenta un modello di “antagonismo costitutivo” – quasi un doppio potere
“debole” che, sorgendo attraverso conflitto e disgregazione, su una frontiera
“radicale”, costituisce insieme una sintesi di vecchi diritti di sovranità e di
diritti democratici di autogoverno. Lo hanno ben sottolineato Mezzadra e
Neilson inConfini e Frontiere (Il Mulino, 2014). Si deve ammettere che
avvicinandosi all’idea di una dialettica di contropoteri confliggenti, Laclau
interpretava allora un primo passaggio, meglio, un primo apparire di un sentire
comune dei militanti socialisti, implicati in una crisi della sinistra, a
partire degli anni ’70, e che si rifiutavano di vederla precipitare con ritmo
inarrestabile. In quella condizione, appurata l’insufficienza di strumenti
dialettici, bisognava ricostruire “un popolo”, produrne l’unità – questo sarà
riconosciuto da Laclau come l’atto politico “per antonomasia”. Nell’85 ci si
chiede dunque, con grande forza e sollevando un largo consenso, se l’apertura
del sociale al politico sia, piuttosto che una “struttura discorsiva”, una
“pratica di articolazione” che costituisce e organizza le relazioni sociali. Ma
questo punto di vista sarà di lì a poco rovesciato. Cito Laclau: “Nelle società
industriali avanzate si individua una asimmetria fondamentale tra una
proliferazione crescente delle differenze – un surplus di significato del
“sociale” – e le difficoltà incontrate da qualsiasi discorso che tenti di
fissare queste differenze come momenti di una stabile struttura di
articolazione”. Bisogna allora allontanarsi dalla stessa nozione di società
come “totalità autodefinita” in cui il sociale fissa se stesso. Vanno piuttosto
identificati “punti nodali” che producano sensi e direzioni parziali e
consentano a queste o a quelle formazioni del sociale di prendere forma. Si
tratterà dunque, sempre di più, di rifiutare ogni soluzione dialettica posta da
concetti come “mediazione” o “determinazione”. “La politica emerge come
problema delle condizioni trascendentali del gioco fra articolazioni ed
equivalenze che si costituiscono nel sociale. L’identità delle forze in lotta è
soggetta a mutamenti costanti ed esige un incessante processo di
ridefinizione”.L’equilibrio di quest’articolazione è tuttavia difficile da
determinare. Esso è esposto a due pericoli. Chiamerei il primo “deriva della
domanda”, o meglio la deriva dell’inconclusività dell’incontro delle
equivalenze. Si veda, vent’anni dopo Egemonia, La ragione
populista, del 2005. Qui il discorso di nuovo comincia da un’immersione nel
sociale, costruendosi attorno agli stimoli, aiconatus moltitudinari che
spingono verso il politico. Ora, scrive allora Laclau, “la più piccola unità da
cui partiremo corrisponde alla categoria di domanda sociale”. Naturalmente,
questa domanda, se da un lato spinge verso l’approfondimento delle logiche di
formazione dell’identità, dall’altro apre all’antagonismo. Il problema allora
diviene: come trasformare la competizione, l’antagonismo dislocato e in
continua proliferazione, in un antagonismo visibile e dualistico? La “catena di
equivalenze” non si risolve invece qui in una proliferazione di cui non si
intende la conclusione? Lo stesso Laclau sembra prenderne coscienza: “la
specificità dell’equivalenza è la distruzione di significato attraverso la sua
stessa proliferazione”. Questo indefinito delle potenze dell’immanenza rischia
di impedire (e comunque minaccia) la costruzione trascendentale del
significante.
La seconda difficoltà è direttamente legata al
consolidamento definitivo dell’equilibrio tale e quale si presenta nel concetto
di “egemonia”.
Una piccola parentesi a questo proposito. Il concetto di
egemonia in Laclau si costruisce con riferimento a Gramsci. Ma le cose non sono
così semplici. Peter D. Thomas nota che Ernesto Laclau e Chantal Mouffe, in Hegemony
and Socialist Strategy del 1985, sostituiscono il dispositivo politico
dell’egemonia – così com’era definito dalla tradizione leninista – con un
concetto discorsivo – del tutto formale. Siamo, secondo Thomas, in una fase
della riflessione teorica dell’“eurocomunismo” che si sviluppa nella forma di
un gramscismo “molle” e che segna il passaggio ad una politica
radical-democratica post-marxista. Che si sia d’accordo o no con il punto di
vista di Peter D. Thomas, bisogna in ogni caso, mi sembra, ricordare qui che il
pensiero di Gramsci muove da una posizione marxista e leninista nella quale la
dittatura si presenta non come comando totalitario ma, appunto, come egemonia,
cioè come costruzione organica di un potere costituente rivoluzionario. Non si
può negare che il riferimento gramsciano di Laclau sia, in proposito, piuttosto
debole – più ricerca retorica di una supposta eredità che come vera filiazione
ontologica. Il concetto di egemonia in Gramsci (dalla pratica torinese dei
Consigli fino alla teoria del nuovo Principe) si costruisce sulla lotta di
classe, mantiene una “solidità” materialista e produce un dispositivo di potere
dei lavoratori in senso comunista. Non può in nessun caso, il concetto di
egemonia gramsciano, essere reinterpretato nelle modalità teorizzate da
Norberto Bobbio – cioè come prodotto sovrastrutturale della “società civile”,
dove società civile sia concetto preso nell’accezione hegeliana.
Inoltre, ciò che risulta qui strano è come in Laclau il
concetto di egemonia – al quale già la potenza gramsciana è tolta – possa
essere riferito alle politiche del Partito comunista togliattiano: su questo
punto, l’equilibrio fra autonomia di base dei movimenti e Partito, come significante
talora “fluttuante” – ma certamente mai “vuoto” – poteva ancora orientarsi a
sinistra perché il Partito era ancorato alle politiche sovietiche. In tal modo,
l’asse delle ascisse egemonia/società e quello delle ordinate destra/sinistra
potevano essere tenute in equilibrio proprio per l’impossibilità del
“significante” di farsi Stato – Yalta lo impediva. Ripeto: in Togliatti, nel
comunismo italiano, il “nazional-popolare” ha potuto essere interpretato a
sinistra (con i limiti di azione opposti alla lotta di classe che comunque ne
conseguivano) solo perché il Partito comunista non poteva accedere al potere e
fino a quando non si è trasformato in maniera tale da potervi accedere. Qui,
paradossalmente, il concetto di egemonia diviene concetto di “centralità”
politica.
Insomma: figura e funzione dell’egemonia in Laclau ci
sembrano equivoche: piuttosto di analizzare come funziona il capitalismo,
stabiliscono come noi vorremmo che funzionasse una società politica che non
conosce il capitalismo – o lo confondono con una necessità. Credo che si
potrebbe dire la medesima cosa per “popolo”: breccia nel blocco egemonico che
Laclau chiama “significante vuoto”, il popolo rappresenta l’occupazione da
parte di un gruppo capace di determinare una nuova universalità – ma questo non
è del tutto chiaro. Sembra piuttosto che, da un lato, il popolo sia una deriva
provocata dalla lotta di diverse frazioni e che, dall’altro, finisca per
rappresentarsi come una nuova cristallizzazione di identità politiche.
Ne viene dunque che, nella filosofia di Laclau, il
significante vuoto rappresenta un’astrazione strutturalista che perde di vista
un fatto altrimenti centrale: che cioè il cosiddetto vuoto è prodotto di un
“esodo” e non di una modificazione strutturale (lo nota bene Bruno Cava, un
militante brasiliano che ha ben studiato Laclau). “Se c’è una cosa oggi del
tutto evidente, quando si considerino le attuali forme della politica, è il
distacco del “popolo” dalle funzioni di partecipazione cui è stato consegnato dal
diritto pubblico moderno. Il significante vuoto si svuota ancora di più, nella
situazione attuale – non morde la moltitudine ma è fagocitato dai poteri forti
che non hanno più nulla a che fare con il popolo, la nazione, e tutte le belle
parole della politica della modernità. Quanto ai movimenti, essi vivono nella
consistenza di una “universalità concreta” che ha la funzione di suturare e di
articolare i significanti: ma la potenza risiede nella moltitudine, che è
concetto di classe”.
Altra conseguenza. È per me chiaro che il pensiero di Laclau
si situa in una sorta di era post-ideologica, dove la lotta di classe cede il
suo luogo centrale a diverse e molteplici identità (che lo possono investire
secondo varie declinazioni). Ma mi sembra che questo pensiero non possa portare
a nulla di preciso, meglio, che esso conduca a un esito nullo quando lo si
faccia agire nel contesto delle coordinate alle quali abbiamo fatto sopra
riferimento: un asse d’ascisse egemonia/società e un asse di ordinate
destra/sinistra. Questa mutazione che de-ontologizza i soggetti, in questo
sistema di coordinate, potrebbe benissimo reggersi su singolarità che
collaborano in maniera trasversale e costruire così, su un piano macchinico
(per dirla con Deleuze-Guattari), delle macchine da guerra sociali variegate.
“Macchine da guerra” che non sarebbero in nessun caso effetti dell’urgenza di
consolidare i contorni di un’“egemonia” o di una “nazione”. La mutazione può
dunque rappresentarsi qui come un’illusione. Dobbiamo di nuovo chiederci se il
“significante vuoto”, sottoposto a queste tensioni, oltre ad esser ridotto ad
una figura “centrista” dell’organizzazione del potere, non subisca un’altra
deriva: quella di immobilizzare il processo politico perché il suo dinamismo,
spostato verso il centro, è ormai incapace di produrre potenza. La sintesi
trascendentale, in questo caso, è completamente privata di movimento.
Eccoci così giunti ad un ultimo punto cruciale: la
concretizzazione storicamente determinata della forma trascendentale.
Il significante vuoto opera sul terreno nazionale. Per
Laclau, non può esser accettato un discorso cosmopolitico, neppure come
orizzonte. Il potere ha bisogno, per potere avere una reale consistenza,
dopo aver eliminato ogni altro punto fermo, dell’identità nazionale. Anche
nella globalizzazione, quando il potere dello Stato-nazione declina, il
concetto di Stato-nazione non può essere tuttavia abbandonato. Abbandonarlo non
significa solo mettersi su un terreno poco realistico ma addirittura
pericoloso. Senza l’unità nazionale l’espansione orizzontale della protesta
sociale e la verticalità di un rapporto al sistema politico sarebbero
impossibili. E, insiste Laclau, l’esperienza dell’America Latina negli anni
’90-2000 dimostra ampiamente questa condizione.
Al contrario, sembra a noi che il movimento progressista che
ha scosso l’America Latina nel ventennio a cavallo dei due secoli sia stato
fortemente impegnato nel superamento, “verso l’esterno”, di un ambito nazionale
sul quale, uno ad uno, i singoli Stati erano stati piegati sotto il dominio
nordamericano e dalle sue valenze imperialiste; “verso l’interno” dell’America
Latina, allo stesso modo l’orizzontalità dei movimenti si è provata su larga
scala, talvolta anticipando, altre volte seguendo un nuovo spirito continentale
che ha animato taluni governi popolari ed ha loro permesso di superare ogni
sciovinismo – reazionario nella tradizione latino-americana come in quella
europea. Ma il nazionalismo di Laclau, bisogna pur riconoscerlo, non riesce ad
assopirsi. Risale all’inizio del suo lavoro. In Politics and Ideology in
Marxist Theory del 1977, contro Althusser, già egli sostiene che la classe
operaia ha una irriducibile specificità nazionale. Ed esalta l’esperienza del
peronismo che “ha avuto un innegabile successo nel costituire un linguaggio
democratico-popolare unificato a livello nazionale”.
Non bastasse, proprio con questa opzione nazionalista,
secondo Stuart Hall la posizione discorsiva di Laclau corre di nuovo il rischio
di perdere ogni riferimento alla pratica materiale ed alle condizioni storiche
della lotta di classe: esse sono per così dire neutralizzate nella loro potenza
dal riferimento al contesto nazionale. Non si può considerare la società come
un campo discorsivo totalmente aperto e su questo fissare l’egemonia politica
in un orizzonte nazional-popolare: questa operazione non può che produrre un
assalto a Fort Apache da parte delle altre forze sociali in gioco – come
d’altra parte fu in Argentina. Conseguenza: lo schema laclauiano mostra anche
qui di potersi reggere solo come figura “centrista” di governo. Essa non può
fare a meno di offrirsi – come di fatto avviene – ad un positivismo della
sovranità esercitato da un’autorità centralmente efficace. È ancora una
trascendenza formale quella che, in effetti, materialmente pone il potere e lo
giustifica.
Si potrà tuttavia notare che man mano, nell’ultimo Laclau,
la trascendenza del comando cesserà di rappresentarsi in termini rigidamente
nazionali e nel nome di un centralismo statale troppo ingombrante. Si intravede
qui persino un certo allontanamento da quella concezione originariamente
hobbesiana che vedeva il potere formare il popolo. E tuttavia subito
sorge un paradosso: se infatti la trascendenza del comando, la tentazione
hobbesiana si attenua – perché esisteranno sempre, nella contemporaneità,
irregolarità crescenti del potere nelle relazioni sociali –, pure questa
“impossibile trascendenza” di nuovo si concretizza nell’opera di Laclau, non
cercata ma trovata, non costruita ma imposta dalla meccanica stessa del
trascendentalismo. In luogo della sintesi della moltitudine, l’approccio
trascendentale vedrà sempre più compattarsi, nell’emergenza del “popolo”, un
significante “pieno” – a fondare il politico. Passaggio dal criticismo ad una
concezione decisamente consegnata all’idealismo oggettivo?
Quel che si può concludere è che, se Laclau mostra in
maniera brillante che il popolo non è una formazione spontanea o naturale ma è
costituito da meccanismi rappresentativi che traducono la pluralità e
l’eterogeneità delle singolarità in unità; e se questa unità, tramite
l’identificazione con un leader, un gruppo dominante e in certi casi con un
ideale, diviene realtà, questa visione sembra malgrado tutto tributaria di
un’idea “aristocratica”, piuttosto che democratica, che ripete le declinazioni
più profonde e continue della storia moderna dello Stato. Forse qui c’è davvero
la conferma di un passaggio dal criticismo all’idealismo oggettivo. La
centralità, per Laclau, della funzione degli intellettuali e della comunicazione
nell’organizzazione politica è significativa di questa deviazione. Qui è
completamente superato il gramsciano concetto di “intellettuale organico”
mentre si assume la funzione autonoma dell’intellettuale come forza ausiliare
nella costruzione dell’egemonia – o della leadership? È esattamente quello che
Laclau ha rifiutato di fare in tutta la sua vita di militante democratico e
socialista – gliene va dato caloroso riconoscimento. E allora perché
quest’unità dell’“autonomia del politico” e della leadership intellettuale?
Per concludere. Questo mio corpo a corpo con il pensiero di
Laclau si è spesso ripetuto negli ultimi vent’anni. Lo dico francamente, come a
lui lo dissi direttamente: credo che il suo pensiero, la sua stessa concezione
del populismo, siano il prodotto di una riflessione, più che sul potere, sul
concetto di transizione, e del potere nella transizione fra epoche diverse
della sua organizzazione. Il populismo di Laclau è l’invenzione di una forma
mobile di mediazione, della e nella transizione dei regimi politici –
soprattutto, ma non solo, di quelli sudamericani. Una forma che io continuo a
considerare debole, non concettualmente ma per la realtà che registra, perché
quel “vuoto” che essa assume come problema, spesso non è un vuoto da riempire
ma un baratro nel quale si rischia di precipitare. E questa debolezza è
accentuata in Laclau dal fatto che, rifiutando di aprirsi ad un’inchiesta
ontologica e quindi di dar senso all’emergenza del nuovo, e pur ammettendo che
la governance di una transizione non possa che essere costituente,
questa costituenza incerta finisce paradossalmente per ripetere modelli della
modernità. In particolare, rifiuta ogni tensione emancipatrice. Accettando di
porsi dentro la tensione fra spontaneità e organizzazione ma cancellando le
dimensioni materiali della lotta di classe, Laclau finisce col riprendere
alcuni aspetti assai problematici del diritto pubblico europeo. Per esempio:
aggredendo da par suo il tema dei movimenti sociali, Carl Schmitt ne definisce
la figura attraverso il riconoscimento che essi costituiscano la trama della
composizione popolare dello Stato – riconoscimento dall’alto verso il
basso che politicizza la società al fine della costruzione di un’identità
nazionale. Oppure, per altro verso, la definizione schmittiana del luogo della
rappresentanza politica come “presenza di un’assenza”, assenza da riempire se
si vuole che lo Stato esista, presenza da svuotare se si vuole che lo Stato sia
sopra le parti, super partes. Fino a che punto il “significante vuoto”
ripete il modello schmittiano di rappresentanza? Ma queste che sottolineiamo
sono interferenze improprie – sicuramente, per Laclau, semplici strumenti
recuperabili dall’archivio del diritto pubblico europeo. Perché – ecco infine
la mia opinione – l’importanza, meglio, la grandezza del pensiero di Laclau non
consiste tanto nel risolvere la questione del significante politico vuoto o, al
contrario (visto da destra), nel rifiuto di affidarsi alla lotta di classe ed
al conflitto sociale per riempirlo. Consiste piuttosto nell’aver vissuto
dall’interno quel problema. Quella cosa fluttuante che egli scorgeva dinnanzi a
sé – quel truc, quel machin – non era il vecchio modello di
Stato – lo Stato moderno – ma una cosa nuova. C’è una tensione costituente che
si stende, agisce, sul terreno della crisi dello Stato democratico della
modernità. Non si tratta di scoprire quello Stato che abbiamo fin qui subito ma
di costruirne un altro. Inventare un nuovo significante per una transizione
radicalmente democratica. Qui il criticismo si esalta nel suo significato
originario – non come asse di costruzione trascendentale dello Stato ma come
investimento problematico sulla sua crisi.
Mi si lasci, quasi una piccola appendice, qui concludere su
alcuni brutali stravolgimenti dell’insegnamento di Laclau. Quando, ad
esempio, si impone un cappello ai movimenti reali non come se il cappello ma
solo la sua misura facesse problema: come spesso avviene nell’attuale dibattito
spagnolo. O quando, in nome di Laclau, si riprende – per purificare la sporca
vitalità dei movimenti – l’immagine del vecchio Partito comunista italiano come
modello di ascolto e direzione della parola del popolo – come sempre più spesso
avviene oggi un po’ ovunque nella sinistra europea e sudamericana. E in mille
altri casi, anche fra le storture che gli sono imposte, significanti la
straordinaria vitalità del pensiero di Ernesto.
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