Francesco Seghezzi |
“Sviluppare nel lavoratore al
massimo grado gli atteggiamenti macchinali ed automatici, spezzare il vecchio
nesso psico-fisico del lavoro professionale qualificato che richiedeva una
certa partecipazione attiva dell’intelligenza, della fantasia, dell’iniziativa
del lavoratore e ridurre le operazioni produttive al solo aspetto
fisico-macchinale». Così descriveva Antonio Gramsci il tentativo di
Frederick Taylor di razionalizzazione del lavoro. Il passo è tratto dal
ventiduesimo dei “Quaderni dal carcere” dal
celebre titolo “Americanismo e fordismo”.
Perché basarsi su un testo scritto ottant’anni fa e che compie quest’anno i
quarant’anni dalla sua pubblicazione per analizzare il fordismo? Non è stato
detto nulla di nuovo negli anni successivi?
Sono queste domande spontanee da porsi all’inizio di un
contributo che vuole fornire i caratteri generali del lavoro fordista in una
prospettiva non solo socio-economica ma anche filosofica. Perché la scelta di
partire da Gramsci quindi? In primo luogo perché il filosofo sardo è il primo,
in ordine cronologico, a delineare con spessore teoretico le caratteristiche
del sistema fordista. Pur non avendo mai visto gli stabilimenti di produzione
della celebre modello T Gramsci riesce a cogliere e sintetizzare aspetti che,
nell’arco di tempo che ci volle per pubblicare il suo testo, difficilmente
erano stato parimenti evidenziati. Per questa prima ragione ci sembra utile
paragonarci con il suo pensiero in quanto cronologicamente originario e, come
detto, teoreticamente originale.
In secondo luogo la lettura gramsciana consente di
affrontare il fordismo in termini più ampi di quelli utilizzati nella
letteratura del XX secolo, nella quale l’interpretazione marxista del lavoro alienato
è sempre stata la leva per sviluppare la dialettica tra capitale e lavoro in
ambito economico e la lotta di classe dal punto di vista socio-politico. In
Gramsci invece ritroviamo, come mostreremo, una stretta connessione tra l’elemento
antropologico, quello economico e le ricadute sociali del fordismo in grado, a
nostro parere, di illuminare conseguenze del fenomeno che si manifestarono
solamente a partire dal secondo dopoguerra. Ci interessa quindi principalmente il
metodo che Gramsci utilizza nella sua analisi perché evidenzia lo stretto
legame tra ideale antropologico, sistema sociale e processo economico. Allo
stesso tempo rifletteremo sulla concezione di lavoro che è velatamente espressa
dall’autore, a cui poco peso è stato dato nelle interpretazioni del testo.
Essendo questo il campo di interesse è bene specificare
subito che non entreremo nel merito della riflessione gramsciana
sull’applicabilità o meno del modello fordista nella società europea, ovvero
della compatibilità tra una società di classi e il fordismo. Su questo tema
molto è stato scritto e crediamo che le mutate condizioni socio-economiche lo
confinino ad un dibattito per gli storici delle idee.
Il nostro scopo invece è quello di una preliminare analisi
del fordismo e delle sue conseguenze per poter in seguito, non in questo
contributo, mostrare in forma dialettica il perché tale sistema è
definitivamente crollato, non solo nelle sue strutture ma nella sua essenza
culturale.
La divisione dal lavoro
Non è questo il luogo nel quale ripercorrere la storia del
sistema produttivo fordista attraverso le innovazioni tecnologiche introdotte
nelle fabbriche di Henry Ford negli anni ’10 del Novecento. Vogliamo
concentrarci in primo luogo sulla visione del lavoro che tali novità generarono,
per poi concentrarci sulle conseguenze antropologiche e sociali.
Il modello teorico a cui Ford fa riferimento è quello dello scientific
management teorizzato da Taylor nel celebre volume del 1911 “The Principles of Scientific Management”,
ma già sperimentato dall’autore in alcune fabbriche americane nell’ultimo
decennio del XIX secolo. Gramsci ripone una grande importanza al legame di
figliolanza tra Taylor e Ford, sostenendo che le teorie del primo diventano
finalmente realtà grazie al sistema produttivo del secondo. La catena di
montaggio come realizzazione dei sogni tayloristi quindi, finalmente strumento
in grado di garantire quella suddivisione meccanica del lavoro che era alla
base dell’ingegnere americano.
Sì trattava principalmente di costruire il funzionamento
della fabbrica in modo che si realizzasse «il distacco tra il lavoro manuale e
il ‘contenuto umano’ del lavoro». Questo poteva avvenire attraverso
l’affidamento al singolo lavoratore di una operazione dall’estrema semplicità
in modo che il suo compiersi sia del tutto assimilabile, quantitativamente e
qualitativamente, ad un gesto meccanico. Questo consentiva una
razionalizzazione degli sforzi fisici e la possibilità di controllo totale
sull’andamento e sui ritmi della produzione.
Come nel celebre spillificio di Smith, la fabbrica fordista
realizzava al meglio la teoria secondo la quale «la divisione del lavoro […]
determina in ogni mestiere un aumento proporzionale delle capacità produttive
del lavoro». L’operazione di Ford era quella di ampissima divisione del
lavoro, riducendo al minimo le azioni dei dipendenti, in modo che ciascuna di
esse potesse essere considerata in relazione alle altre. In questo modo
l’impianto produttivo, un tempo considerato unitario in sé veniva scomposto per
poi essere riunificato secondo tecniche scientifiche di organizzazione della
produzione.
Perché questo fosse possibile il prodotto della fabbrica
fordista doveva essere un prodotto di massa, con le medesime caratteristiche
tecniche e quasi nessuna possibilità di personalizzazione.
La fabbrica fordista si pone così come il primo modello allo
stesso modo creatrice dell’operaio-massa e della produzione di massa, binomio
che, darà origine ad nuovo paradigma sociale che Gramsci ancora non poteva
prevedere e che dominerà ampia parte del ‘900 industriale fino a diventarne la
sua propria icona.
Dal punto di vista economico la teoria fordista si può
ricondurre nel solco del modello neoclassico che si basa sul fatto che il
lavoro sia un bene come altri e in quanto tale il suo prezzo è individuato
dall’incrocio di domanda e offerta.
La fabbrica fordista era conseguenza diretta di questo
modello e le teorie tayloristiche erano possibili solo considerando il lavoro
umano come un fattore produttivo come altri. Se il lavoratore è parte del
processo produttivo, al pari delle macchine e di altri elementi, si cercherà di
ottimizzare il suo utilizzo attraverso l’individuazione di mansioni sempre più
standardizzate. L’aumento di produttività che ne consegue consentiva all’impresa
fordista di ridurre il numero di ore e di carico agli operai, aumentando anche
i salari. In questo modo la differenza innegabile del lavoro rispetto agli
altri fattori di produzione veniva riconosciuta ma solamente come tentativo
filantropico di aiutare il lavoratore garantendogli maggiori benefici
socio-economici. Un disegno che può sembrare positivo e favorevole al
lavoratore, ma che non ne riconosce in alcun modo la centralità nel processo
produttivo.
A ciò si aggiunga che il fatto di considerare il lavoro al
pari di un normale capitale fisso richiedeva una rivoluzione culturale e
sociale.
Alti salari e sani principi
È chiaro che un tale sistema, se generalizzato, non può non
avere conseguenze dirompenti sulla società nel quale si innesta. In particolare
per il fatto che esso vuole produrre una nuova tipologia di classe lavoratrice.
È necessario infatti che insieme alla catena di montaggio si costruisca anche un
idealtipo di lavoratore, moralmente integerrimo in modo da non creare problemi
e disposto ai ritmi fordisti. A nostro parere l’intuizione più acuta di Gramsci
è quella di cogliere la correlazione tra modello economico-produttivo e la
nuova società che il fordismo mira a costruire. Non tutti i lavoratori infatti
sono corrispondenti alle esigenze della fabbrica fordista, per esempio
«l’operaio che va al lavoro dopo una notte di ‘stravizio’ non è un buon
lavoratore, l’esaltazione passionale non può andar d’accordo con i movimenti
cronometrati dei gesti produttivi legati ai più perfetti automatismi». Serve
quindi intervenire per contenere i comportamenti sociali che possano essere
d’ostacolo al sistema produttivo, è necessario per l’industriale fordista che
esista un «certo equilibrio psico-fisico che impedisca il collasso fisiologico
del lavoratore, spremuto dal nuovo metodo di produzione».
Tale equilibrio può ottenersi in modo coercitivo, ma «potrà
diventare interiore se esso sarà proposto dal lavoratore stesso e non imposto
dal di fuori, da una nuova forma di società, con mezzi appropriati e originali».
Qui sta la ragione del titolo “Americanismo e fordismo”, ossia nella stretta
correlazione che Gramsci vede tra la società americana e il suo sistema
produttivo.
Per questa ragione la soluzione individuata è quella degli
«alti salari» come contraltare ai ritmi e al consumo psico-fisico al quale il
lavoratore fordista è sottoposto. Il rischio di elevato turnover, di
assenteismo e di sabotaggio viene evitato attraverso una politica di salari
elevati e di riduzione delle ore di lavoro resa possibile dall’alto tasso di
produttività.
Gli alti salari devono però procedere parallelamente al
tentativo di moralizzare la società, perché , pensava Ford, se i guadagni dati
da tali salari fossero stati spesi in alcool e prostituzione questo avrebbe
inciso negativamente sulle prestazioni lavorative.
Inizia a delinearsi così il paradigma contrattuale che
caratterizzerà tutta la stagione fordista, e che è giuridicamente dominante
ancora oggi: la subordinazione. Il salario garantito, spesso con
l’assicurazione di un lavoro a tempo indeterminato, e l’aggiunta dei contributi
pensionistici sono ciò che è dato in cambio per un lavoro che ha come vero
prezzo quello della totale dipendenza dal proprio datore di lavoro. Questo, a
ben vedere l’unico tipo di accordo che può verificarsi all’interno del modello
produttivo fordista ma, a nostro parere, scontava il grave limite di costituire
una compensazione economica per una forte riduzione antropologica e sociale.
Il limite della subordinazione nell’impresa fordista è
infatti proprio quello di ridurre ogni tipo di mobilità in cambio di sicurezza,
possibilità di creatività e personalizzazione del lavoro in cambio di una
certezza economica a lungo termine. È questo sicuramente un giudizio forte, con
il quale non vogliamo però mettere in dubbio, e lo vedremo in seguito, la
dignità intrinseca anche a questo tipo di lavoro.
Notiamo, in sintesi, grazie alle intuizioni gramsciane, come
l’affermazione del fordismo necessita di un tentativo forte di intervenire sul
modello sociale e, vedremo, soprattutto antropologico. Il lavoro e le sue forme
sono così profondamente connesse alla natura dell’uomo che non possono essere
ridotte ad un fattore produttivo come gli altri, e per questo impongono, per
essere modificate, un tentativo di modificare l’assetto sociale. Qui sta la
contraddizione di fondo del fordismo, ossia il fatto che per funzionare deve
forzare la realtà, sforzo che caratterizza per definizione ogni ideologia.
Avremo modo di analizzare in un altro contributo come il
fordismo, nell’arco temporale 1930-1980 sia sostanzialmente riuscito in questo
tentativo e di come il modello del Welfare state sia un sistema di protezione
costruito sull’accettazione delle contraddizioni del fordismo.
“La necessità di
creare un uomo nuovo”
Per Gramsci è chiaro che gli industriali fordisti «non si
preoccupano dell’’umanità’, della ‘spiritualità’ del lavoratore che
immediatamente viene schiantata». Tale componente è da escludersi in quanto non
necessaria alla produzione e anzi potenzialmente dannosa in quanto possibile
causa di interruzione della linearità e della standardizzazione del processo
produttivo.
È questo l’ideale di «uomo nuovo» che il fordismo tenta di
costruire, e senza il quale il proprio progetto non può funzionare. Si delinea
quindi un trade off tra la centralità della persona del lavoratore e quella del
suo atto meccanico, più il lavoro è creazione e intelligenza meno produttiva
sarà la catena di montaggio.
Manca quindi interamente la categoria relazionale dell’atto
lavorativo, o meglio è resa anch’essa funzionale alla produzione. Infatti la
funzione del lavoro quale atto che umanizza la realtà materiale, in quanto la
plasma in rapporto all’intelligenza e alla creatività del soggetto è il più
possibile proibito dal fordismo. Il lavoro non è più relazione tra persona e
realtà ma un atto di trasformazione della realtà completamente alienato dalla
volontà del singolo.
La categoria relazionale è mantenuta nel limite in cui la
catena di montaggio vive del rapporto tra le diverse azioni dei lavoratori,
ciascuna necessaria al componente successivo della linea di produzione. Ma è
chiaro che si tratta di un annichilimento di tale relazionalità, ridotta a
necessità produttiva e non mossa ne realizzata dal desiderio del rapporto con
l’altro, ma da un obbligo esterno ad entrambi i soggetti.
Gramsci sostiene che quella che noi abbiamo chiamato
relazione, e che lui definisce «creazione ‘produttiva’ era massima
nell’artigiano, nel ‘demiurgo’, quando la personalità del lavoratore si
rifletteva tutta nell’oggetto creato, quando era ancora molto forte il legame
tra arte e lavoro». Tale legame è volontariamente soppresso ed intenzionalmente
evitato dal fordismo, in quanto non funzionale ad una produzione di massa ad
elevato tasso di produttività.
È qui interessante notare come Gramsci non faccia in questi
passi riferimento alla teoria marxista dell’alienazione del lavoratore nelle
sue diverse forme, ma recuperi al contrario una nobiltà dell’idea di lavoro che
spesso è stata, ed ancora è, negata da molta della teoria e pratica marxista.
Non vi è traccia del lavoro come una condanna e causa di schiavitù e
sfruttamento, quanto come di una certa tipologia di lavoro, quello industriale
della produzione di massa, che aliena il lavoro da sé stesso, annullandole la
positiva funzione creatrice.
Il lavoratore infatti, per Gramsci, anche nell’azione più
meccanica non perde mai la propria umanità. Questo, a nostro parere, è il
motivo per cui il filosofo non considera un aspetto negativo la possibile
generalizzazione del fordismo, qualora esso fosse sviluppato all’interno di una
società socialista. Su questo punto ci sembra di cogliere una contraddizione
nel pensiero gramsciano tra quanto sostenuto riguardo alla disumanizzazione
quale obiettivo del lavoro fordista e l’accettazione della sua
generalizzazione. Sembra che la spinta sociale e antropologica di Gramsci venga
abbattuta da un desiderio di perfetto funzionamento del sistema
economico-produttivo, tentazione di cui fu vittima anche il leninismo.
Al contrario riteniamo invece che il fatto che la dignità
del lavoro sia in ultimo possibile in ogni atto lavorativo, e che per questa la
vera mancanza di dignità risieda nella mancanza di lavoro, non sia una ragione
sufficiente per non insistere sulla dimensione qualitativa di esso. La
trascendenza dell’atto lavorativo rispetto alla realtà che si manipola è la
ragione per cui in ogni atto risiede un potenziale nobilitante per la persona,
ma considerare questa come una giustificazione per forme di lavoro che riducono
al minimo tale potenziale è una scappatoia teoretica poco sostenibile.
Conclusione
In sintesi la sommaria ricostruzione dell’analisi gramsciana
del fordismo ci ha consentito di delineare le caratteristiche
economico-produttive, antropologiche e sociali fondamentali. Queste saranno
necessarie per affrontare in un contributo successivo le dinamiche che il
fordismo introdusse nel mercato del lavoro, e nella sua visione e che hanno
dominato l’Occidente fino alla fine degli anni ’70 del XX secolo e che ancora
permeano molto del dibattito contemporaneo sul lavoro.
Quello che vogliamo sottolineare è il fatto che in Gramsci è
presente, a nostro parere, un punto di fuga nel rapporto tra uomo e società che
è dato dalla funzione umanizzante del lavoro. Questa centralità della
soggettività della persona nell’atto lavorativo appare soprattutto attraverso
la volontà negatrice del sistema fordista.
Gramsci sembra quasi non accorgersi della centralità che
tale visione del lavoro ricopre nella sua analisi e infatti tale analisi conduce
poi l’autore ad una valutazione della opportunità o meno della generalizzazione
del sistema fordista, e nell’abbozzo di una risposta affermativa. Ma quello che
guadagniamo dall’analisi del filosofo è una tensione del soggetto ad andare
oltre il mero atto produttivo, all’impossibilità di non coinvolgere sé stesso
in tale azione. La razionalizzazione e standardizzazione del lavoro non può
impedire che emerga una dimensione trascendente nel rapporto tra lavoratore e
realtà, e questo Gramsci lo riconosce proprio nel momento in cui critica il
tentativo fordista di limitare tale tensione.
Possiamo quindi anticipare che un vero superamento del
modello fordista non possa che passare da una rinnovata centralità della
persona del lavoratore nei processi produttivi. Rileggere le caratteristiche
fondamentali del fordismo non vuole infatti essere un esercizio storico ma la
costruzione di solide basi per uno sguardo lucido sul presente. Per comprendere
quanto l’impresa e il lavoro moderno si allontani o meno da questo paradigma è
necessario conoscerne i fondamenti, e in questo ci è sembrato che partire dalla
lettura gramsciana, con le dovute integrazioni che abbiamo fatto nel nostro
percorso, fosse di aiuto.
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