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Antonio
Gramsci
✆ Rorty Weber Putnam |
Marco Vanzulli |
Ogni qualvolta si parli di Gramsci non si può dimenticare la natura
letteraria particolarissima dei Quaderni del carcere, il loro carattere aperto,
di riflessioni intorno a dei progetti di ricerca, in cui sono definite e
precisate, nel corso degli anni in carcere, le nozioni portanti del pensiero
maturo del politico sardo. Gramsci crea in questo modo un insieme complesso di
teorie, forse non in tutto armonizzabili a sistema, nonostante esse si
richiamino l’una all’altra, fino ad essere quasi aspetti l’una dell’altra
(egemonia, società civile, blocco storico, guerra di posizione ecc.) nel
tentativo di raggiungere una concezione unitaria della realtà storica e sociale
fino a definire una specifica filosofia politica, la filosofia della praxis.
Non è però certo che queste teorie abbiano sempre una risposta univoca e
allora, per comprendere meglio la teoria gramsciana della società e della
storia, è necessario risalire anche agli scritti precedenti il carcere e fare
riferimento agli elementi della formazione intellettuale gramsciana.
Trattare di Labriola e Gramsci richiederebbe
imprescindibilmente mettere a fuoco il ruolo svolto da Croce e Gentile, la loro
«mediazione» nell’appropriazione o nell’assimilazione, o, meglio, nella
riproposizione, del pensiero di Labriola da parte di Gramsci nei Quaderni. E
molto di più di questo, andrebbe valutata ancora la questione del ruolo svolto
dai due neoidealisti italiani (congiuntamente a quello di altre posizioni
idealistiche, specialmente Sorel, Bergson e il pragmatismo) nella genesi della
concezione gramsciana della storia e della sua teoria della storia marxista.
Non si può dimenticare che, per quanto riguarda Croce, pur con tutte le
critiche rivolte alla filosofia crociana per la sua funzione reazionaria nel
contesto della teoria gramsciana degli intellettuali e tenuto conto anche della
valutazione dell’azione crociana volta allo smantellamento e all’accomodamento
del materialismo storico fino a renderlo inoffensivo, Gramsci ritiene che «con
la filosofia di Benedetto Croce: è stato mutato l’indirizzo e il metodo del
pensiero, è stata costruita una nuova concezione del mondo che ha superato il
cattolicismo e ogni altra religione mitologica. In questo senso Benedetto Croce
ha compiuto una altissima funzione ‘nazionale’; ha distaccato gli intellettuali
radicali del Mezzogiorno dalle masse contadine, facendoli partecipare alla
cultura nazionale ed europea, e attraverso questa cultura li ha fatti assorbire
dalla borghesia nazionale e quindi dal blocco agrario» e con questa di Croce
«non potendoci essere una Riforma religiosa di massa, per le condizioni moderne
della civiltà, si è verificata la sola Riforma storicamente possibile»1 . Croce
sarà allora colui che ha completato l’egemonia intellettuale risorgimentale in
una nuova e non meno critica fase storica. E nei Quaderni del carcere si
argomenterà che la filosofia della praxis debba costituirsi attraverso la
critica-superamento del crocianesimo com’è accaduto nel marxismo rispetto a
Hegel, e, inoltre, che il momento etico-politico crociano nella storia debba
essere mantenuto, seppure, in sé insufficiente, debba essere integrato2 .
La questione non è solo che il marxismo di Gramsci è passato
attraverso Croce e Gentile; il punto è che tutto il marxismo italiano è passato
attraverso il neoidealismo, che ne ha determinato lo specifico carattere
nazionale, almeno per buona parte del secolo scorso. Tanto che Gramsci accetta
questo nuovo carattere idealistico del comunismo: «Il comunismo critico non ha
niente di comune col positivismo filosofico, metafisica e mistica
dell’Evoluzione e della Natura. Il marxismo si fonda sull’idealismo filosofico
[…]. L’idealismo filosofico è una dottrina dell’essere e della conoscenza, secondo
la quale questi due concetti si identificano e la realtà è ciò che si conosce
teoricamente, il nostro io stesso. Che Marx abbia introdotto nelle sue opere
elementi positivistici non meraviglia e si spiega: Marx non era un filosofo di
professione, e qualche volta dormicchiava anch’egli. Il certo è che
l’essenziale della sua dottrina è in dipendenza dell’idealismo filosofico e che
nello sviluppo ulteriore di questa filosofia è la corrente ideale in cui il
movimento proletario e socialista confluisce in aderenza storica. Si pensi del
resto all’uso grande che i socialisti fanno della parola ‘coscienza’,
‘coscienza di classe’, ‘coscienza socialista e proletaria’; è implicita in
questo linguaggio la concezione filosofica che si ‘è’ solo quando ‘si conosce’,
‘ si ha coscienza’ del proprio essere: un operaio ‘è’ proletario quando ‘sa’ di
essere tale e opera e pensa secondo questo suo ‘sapere’»3 ; e d’altro lato
mostra di avere consapevolezza della mediazione compiuta dalla filosofia
idealista: «Il marxismo è stato un momento della cultura moderna: in una certa
misura ne ha determinato e fecondato alcune correnti […] esso ha avuto per
tramite la filosofia idealista, ciò che ai marxisti legati essenzialmente alla
particolare corrente di cultura dell’ultimo quarto del secolo scorso
(positivismo, scientismo) pare un controsenso» (QC, p. 421). Nella seconda
versione di questo brano, che è del 1933-1934, oltre a sostituire
all’espressione «marxismo» l’espressione «filosofia della praxis», Gramsci
scrive che «la combinazione filosofica più rilevante è avvenuta tra la
filosofia della praxis e diverse tendenze idealistiche», e questo gli
«ortodossi» legati al positivismo e allo scientismo di fine Ottocento non
potevano comprenderlo (QC, p. 1854). Per quanto riguarda Gentile, non si può
dimenticare l’attualismo marxista del giovane Gramsci, la cui presenza anche
nei Quaderni del carcere dev’essere presa seriamente in considerazione, come si
vedrà più avanti. Per quanto riguarda, infine, Sorel, una variante della tesi
coscienzalista dell’immediata efficacia politica del mito sociale come
creazione immaginaria è centrale in molti passi di grande peso teorico dei
Quaderni. Tanto che Croce, Gentile, e anche Sorel, non potranno essere lasciati
da parte neanche qui, ove si discute dei marxismi di Labriola e Gramsci, se è
vero che Gramsci sarebbe, come suggeriva Sebastiano Timpanaro, in certa misura,
tra i marxisti (e con lui il giovane Lukács e Korsch) che s’illusero che la
«rinascita idealistica» «potesse agire da tonico rivoluzionario contro il
gradualismo e il parlamentarismo della Seconda Internazionale», tra quelli che
«vissero con alta temperatura morale questa illusione», che solo Lenin in
quell’epoca non condivise4 .
L’accostamento che tento qui tra Gramsci e Labriola vorrebbe
servire non ad una caratterizzazione esteriore della presenza dei temi dell’uno
nell’altro, ma ad indicare delle possibili differenti impostazioni di fondo,
volte, soprattutto, ad illustrare alcuni elementi della natura del marxismo
gramsciano.
Nel giudizio di Gramsci sui marxismi della sua epoca, vi è
una lucida comprensione della peculiarità, della eccezionalità della posizione
di Labriola. Si potrebbe dire che, mutatis mutandis, questo giudizio di Gramsci
si presenta come valido tanto per l’epoca di Labriola, l’epoca della Seconda
Internazionale, con la crisi del marxismo occidentale, quanto per il nuovo
quadro dell’epoca della Terza internazionale, stretta tra le alternative
politiche del comunismo sovietico, del democraticismo e del fascismo. Nel 1930
dunque – e questo giudizio è ripetuto in una seconda versione nel 1932-1933 – a
Labriola viene riconosciuto il merito di essere stato «il solo che abbia
cercato di dare una base scientifica al materialismo storico», «affermando che
la filosofia del marxismo è contenuta nel marxismo stesso» (QC, p. 309)5 .
Labriola è cioè estraneo alle «due correnti» della «tradizione dominante», che
sono: 1) quella rappresentata da Plekhanov, il «materialismo volgare»,
caratterizzata dal «metodo positivistico classico» e da scarso valore
speculativo; 2) quella opposta, creata dall’esistenza della prima, e cioè il
collegamento del marxismo col kantismo6 ; nella seconda versione del brano,
questa tendenza è chiamata «ortodossa», ed è consistita nel collegare «la
filosofia della prassi al kantismo o ad altre tendenze filosofiche non
positivistiche e materialistiche» (QC, p. 1508).
Questo giudizio sembrerebbe rivelare in Gramsci l’esigenza
di una vicinanza di posizione teorica con Labriola. Quello che senz’altro
mostra innanzitutto è come Gramsci avesse una visione lucida e corretta della
peculiare posizione di Labriola all’epoca della crisi del marxismo. Infatti, a
cavallo tra i due secoli, all’epoca della «crisi del marxismo», Labriola occupa
una posizione da isolato, oltre che nella pratica politica, nella teoria
marxista; mentre le correnti dominanti sono appunto quella del Partito
socialdemocratico, sia russo con Plekhanov sia tedesco con Kautsky, e quella
della «crisi del marxismo», del neokantismo, e più in generale dell’idealismo
unito come sostegno filosofico esterno al marxismo stesso. Quindi, Gramsci vede
con chiarezza l’esistenza di queste due opposte tendenze marxiste come quelle
prevalenti, e la strada autonoma e solitaria battuta da Labriola. In un altro
passo, è allargato il quadro interpretativo in cui viene collocata la posizione
labriolana da rimettere in circolazione, perché parte dal marxismo come
fenomeno culturale e non solo come posizione teorica, nella dialettica tra
cultura popolare e cultura alta, e così si propone di studiare la «doppia
revisione» a cui è andato soggetto il marxismo: e cioè, da un lato, la presenza
esplicita ed implicita del materialismo storico nelle filosofie idealistiche
(Croce, Sorel, Bergson, i pragmatisti), e dall’altro la revisione operata dal
marxismo «ufficiale», con la sua ricerca di una «filosofia» che contenga il
marxismo, sia questa cercata «nelle derivazioni moderne del materialismo
filosofico» o in correnti idealistiche come il kantismo. Si può notare come qui
Gramsci ritenga entrambi i tipi di marxismo, sia quello «ufficiale» che quello
neokantiano, come rifacentesi ad una filosofia esterna, esplicitando, per il
marxismo «ufficiale», ciò che nel brano precedente era indicato come metodo
positivistico, privo di capacità speculativa. Rispetto a questo quadro,
comunque, del tutto autonoma appare la posizione di Labriola, secondo cui «il
marxismo è una filosofia indipendente e originale»7 , che va continuata e
sviluppata (QC, pp. 421-422 sgg.).
Gramsci si pone anche quella che poi diventerà la vexata
quaestio della scarsa fortuna della teoria di Labriola nella pubblicistica
socialdemocratica, e ricollega ciò al carattere non popolare della filosofia
della praxis di Labriola, risponde cioè alludendo a quel passo di Rosa Luxemburg
da «Ristagno e progresso nel marxismo», in cui la Luxemburg osservava che se il
terzo volume del Capitale completa la critica marxiana al capitalismo dal punto
di vista teorico, esso non serve, tuttavia, dal punto di vista della pratica
politica della classe operaia, a cui basta il primo volume, che spiega
scientificamente il sorgere del plusvalore, cioè lo sfruttamento, e la tendenza
alla trasformazione della società in senso socialista attraverso la
socializzazione del processo di produzione. In fasi più avanzate, scriveva la
Luxemburg, torniamo, in quanto movimento di lotta socialista, ad attingere alla
«riserva concettuale marxiana» (riportato in QC, pp. 2583-3584).
Questa fase più avanzata sembra qui ormai sopraggiunta per
Gramsci, c’è infatti inizialmente un «periodo romantico della lotta, dello
Sturm und Drang popolare» in cui tutto l’interesse si concentra immediatamente
«sui problemi di tattica politica»; poi occorre però passare ad «elaborare le
concezioni più generali, le armi più raffinate e decisive». Questo perché
«esiste un nuovo tipo di Stato» e allora occorre pensare «il problema di una
nuova civiltà»; nella seconda versione: «Ma dal momento in cui un gruppo
subalterno diventa realmente autonomo ed egemone suscitando un nuovo tipo di
Stato, nasce concretamente l’esigenza di costruire un nuovo ordine
intellettuale e morale, cioè un nuovo tipo di società e quindi l’esigenza di
elaborare i concetti più universali, le armi ideologiche più raffinate e
decisive». Ed è qui che Gramsci ripete che «Labriola deve essere rimesso in
circolazione, e la sua impostazione del problema filosofico deve essere fatta
predominare. Questa è una lotta per la cultura superiore», la parte positiva
della lotta culturale per e verso il nuovo tipo di Stato, che, nella seconda
versione, è chiamata «una forma moderna e attuale [data] all’umanesimo laico
tradizionale che deve essere la base etica del nuovo tipo di Stato» (QC, pp.
309-310 e 1507-1509).
Questi i contesti fondamentali in cui compare l’esigenza
della ripresa di Labriola nei Quaderni del carcere.
Tuttavia, con l’acutezza del giudizio di Gramsci, e con la
sua indicazione della necessità di rifarsi a Labriola e alla sua nozione di
filosofia della praxis (che Gramsci ritiene però evidentemente essere in
Labriola teoria ancora lacunosa e quindi da svilupparsi e perfezionarsi), la
questione della valutazione della reale sintonia delle posizioni di Labriola e
Gramsci, anche su punti specifici, resta aperta.
Sulla base del percorso teorico-politico di Gramsci e delle problematiche
teoriche presenti nei Quaderni del carcere, in via preliminare una
considerazione di Cesare Luporini sul rapporto tra Gramsci e Labriola appare
certa: «è difficile distinguere quanto ci fu di derivazione diretta da Labriola
(probabilmente non molto); quanto di successivo recupero, a partire da
esperienze compiute nella lotta politica e ideale (e dunque, fatalmente, nei
limiti di queste esperienze), e quanto di un riaffioramento oggettivo, in
circostanze storiche profondamente mutate, di irrisolti problemi della società
italiana e delle classi lavoratrici in essa. In qualunque modo possa essere
definito il rapporto Labriola-Gramsci, esso presuppone una discontinuità e una
interruzione»8 . Luporini si esprimeva contro la continuità della pretesa linea
Spaventa-De Sanctis-Labriola-Gramsci con un giudizio che tiene opportunamente
come centrali, per la comprensione del pensiero di Gramsci, le esperienze
politiche e le riflessioni teoriche ad esse legate. Nella discontinuità ed
interruzione indicate da Luporini avviene l’appropriazione gramsciana del
marxismo, e dello stesso concetto di filosofia della praxis, diffuso da Gentile
con la sua opera su Marx (1899).
Dal momento che motivo centrale della critica gramsciana al
marxismo (anche a quello di Marx) è quello di essersi legato al positivismo e
al naturalismo, laddove solo nell’idealismo esso avrebbe la sua genesi (Hegel)
e la sua vera cifra filosofica, è opportuno vedere in primo luogo la questione
del materialismo. Si tratta di una critica storico-filosofica, che in Gramsci
avrà dei potenti effetti sull’analisi politica, come si vedrà. Come si pone la
questione del materialismo del marxismo nei Saggi sul materialismo storico?
Labriola scrive che la filosofia della praxis è «il midollo del materialismo
storico. Questa è la filosofia immanente alle cose su cui filosofeggia. Essa è
la fine tanto di ogni forma di idealismo quanto del materialismo
naturalistico». E non, si badi bene, del materialismo tout court. Ma la ragione
che Labriola dà della fine del materialismo naturalistico nella filosofia della
praxis è che esso non considerava il carattere storico della stessa natura
fisica9 , una posizione che ricorda quella delle Tesi su Feuerbach. Il materialismo storico è filosofia della prassi
come nuova scienza, in continuità con la scienza borghese, non identificabile
con la scientificità positivistica ed evoluzionistica, che però non è negata in
quanto tale, come in Croce, ma semplicemente considerata come non applicabile
direttamente alla storia.
Dunque, una svalutazione del concetto di materia per il
materialismo storico, oltre che in Croce, Gramsci l’aveva certo trovata nei
Saggi, ove Labriola dice che la parola materia è «segno o ricordo di metafisica
escogitazione» o «espressione dell’ultimo sostrato ipotetico della esperienza
naturalistica», ed essa non spiega perciò nulla del mondo storico e sociale,
che non è più fisica, chimica o biologia, ma un altro terreno, che ha altre
leggi, il terreno artificiale formatosi prima di essa sul quale la storia
comincia10. Labriola nega che il materialismo storico sia semplicemente
materialismo filosofico + la storia, e riconosce invece la natura del
materialismo storico attraverso la sua genesi, ponendo la formazione del
pensiero marxiano all’interno – come suo coronamento – della linea genetica del
pensiero socialista11. Infatti, la nuova dottrina «nata nel campo di battaglia
del comunismo […] Suppone l’apparizione del proletariato moderno su l’arena
politica»12; e poi: «se piace di andar cercando le premesse della creazione
dottrinale di Marx e di Engels, non basterà di fermarsi a quelli che diconsi
precursori del socialismo fino a Saint-Simon e più in là, né ai filosofi e
segnatamente ad Hegel, né agli economisti, che avean dichiarata la anatomia
della società che produce le merci: bisogna risalire a dirittura a tutta la
formazione della società moderna, e poi da ultimo trionfalmente dichiarare, che
la teoria è un plagio delle cose che spiega. Perché, in verità, i precursori
effettivi della nuova dottrina furono i fatti della storia moderna, che è
diventata così perspicua e rivelatrice di se stessa, da che si operò in
Inghilterra la grande rivoluzione industriale della fine del secolo scorso, e
in Francia avvenne quella gran dilacerazione sociale che tutti sanno; le quali
cose, mutatis mutandis, si son poi andate riproducendo, in varia combinazione e
in forme più miti, in tutto il mondo civile. E che altro è, in fondo, il pensiero,
se non il cosciente e sistematico completamento dell’esperienza»13. In ciò si
palesa un oggettivismo della teoria, mai abbandonato, quello del metodo
genetico che affonda e vincola le ideazioni, ideologiche e scientifiche, alle
condizioni storiche. Qui Labriola pone in secondo piano la spiegazione
intraculturale, cioè le determinazioni disciplinari (del pensiero filosofico ed
economico) che stanno all’origine della teoria di Marx, per considerare invece
quest’ultima come il risultato perspicuo dello stesso movimento storico, in cui
la filosofia della praxis appare come l’esito necessario di un processo storico
che si fa finalmente chiaro a se stesso, si trasforma in conoscenza oggettiva e
scientifica, nella misura in cui si prepara – nella misura in cui nella stessa
formazione sociale capitalista maturano le condizioni – ad un rivolgimento
socialista. Almeno nei primi due Saggi le cose si presentano in generale in
questi termini14.
In Labriola la polemica contro il «materialismo volgare» e
l’insistenza sulla «seconda natura» o «terreno artificiale» non escludono ma
riaffermano più propriamente la continua determinazione naturale da parte
dell’uomo15. Siamo lontani da quella considerazione tutta culturalista che si
presenta sovente nei Quaderni del carcere, secondo cui il materialismo è bassa
concezione popolare, la questione ontologica intorno al materialismo è posta
come inattingibile, e l’esigenza oggettivistica ad essa connessa è
relativizzata nel divenire del fare umano16. Si può ipotizzare che l’apparente
agnosticismo di Gramsci in merito alla questione ontologica sia, naturalmente,
esso stesso una scelta ontologica, di cui si trova la radice nel pensiero
giovanile: «Nella storia una verità non vale tanto in se stessa, quanto per gli
effetti che provoca, e per gli uomini o le associazioni di uomini che la
propagano. La sua efficienza è condizionata dal modo di produzione della
ricchezza e dalla concretezza di pensiero degli uomini. Un’ideologia si afferma
o cade nell’oblio, ma proporzionalmente al suo valore filosofico e umano, ma
proporzionalmente alla ricettività delle condizioni storiche del tempo in cui
l’ideologia venne concepita e diffusa»17. Questo storicismo risente di echi
pragmatistici, la questione della verità risolta sic et simpliciter in quella
della sua efficacia. Questo relativismo storicista fa tutt’uno con la negazione
di qualsiasi vincolo oggettivo della verità. Si veda anche, in questo senso, la
negazione di qualsiasi oggettivismo delle leggi naturali: «Queste leggi [le
«così dette leggi che ne governano lo svolgimento», cioè dell’azione politica]
non hanno niente di comune con le leggi naturali, sebbene anche queste non
siano obiettivi dati di fatto, ma solo costruzioni del nostro pensiero, schemi
utili praticamente per comodità di studio e di insegnamento»18. Si tratta quasi
di un calco di un noto precetto crociano, ovvero della ripresa da parte di
Croce della teoria di Ernst Mach sulla funzione solo economica, pratica, dei
concetti scientifici, e della incorporazione di essa nel suo sistema di
filosofia dello spirito: gli pseudo-concetti di cui fanno uso le scienze
naturali e le scienze esatte sono privi di carattere logicoteoretico, ma la
loro cifra è quella della mera utilità, e dunque hanno carattere economico
(rientrano cioè nella terza categoria dello spirito).
Diversamente stanno le cose in Gramsci: qui la svalutazione
del materialismo volgare fa tutt’uno con la svalutazione del positivismo, e,
ciò che più conto, della stessa idea di scienza, e ancora una volta non può
sfuggire l’ascendenza crociana di questa posizione. Un giudizio di sintesi a
riguardo è stato formulato da Sebastiano Timpanaro: «Accade quindi che Gramsci,
in quell’operazione di recupero del marxismo dalla strumentalizzazione che ne
avevano fatto Croce e Gentile, finisca proprio col dare la preminenza proprio a
quegli aspetti del marxismo (primato della prassi, lotta contro il materialismo
volgare ecc.) che erano stati già selezionati e isolati, e per ciò stesso
interpretati in modo tendenzioso dal neoidealismo. L’esistenza del mondo
esterno, indipendentemente dal soggetto conoscente e agente, è considerata da
Gramsci come un pregiudizio popolare derivato dalla religione cristiana: sembra
che l’alternativa sia soltanto fra teocentrismo e antropocentrismo, fra un
mondo oggettivo perché creato da Dio e un mondo che esiste in quanto è
conosciuto e trasformato dall’uomo. Una volta ammesso il sofismo degli
idealisti, per cui il materialismo e le religioni positive sono ugualmente
‘trascendenza’ e ‘metafisica’ (un sofisma che Lenin aveva decisamente
respinto), era inevitabile diventare in qualche misura compartecipi di
quell’assorbimento del marxismo nell’idealismo che pur si voleva combattere.
Qualche altra volta Gramsci accenna ad una diversa giustificazione del materialismo
(e del determinismo) popolare: si tratterebbe non più di un residuo di
educazione cattolica, pre-borghese, ma di un’ideologia adeguata ad una prima
fase, ancora prevalentemente ‘ribellistica’ e non organizzata, della lotta del proletariato
– come di ogni precedente classe oppressa – per la propria emancipazione. Il
materialismo sarebbe, se ci è lecito parafrasare così Gramsci, la malattia
d’infanzia del comunismo. Nello stesso ‘buon senso’ popolare vi sarebbe
qualcosa di salvabile, cioè una sorta di embrionale sperimentalismo, di avvio
ad una concezione scientifica e smitizzata della realtà. Ma Gramsci si affretta
ad aggiungere che si tratta di atteggiamenti da superare, e non nel senso di un
materialismo più rigoroso, ma nel senso della ‘filosofia della praxis’»19. Si
tratta ancora di vedere, però, se l’assimilazione del marxismo attraverso il
neoidealismo italiano sia la parola conclusiva sul marxismo di Gramsci, valida
anche per i Quaderni, o se invece tale indubbia determinazione abbia subito una
continua riformulazione, fin dai tempi dell’«Ordine Nuovo», in virtù del fatto
che è attraverso l’istanza della lotta di classe e attraverso la lezione di
Lenin che Gramsci sintetizza i concetti di una teoria politica comunista, e
tempera nella critica la fascinazione (che resta) per le categorie
storico-politiche neoidealistiche. Ritorneremo su questo punto – il marxismo di
Gramsci, nonostante o con il suo idealismo – che è certo l’aspetto fondamentale
dell’intera questione.
Dunque, Gramsci riprende da Labriola l’espressione
«filosofia della praxis», come filosofia immanente alle cose di cui filosofa,
come filosofia interna al marxismo, come unione di ideale e reale e superamento
della loro opposizione, ma non riprende da Labriola la limitazione critica del
significato del «materialismo» nel materialismo storico con la presa di
distanza dal materialismo volgare e dal vecchio materialismo gnoseologico.
Questo rifiuto del materialismo ha altra origine. La filosofia della praxis è
definita da Gramsci come «riforma popolare moderna», cioè «corrisponde al nesso
Riforma protestante + Rivoluzione francese: è una filosofia che è anche una
politica e una politica che è anche una filosofia». Non è insomma, la filosofia
della praxis, ricostruita da Gramsci geneticamente dalla storia del socialismo,
ma dal movimento di riforma intellettuale e morale che vede dominante nella
storia dell’Europa moderna, come il «coronamento» delle ideologie
nazionalpopolari dell’Europa moderna: «La filosofia della praxis presuppone tutto
questo passato culturale, la Rinascita e la Riforma, la filosofia tedesca e la
rivoluzione francese, il calvinismo e la economia classica inglese, il
liberalismo laico e lo storicismo che è alla base di tutta la concezione
moderna della vita. La filosofia della praxis è il coronamento di tutto questo
movimento di riforma intellettuale e morale, dialettizzato nel contrasto tra
cultura popolare e alta cultura» (QC, p. 1860). La filosofia della praxis come
riforma popolare dunque. Il modo di costituzione delle culture popolari come
mezzo di trasformazione e rigenerazione sociale è posto da Gramsci storicamente
e criticamente all’interno della lotta di classe. La comprensione della storia
culturale come sistema dell’egemonia politica, questo il terreno su cui precipuamente
si colloca qui la riflessione gramsciana.
La questione che si pone è se questo rilievo dato alla
cultura, sia pure sullo sfondo o all’interno di una filosofia della praxis,
anche laddove viene indicata la necessità di una contemporanea riforma
economica, dipenda da una sopravvalutazione del mezzo egemonico culturale,
retaggio di un’adesione di ascendenza idealistica con la preminenza data al
fare umano nella storia. Come interpretare per esempio questa relativizzazione
culturale del sapere e della verità: «Si può perfino giungere ad affermare che
mentre tutto il sistema della filosofia della prassi può diventare caduco in un
mondo unificato, molte concezioni idealistiche, o almeno alcuni aspetti di
esse, che sono utopistiche durante il regno della necessità, potrebbero
diventare ‘verità’ dopo il passaggio ecc. Non si può parlare di ‘Spirito’
quando la società è raggruppata, senza necessariamente concludere che si tratti
di… spirito di corpo […] ma se ne potrà parlare quando sarà avvenuta l’unificazione
ecc.» (QC, p. 1490)?
In Labriola, viceversa, da un lato, il marxismo si presenta
come concezione scientifica della storia in grado di esprimere l’unità del
processo storico, che può ricostruire geneticamente, nel suo complesso, «tutta
la formazione della società moderna» («la teoria è un plagio delle cose che
spiega»), che si rende palese agli strumenti critici del conoscere già prima
delle formulazioni del materialismo storico, che riprendono e portano a
perfezione le cognizioni della scienza borghese (e però fanno anche compiere un
salto al sistema del sapere, che portano a ridefinizione e a rinnovata unità);
d’altro lato, l’impostazione genetica delle formazioni sociali comporta un
vincolamento forte – pur al di fuori di ogni meccanico continuismo e anzi nella
teorizzazione dei tempi molteplici, più che della storia, delle storie delle
diverse formazioni sociali – ai condizionamenti che legano la struttura
economica e l’azione politica, all’accettazione piena, soprattutto negli
ultimissimi anni, degli impedimenti al socialismo, delle contraddizioni reali
che costituiscono la struttura della formazione sociale capitalistica20.
L’espressione «filosofia della praxis» vuole allora dire, in
Labriola e in Gramsci, la medesima cosa? È questa unione di ideale e reale, in
cui consiste la praxis, la stessa? Ora, se l’espressione «filosofia della
prassi» evoca una comune interpretazione dell’unità della storia nelle sue
componenti strutturali e sovrastrutturali in Labriola e Gramsci, alcune
osservazioni sulla loro concezione del processo storico, e segnatamente del
carattere dello sviluppo del movimento operaio, sembrano allontanarli. Per
Labriola, lo si è accennato, la filosofia della praxis è innanzitutto la
concezione oggettiva e oggettivistica della storia. In Gramsci, invece, hanno
agito da sempre altre influenze che han fatto sì che da lui, lettore dei Saggi
sul materialismo storico21, sostanzialmente non sia stata recepita né raccolta
la portata di questo oggettivismo labriolano. E rispetto a ciò, il motivo
dell’immanenza non appare sufficiente a determinare una comunanza, anche perché
le filosofie idealistiche moderne, da Hegel in avanti, e le neoidealistiche
italiane in particolare, sono tutte eminentemente filosofie dell’immanenza. La
grande distanza che separa Gramsci e Labriola può essere misurata nel momento
stesso dell’elogio, quando Gramsci dice che grande merito unicamente di
Labriola è aver capito che «la filosofia della praxis è una filosofia
indipendente e originale», nel senso che, scrive Gramsci, «ha in se stessa gli
elementi di un ulteriore sviluppo per diventare da interpretazione della storia
filosofia generale» (Q.C., p. 1855); quando per Labriola l’una cosa era
possibile solo in virtù dell’altra: in tale unità consisteva appunto la novità
epistemologica del marxismo. Non a caso come modello del sistema delle scienze,
Labriola cita un passo dell’Antidühring, in cui si afferma che, nella
concezione materialistica della storia, la filosofia si trasforma, da un lato,
nella dottrina del pensiero e delle sue leggi, nella logica formale e la
dialettica: è ciò che resta quando tutto il resto si risolve nelle scienze
positive della natura e della storia22. È ignorato dunque da Gramsci
l’oggettivismo storiografico labriolano, base dell’azione politica del
proletariato (problematica, certo, all’epoca della II Internazionale), e viene
seguita invece una concezione attivistica del sapere, con una conseguente idea
di filosofia come formatrice del mondo sociale. È abbandonata, nella concezione
gramsciana della praxis, l’identificazione labriolana col lavoro23, perché «i
risultati di quest’ultimo sono costantemente rielaborati nel processo catartico
che è l’atto storico di formazione di una volontà collettiva»24.
Troviamo confermata, dopo questa analisi, la discontinuità
tra Labriola e Gramsci cui accennava Luporini: «Il Gramsci è in questo senso su
di un’altra linea, non viene dal Labriola, lo ha molto dietro le spalle […],
nonostante l’avviso contrario del Gramsci stesso, l’istanza ‘fondamentale’
dell’autonomia e indipendenza del marxismo non è uno sviluppo, non è uno
sviluppo diretto del tentativo del Labriola, vale contro la storia – ‘signora
di noi uomini tutti’, non meno che contro lo spirito (del Croce e del Gentile)
e la materia (del Bucharin)»25. La critica dell’oggettivismo rimanda in Gramsci
a decisive influenze gentiliane e soreliane (e, in queste, bergsoniane). Fin
dallo scoppio della prima guerra mondiale, Gramsci scrive che la storia è
concepita, dai rivoluzionari, «come creazione del proprio spirito, fatta di una
serie ininterrotta di strappi operati sulle altre forze attive e passive della
società»26. In un testo del febbraio 1917, scrive: «È stato detto: il
socialismo è morto nel momento stesso in cui è stato dimostrato che la società
futura che i socialisti dicevano di star creando era solo un mito buono per le
folle. Anch’io credo che il mito si sia dissolto nel nulla. Ma la sua
dissoluzione era necessaria. Il mito si era venuto formando quando era ancor
viva la superstizione scientifica, quando si aveva una fede cieca in tutto ciò
che era accompagnato dall’attributo scientifico. Il raggiungimento di questa
società modello era un postulato del positivismo filosofico, della filosofia
scientifica. Ma questa concezione non era scientifica, era solo meccanica,
aridamente meccanica […]. Era questa una visione libresca, cartacea della vita;
si vede l’unità, l’effetto, non si vede il molteplice, l’uomo di cui l’unità è
la sintesi. La vita è per costoro come un’unità che si osserva da lontano, nella
sua irresistibile caduta. Posso io fermarla?, si domanda l’homunculus: no,
dunque essa non segue una volontà. Perché la valanga umana obbedisce ad una
logica che caso per caso può non essere la mia individuale, ed io individuo non
ho la forza di fermarla o di farla deviare, mi convinco che essa non ha una
logica interiore, ma ubbidisce a delle leggi naturali infrangibili… È avvenuta
la débâcle della scienza, o per meglio dire, la scienza si è limitata ad
assolvere il solo compito che le era concesso; si è perduta la cieca fiducia
nelle sue deduzioni ed è quindi tramontato il mito che essa aveva contribuito
potentemente a suscitare. Ma il proletariato si è rinnovato […]. È avvenuto un
processo di interiorizzamento: si è trasportato dall’esterno all’interno il
fattore della storia: a un periodo di espansione ne succede sempre uno di
intensificazione. Alla legge naturale, al fatale andare delle cose degli
pseudoscienziati è stata sostituita: la volontà tenace dell’uomo. Il socialismo
non è morto, perché non sono morti per esso gli uomini di buona volontà […].
Accelerare l’avvenire. Questo è il bisogno più sentito nella massa socialista.
Ma cos’è l’avvenire? Esiste esso come qualcosa di veramente concreto?
L’avvenire non è che un prospettare nel futuro la volontà dell’oggi come già
avente modificato l’ambiente sociale. Pertanto accelerare l’avvenire significa
due cose. Essere riusciti a far estendere questa volontà a un numero tale di
uomini quanto si presume sia necessaria per far diventare fruttuosa la volontà stessa.
E questo sarebbe un progresso quantitativo. Oppure: essere riusciti a far
diventare questa volontà talmente intensa nella minoranza attuale, che sia
possibile l’equazione 1 = 1.000.000. E questo sarebbe un progresso
qualitativo»27. Questo volontarismo del giovane Gramsci, col suo «fondo
irrazionalistico», si confermerà attraverso la lezione politica costituita
dalla rivoluzione russa28. In Gramsci, infatti, la formazione filosofica,
l’opzione sulla natura della storia e sulla natura della rivoluzione proletaria
fatta da militante comunista negli anni duri della guerra e del crollo anche
della Seconda Internazionale, non viene cancellata, ma resta componente
fondante della sua riflessione nei Quaderni.
Si veda il celebre scritto del 1917, La rivoluzione contro
il «Capitale», immediatamente successivo alla rivoluzione russa: «La
rivoluzione dei bolsceviki è materiata di ideologie più che di fatti (Perciò,
in fondo, poco ci importa sapere più di quanto sappiamo). Essa è la rivoluzione
contro il Capitale di Carlo Marx […]. I fatti hanno superato le ideologie. I
fatti hanno fatto scoppiare gli schemi critici entro i quali la storia della
Russia avrebbe dovuto svolgersi secondo i canoni del materialismo storico. I
bolsceviki rinnegano Carlo Marx […]. Vivono il pensiero marxista, quello che
non muore mai, che è la continuazione del pensiero idealistico italiano e
tedesco, e che in Marx si era contaminato di incrostazioni positivistiche e
naturalistiche. E questo pensiero pone sempre come massimo fattore di storia
non i fatti economici, bruti, ma l’uomo, ma le società degli uomini, degli
uomini che si accostano fra di loro, si intendono fra di loro, sviluppano
attraverso questi contatti (civiltà) una volontà sociale, collettiva, e
comprendono i fatti economici, e li giudicano, e li adeguano alla loro volontà,
finché questa diventa la motrice dell’economia, la plasmatrice della realtà
oggettiva, che vive, e si muove, e acquista carattere di materia tellurica in
ebullizione, che può essere incanalata dove alla volontà piace, come alla
volontà piace […]. La predicazione socialista ha messo il popolo russo a
contatto con le esperienze degli altri proletari. La predicazione socialista fa
vivere drammaticamente in un istante la storia del proletariato, le sue lotte
contro il capitalismo, la lunga serie degli sforzi che deve fare per
emanciparsi idealmente dai vincoli del servilismo che lo rendevano abietto, per
diventare coscienza nuova, testimonio attuale di un mondo da venire. La
predicazione socialista ha creato la volontà sociale del popolo russo. Perché
dovrebbe egli aspettare che la storia dell’Inghilterra si rinnovi in Russia,
che in Russia si formi una borghesia, che la lotta di classe sia suscitata,
perché nasca la coscienza di classe e avvenga finalmente la catastrofe del
mondo capitalistico? Il popolo russo è passato attraverso queste esperienze col
pensiero, e sia pure col pensiero di una minoranza. Ha superato queste
esperienze. Se ne serve per affermarsi ora, come si servirà delle esperienze
capitalistiche occidentali per mettersi in breve tempo all’altezza di
produzione del mondo occidentale. L’America del Nord è capitalisticamente più
progredita dell’Inghilterra, perché nell’America del Nord gli anglosassoni
hanno cominciato di un colpo dallo stadio cui l’Inghilterra era arrivata dopo
lunga evoluzione. Il proletariato russo, educato socialisticamente, incomincerà
la sua storia dallo stadio massimo di produzione cui è arrivata l’Inghilterra
d’oggi, perché dovendo incominciare, incomincerà dal già perfetto altrove, e da
questo perfetto riceverà l’impulso a raggiungere quella maturità economica che
secondo Marx è condizione necessaria del collettivismo. I rivoluzionari
creeranno essi stessi le condizioni necessarie per la realizzazione completa e
piena del loro ideale. Le creeranno in meno tempo di quanto avrebbe fatto il
capitalismo»29. Si tratta di uno scritto gentiliano, in cui Gramsci interpreta
attraverso l’attualismo la rivoluzione leninista30. Vi è qui la negazione di
qualsiasi spontaneismo (spontaneismo è qui inteso nel senso di storia non
intenzionale, non regolata «a disegno») dello sviluppo sociale, che Gramsci
confonde col determinismo e coll’economicismo, mostrando con ciò di aderire
completamente alla reazione che si sviluppa contro l’economicismo di molti
esponenti della II Internazionale e che, rifiutando il determinismo
economicistico, rinuncia anche all’idea di oggettivismo storico. «Ha potuto il
suo [Lenin] pensiero convertirlo in forza operante nella storia […]. Egli i
suoi compagni bolsceviki sono persuasi che sia possibile in ogni momento
realizzare il socialismo. Sono nutriti di pensiero marxista. Sono
rivoluzionari, non evoluzionisti. E il pensiero rivoluzionario nega il tempo
come fattore di progresso. Nega che tutte le esperienze intermedie tra la
concezione del socialismo e la sua realizzazione debbano avere nel tempo e
nello spazio una riprova assoluta e integrale. Queste esperienze basta che si
attuino nel pensiero perché siano attuate e si possa procedere oltre»31. C’è
qui un volontarismo rivoluzionario, associato alla strategia leninista
dell’avanguardia proletaria, che s’impone sulle condizioni oggettive che
sembrano incatenare gli uomini alla dinamica inscritta nei rapporti di
produzione che determinano la natura della loro azione sociale. Le condizioni
storiche valgono solo come terreno di preparazione delle volontà, com’è
successo con le condizioni terribili provocate dalla guerra, che, con la sua
miseria e distruzione, ha costituito la premessa propizia all’esercitarsi della
propaganda bolscevica32. E, tuttavia, Lenin e i bolscevichi «sono persuasi che
sia possibile in ogni momento realizzare il socialismo». Non è la libertà «la
forza immanente della storia, che fa scoppiare ogni schema prestabilito»? Così
come la storia è «sviluppo libero – di energie libere, che nascono e si
integrano liberamente – diverso dall’evoluzione naturale, come l’uomo e le
associazioni umane sono diversi dalle molecole e dagli aggregati di
molecole»?33. E ancora un passo che sintetizza vitalismo bergsoniano ed
attualismo gentiliano: «Nessun atto rimane senza risultati nella vita, e il
credere in una piuttosto che in un’altra teoria ha i suoi particolari riflessi
sull’azione: anche l’errore lascia tracce di sé, in quanto divulgato e
accettato può ritardare (non certo impedire) il raggiungimento di un fine. È
questa una prova che non la struttura economica determina direttamente l’azione
politica, ma l’interpretazione che si dà di essa e delle così dette leggi che
ne governano lo svolgimento»34. Questa libertà positiva dell’atto storico è
ereditata dai Quaderni del carcere nella teoria del «blocco storico»35.
Diversamente da Labriola, non c’è insomma in Gramsci un
tentativo di ridefinizione della relazione tra forze produttive e rapporti di
produzione, cioè un tentativo di riforma teorica del concetto di modo di
produzione, nella misura in cui lo sviluppo storico in cui in qualche modo
l’oggettività del processo storico-economico risulta una forza che s’impone
sulle volontà individuali e dei gruppi è ridotto allo stereotipo
dell’economicismo più vieto, con l’uso della metafora dello sviluppo meccanico,
macchinistico. Ed è allora tutto al versante delle volontà individuali e dei
gruppi che Gramsci si volge, perdendo completamente, col concetto di modo di
produzione, il concetto di un oggettivismo storico.
Con le parole di Nicola Badaloni, si può dire che in Gramsci
non sia presente, o non sia presente in modo dominante o coerente, quella
«concezione filosofica in cui gli sviluppi sono intesi nella loro necessità a
partire dalle condizioni introdotte dalla genesi»36. Se l’esigenza di
determinare la filosofia della praxis come filosofia del marxismo è ripresa da
Labriola, non lo è allora la teoria della storia, che pure in Labriola è parte
integrante della concezione della filosofia immanente alle cose di cui
filosofa. Invece Gramsci assegna, com’è noto (sebbene in modo critico,
prendendo e rifiutando al tempo stesso), grande valore alla necessità,
all’interno della filosofia della prassi, di una riappropriazione della storia
etico-politica di Croce (in quanto storia del momento dell’egemonia, cfr. QC,
p. 1223), la quale, sebbene sia ritenuta, da sola, insufficiente, e debba
essere integrata col momento della lotta, sembra restare, nei Quaderni,
l’istanza principale, soverchiante lo stesso momento della lotta
politico-economica37. Il punto che costituisce infatti il fondamentale aggancio
del marxismo in Gramsci e che lo allontana dalla storia etico-politica di Croce
è appunto la concezione che la «produzione umana» con cui Gramsci fa coincidere
la storia sia produzione umana all’interno della lotta di classe. Lo si vede
ancora da un passo giovanile: «La storia è produzione umana, dell’umanità che
si scinde in classi e ceti, dei quali volta a volta uno è predominante e dirige
la società ai suoi fini, combattuto dall’altra parte che tende ad affermarsi e
a sostituirsi nella direzione; non evoluzione, quindi, ma sostituzione della
quale è mezzo necessario la forza consapevole e disciplinata»38. Si ritrova qui
il momento idealistico filosofico all’interno di una concezione politica
marxista. Ed in ciò consiste il carattere della sintesi gramsciana.
L’universo filosofico della sintesi di Gramsci, che è
sintesi originalissima e innovatrice, lo si può capire dunque solo attraverso
questa mediazione idealistica col marxismo. Anche perché l’azione egemonica
della presentazione e della liquidazione del materialismo storico era stata
condotta dal neoidealismo italiano. Questo Gramsci l’ha capito benissimo, anche
se ciò non toglie che di questo materialismo storico presentato dal
neoidealismo Gramsci si sia nutrito in gioventù secondo un’esperienza che
sarebbe rimasta indelebile. Ha scritto Mario Tronti: «Dopo che il pensiero di
Marx è passato attraverso le maglie della cultura idealistica, che cosa ne è
rimasto? Croce ha negato che esistesse un Marx ‘filosofo’; Gentile lo ha
concesso, ma lo ha considerato contraddittorio e quindi improponibile; Mondolfo
lo ha definito un ‘filosofo della prassi’. Ebbene, quest’ultima è da considerarsi
la conclusione logica che scaturisce da quelle premesse. Il marxismo come
‘filosofia della prassi’ è ciò che rimane del marxismo, dopo che è stato
liquidato dall’interpretazione idealistica. Rimane cioè una teoria dell’azione,
una filosofia della volontà, una guida per il comportamento sociale, una
tecnica per il processo rivoluzionario, l’identità di conoscere e fare, di
pensiero e prassi; un vichianesimo corretto dal moderno pragmatismo. Gramsci ha
dietro di sé tutto questo passato. E senza capire tutto questo passato, non
possiamo capire Gramsci; tanto meno il ‘marxismo’ di Gramsci»39. E allora
Tronti allontana l’esigenza che Gramsci riprende da Labriola di far reggere il
marxismo sulle proprie gambe, senza fare ricorso ad un’altra filosofia, perché
«ciò che in quest’ultimo [Labriola] era già compiuto e pienamente espresso
nell’opera di Marx e di Engels, diventa in Gramsci un risultato che è ancora da
raggiungere, una posizione che è ancora da conquistare, un obiettivo a cui
bisogna tendere»40. La grandezza di Gramsci starebbe allora per Tronti nel
fatto di aver colto la natura specifica del marxismo italiano, il suo essere
intimamente legato all’idealismo, il suo limite nel volerla ritrovare
all’interno di un rapporto dialettico con l’idealismo stesso, da cui non può
staccarsi41. Ed in effetti Gramsci accetta la rottura dell’unità del pensiero
marxista, operata dalla crisi del marxismo e di certa parte del pensiero
marxista ed antimarxista della Seconda Internazionale (Croce, Gentile, ancora,
e poi Sorel, Bernstein ecc.). Nel gennaio 1918, polemizzando contro Claudio
Treves ed il suo socialismo al tempo stesso fatalista e riformista, Gramsci
scrive: «La nuova generazione pare voglia ritornare alla genuina dottrina di
Marx, per la quale l’uomo e la realtà, lo strumento di lavoro e la volontà, non
sono dissaldati, ma si identificano nell’atto storico. Credono, pertanto, che i
canoni del materialismo storico valgano solo post factum, per studiare e
comprendere gli avvenimenti del passato, e non debbano diventare ipoteca sul
presente e sul futuro. Credono non già che la guerra abbia distrutto il
materialismo storico, ma solo che la guerra abbia modificato le condizioni
dell’ambiente storico normale, per cui la volontà sociale, collettiva degli
uomini abbia acquistato una importanza che normalmente non aveva. Queste nuove
condizioni sono anch’esse fatti economici, hanno dato ai sistemi di produzione
un carattere che prima non avevano: l’educazione del proletariato si è ad essi
adeguata necessariamente, ed ha in Russia portato alla dittatura»42. In questo
passo, si può registrare la doppia presenza di Croce – di cui è ripresa l’idea
del «materialismo storico [che] vale come semplice canone d’interpretazione»,
qualcosa che «non importa nessuna anticipazione di risultati, ma solamente un
aiuto a cercarli, e che è di origine affatto empirica»43 – e dell’attualismo di
Gentile.
Il pensiero politico comunista di Gramsci, sulla base di
questa concezione della storia tanto debitrice al neoidealismo italiano,
considera però la coesione sociale come l’effetto o la risultante della lotta
tra classi (o, per usare il termine che Gramsci finirà per prediligere, tra
«gruppi»44) e delle strategie messe in atto dai gruppi dominanti per trasferire
il dissenso fuori del terreno della lotta e controllarlo o trasformarlo
addirittura in consenso. Viene attribuita così preminenza ai caratteri
«sovrastrutturali», culturali, del conflitto che costituisce il fondamento
societario. Gramsci sviluppa cioè tutta un’indagine sulla lotta non tanto per
il potere tout-court, ma per il controllo dei ruoli ideologici e delle
prerogative costruiti e detenuti nelle istituzioni della società civile –
indagine che non era mai stata sviluppata così attentamente nel pensiero
marxista. Il vizio filosofico di fondo (la lacuna in teoria marxista, si
potrebbe dire) del pensiero gramsciano si tramuta così nel punto di forza e di
indiscutibile originalità ed acutezza del suo pensiero socio-politico.
Alla filosofia della praxis può essere dunque riconosciuto
il carattere di una sintesi foriera di sviluppi innovatori del marxismo, che
più che correggere – il ritorno a Marx, che Gramsci non compie, resta
fondamentale – aggiunge nuovi elementi di teoria politica comunista, alla
comprensione della società civile come società politica, indagando soprattutto
questioni che i fondatori del materialismo storico non avevano trattato
specificamente, le forme complementari alla presa e gestione del potere, il
rapporto tra potere e forme di cultura. Fondamentale è in questa sintesi
l’elemento politico realistico, la fortissima esigenza di pensare la strategia
rivoluzionaria per l’Italia dopo la rivoluzione leninista45, l’esperienza del
passaggio dal socialismo al comunismo. Ora, in questo senso, è l’opzione
idealistica di fondo che permette a Gramsci di cogliere degli aspetti
contemporanei della gestione del potere attraverso elementi attivi della
società civile, non direttamente organizzati come apparato repressivo (e in
questo senso l’analisi di Gramsci è estremamente più realistica, complessa e
convincente di quella di Foucault).
L’estensione gramsciana, attraverso la nozione di «blocco
storico», del concetto di società civile, come quella in cui la classe
dominante dispone degli strumenti del potere ideologico, degli apparati ideologici
di Stato, e la sua inclusione di questa, insieme alla società politica, nel
concetto di Stato (QC, pp. 800-801) è il motivo di originalità in cui si deve
cercare la grandezza ed originalità del pensiero gramsciano. E questo
accettando la tesi di chi vede «in Gramsci soprattutto il momento della
coscienza: qui risiede l’originalità di Gramsci. Certo la presenza del momento
strutturale condiziona tutta la ricerca, ma le sue elaborazioni originali
vertono sul momento della prassi cosciente»46. Collegata al concetto gramsciano
di società civile è infatti la teoria dell’egemonia, che nasce dal
riconoscimento che il potere liberale governa più col consenso che con la
coercizione. Come intendere però questo Gramsci «teorico delle soprastrutture»?
Com’è noto, così interpretava Bobbio l’estensione gramsciana del concetto di
società civile al convegno di Cagliari del 196747: tale concetto sarebbe
ascrivibile a Hegel: in Marx, invece, «le ideologie vengono sempre dopo le
istituzioni, quasi come un momento riflesso nell’ambito dello stesso momento
riflesso, in quanto vengono considerate nel loro aspetto di giustificazioni
postume e mistificate-mistificanti del dominio di classe»48. Labriola aveva
dato l’interpretazione canonica della concezione marxiana: «Date le condizioni
di sviluppo del lavoro, e dei suoi appropriati e congrui istrumenti, la
struttura economica della società, ossia la forma della produzione dei mezzi
immediati della vita, determina sopra un terreno artificiale, in primo luogo e
per diretto, tutta la rimanente attività pratica dei consociati, e il variare
di tale attività nel processo che chiamiamo storia, e cioè: – la formazione,
l’attrito, le lotte e la erosione delle classi –; – lo svolgimento
corrispettivo dei rapporti regolativi, così del diritto, come della morale; – e
le ragioni e i modi di subordinazione e di soggezione, degli uomini verso gli
uomini, col rispondente esercizio del dominio e dell’autorità, ciò, insomma, in
cui da ultimo si origina e consiste lo stato: e determina in secondo luogo
l’indirizzo, e in buona parte, e per indiretto, gli obietti della fantasia e
del pensiero, nella produzione dell’arte, della religione e della scienza»49.
Invece, in Gramsci «il rapporto tra istituzioni e ideologie, pur nello schema
di un’azione reciproca, è invertito: le ideologie diventano il momento primario
della storia, le istituzioni il momento secondario. Una volta considerato il
momento della società civile come il momento attraverso cui si realizza il
passaggio dalla necessità alla libertà, le ideologie, di cui la società civile
è la sede storica, sono viste non più soltanto come giustificazione postuma di
un potere la cui formazione storica dipende dalle condizioni materiali, ma come
forze formatrici e creatrici di nuova storia, collaboratrici nella formazione
di un potere che si va costituendo più che non giustificatrici di un potere già
costituito»50. La tesi di Bobbio così si completa: rispetto alla tradizione
marxista, Gramsci opererebbe quindi due inversioni: «la prima consiste nel privilegiamento
della sovrastruttura rispetto alla struttura, la seconda consiste nel
privilegiamento, nell’ambito della sovrastruttura, del momento ideologico
rispetto a quello istituzionale»51. All’interno cioè del primato del momento
egemonico cultural-politico, che caratterizzerebbe per Bobbio la posizione
gramsciana, il primato andrebbe al motivo culturalistico su quello
politicoistituzionale. Di qui l’importanza accordata da Gramsci alla storia
etico-politica di Croce e la tesi secondo la quale lo specifico del pensiero
dei Quaderni consiste nel privilegiamento del motivo culturalista.
In Labriola la questione della crisi del marxismo si pone in
questi termini: la teoria marxista è necessaria per l’azione proletaria; ma la
teoria c’è, c’è cioè una concezione nuova e oggettiva, scientifica, di
intendere la storia, la politica e l’azione proletaria, una nuova concezione
per cui questi aspetti sono unificati; la situazione di crisi dipende da una
mancata diffusione della teoria, a tutti i livelli. Ora, la mancata diffusione
della teoria è però anche stato primitivo della teoria, perché, se «nelle
nostre file c’è da per tutto scarsezza di forze intellettuali […]. Non c’è
dunque da inarcar le ciglia, se il materialismo storico sia così poco
progredito dalle prime e generali enunciazioni […] nella somma di tutto ciò che
se n’è scritto di serio, di congruo e di corretto, non c’è ancora l’insieme di
una dottrina uscita già dallo stadio della prima formazione»52. Ora, Labriola
pensava l’azione proletaria verso il socialismo nel senso di un incivilimento
che, pur costituendo una rottura col mondo capitalista, nella misura in cui
occorre superare l’anarchia della produzione, mantenesse comunque una
continuità col mondo borghese, inteso come formazione sociale a cui il socialismo
moderno (non accostabile ai precedenti socialismi) deve la propria genesi e di
cui conserva le acquisizioni di civiltà. La crisi può allora essere intesa come
crisi del movimento storico. È, in effetti, il passaggio logico, la conclusione
cui perviene Labriola. Era allora necessario che si sviluppassero le borghesie
nazionali. Va vista in quest’ottica la famosa intervista del 1902 a favore
della colonizzazione della Libia.
Gramsci, invece, nelle sue ricostruzioni storiche, sembra
lasciare spazio, all’interno sì di una teoria dell’incivilimento (vedi proprio
la famosa critica dello storicismo scadente di Labriola), alla discontinuità
storica determinata dall’imporsi di una forma della cultura, espressione sì di
una classe e dei suoi interessi, ma che nell’atto, o meglio nel processo,
dell’imporsi sembra avere un’autonomia o una potenza specifica che è il motivo
del culturale.
Si può dire che Gramsci dia seguito, grazie alla sua
indagine della cultura come egemonia e ad una teoria degli intellettuali e
delle loro funzioni storico-sociali53, alla questione della non diffusione del
marxismo, che è una questione che Labriola si trova a risolvere nei termini
dello scarso sviluppo del sistema capitalistico, dell’immaturità di molti
contesti capitalistici nazionali e dei loro rispettivi movimenti operai: è la
continuazione della sua teoria genetica, che ha degli aspetti continuisti,
secondo cui il movimento operaio è un prodotto del mondo capitalistico. Gramsci
offre un’analisi diversa di tale questione con una teoria del rapporto tra
egemonia politica e cultura: scrive nei Quaderni che il problema della
debolezza degli intellettuali marxisti sta nel fatto che la filosofia della praxis
«attraversa ancora la sua fase popolaresca: suscitare un gruppo di
intellettuali indipendenti non è cosa facile, domanda un lungo processo», e
richiede anzitutto uno sviluppo organico dato fondamentalmente da un certo
controllo dello Stato (il problema dello sviluppo disorganico
dell’intellettualità «che è sempre al di qua dal possesso dello Stato»): è
«l’esercizio reale dell’egemonia su l’intera società che solo permette un certo
equilibrio organico nello sviluppo del gruppo intellettuale». Come la Riforma
protestante era stato il movimento del popolo tedesco e non degli
intellettuali, che si erano piegati dinanzi alle persecuzioni, e la Riforma
solo più tardi aveva selezionato una propria intellettualità nella filosofia
classica tedesca; allo stesso modo, osserva Gramsci, i grandi intellettuali
formatisi sul terreno della filosofia della praxis non erano nati dal popolo,
ma erano l’espressione di classi intermedie tradizionali, alle quali
ritornavano nei momenti critici, nelle svolte storiche; quelli che rimanevano
legati al proletariato, sottoponevano la nuova concezione ad una sistematica
revisione, bloccandone lo sviluppo autonomo. Si tratta ancora di «una nuova
cultura in incubazione che si svilupperà con lo svilupparsi dei rapporti
sociali». L’urgenza del problema si pone però effettivamente solo dopo la
formazione statale, mentre prima l’intellettuale marxista è costretto ad una
condotta critico-polemica (QC, pp. 1862-1863). In un articolo dell’«Ordine
Nuovo» del 1920, Due Rivoluzioni, Gramsci aveva affermato la necessità che la
rivoluzione fosse la «liberazione di forze produttive proletarie e comuniste
che erano venute elaborandosi nel seno stesso della società dominata dalla
classe capitalista», altrimenti essa «può giungere fino allo stabilirsi di un
potere proletario e comunista che si esaurisce in ripetuti e disperati
tentativi per suscitare d’autorità le condizioni economiche del suo permanere e
del suo rafforzarsi, e viene alla fine travolto dalla reazione capitalista».
Insistendo su «la rivoluzione come processo ricostruttivo in senso comunista»,
dentro cui deve sostanziarsi «la rivoluzione come conquista del potere sociale
da parte del proletariato»54, Gramsci non negava l’importanza del primo momento
della rivoluzione, la presa del potere: esso era necessario, ma insufficiente:
qui l’origine politica della nozione di ideologia. In questi passi, la
questione dell’egemonia e quella del potere sembrano costituire due fasi
diverse non nel senso cui comunemente ci si riferisce della subalternità della
presa del potere rispetto all’esercizio di un’egemonia, ma nel senso contrario.
Vi è complementarità, mi sembra, poiché Gramsci concede al possesso
dell’apparato governativo-coercitivo un valore specifico e imprescindibile per
l’esercizio dell’egemonia stessa. La direzione politica e culturale delle
masse, la creazione di uno Stato nazional-popolare integrano la teoria del
potere, ma non ne invertono i fattori tradizionali della priorità della presa
del potere politico, condizione fondamentale di un esercizio organico della
stessa lotta culturale e politica per l’egemonia. Senza risolvere qui la
questione, occorre ricordare l’osservazione preliminare da cui si sono prese le
mosse in questo saggio, e cioè il carattere aperto delle note dei Quaderni del
carcere, che non sono dell’ordine del sistema, ma della ricerca (meglio ancora,
si tratta di note di preparazione e di riflessione intorno a possibili ricerche
future). Inoltre, il riferimento ad «una nuova cultura in incubazione che si
svilupperà con lo svilupparsi dei rapporti sociali» contiene elementi di una
concezione sviluppistica e assolutamente non volontaristica, e quindi, anziché
indicare un primato del momento egemonico cultural-politico55, rimanda sullo
sfondo all’esistenza di un processo sociale da considerare tutto intero
nell’immanenza che è considerata nella filosofia della praxis. E ciò
confermerebbe che l’interesse tematico specifico di buona parte della
riflessione dei Quaderni – appunto, il momento culturale come sistema
dell’egemonia politica – costituisce il contributo specifico della teoria
politica gramsciana e non una riformulazione generale del marxismo. Così la
volontà – il tema e lo specifico gramsciano – si eleva sulla determinatezza
della contraddizione socio-economica (che Gramsci non riformula teoreticamente,
se non nella misura appunto in cui la mette in relazione con la volontà). Con
le parole di Badaloni: «Le volontà di cui parla Gramsci e, quindi, la prassi,
non sono allo stato puro, ma contengono gli elementi materiali che l’uomo
stesso ha oggettivato. Ciò significa in primo luogo che la filosofia della
prassi è per Gramsci la coscienza piena delle contraddizioni della società a
lui contemporanea, sicché ‘lo stesso filosofo, inteso individualmente o inteso
come intero gruppo sociale, non solo comprende le contraddizioni, ma pone se
stesso come elemento della contraddizione, eleva questo elemento a principio di
conoscenza e quindi di azione’ […] la filosofia della prassi è per Gramsci
costruzione di volontà collettive corrispondenti ai bisogni che emergono dalle
forze produttive oggettivate o in via di oggettivazione e dalla contraddizione
tra queste e il grado di cultura e civiltà espresso dalle relazioni sociali»56.
In Gramsci uomo politico, e anche nel Gramsci dei Quaderni, la nozione di
egemonia è una, ma ciò non toglie che essa abbia una doppia determinazione,
quella politica e quella filosofica, ove l’una nasce dall’analisi
politicosociale dell’uomo di partito, e l’altra è riferibile all’intellettuale
marxista ed idealista. E però è proprio la concezione idealistica della storia
e l’appropriazione idealistica del marxismo a costituire il punto di partenza
della stessa teoria politica dell’egemonia. Ciò implica lo spostamento dal
terreno economico (se non da quello del lavoro) verso il terreno
politico-culturale.
Il confronto con Labriola – che sta al di qua
dell’operazione di appropriazione idealistica del marxismo fatta
dall’idealismo, anche se ne è stato, suo malgrado e via Croce, strumento –
rende chiaro che l’eredità diretta che Gramsci raccoglie del marxismo
idealistico determina un orientamento culturalista e volontarista, temperato da
elementi di comprensione più fortemente marxisti di quelli recepiti
dall’idealismo italiano (e che è però temperato soprattutto da una concezione
leninista della rivoluzione politica), che però butta via con la teoria
economicistica dello sviluppo spontaneo anche l’idea dell’oggettività della
storia. Questa, mi sembra, la ragione dell’esigenza che sorge periodicamente
negli studi gramsciani di comprendere l’«autentico contenuto marxista» delle
teorie dei Quaderni del carcere. Se la nostra dicotomia tra l’origine
filosofica e quella politica della nozione di ideologia equivale alla doppia
tendenza che, nel famoso convegno cagliaritano del 1967, Badaloni indicava come
la tendenza a separare in Gramsci il momento teorico-filosofico da quello
etico-politico57, le due tendenze potevano in effetti «dialettizzarsi» solo
riconoscendo gli elementi che facevano della teoria gramsciana della storia, al
di là dei loro motivi idealistici, una teoria marxista: Badaloni indicava, per
esempio, in questo senso come decisivo il compito che Gramsci attribuisce alla
filosofia, quello cioè di essere una critica delle ideologie, sulla base del
carattere sociologico di tutte le ideologie e filosofie, che solo nel marxismo
è pieno, perché solo il marxismo ha la consapevolezza, a un tempo, del proprio
fondamento sociologico e di quello delle altre filosofie. 58
Note
A. Gramsci, Alcuni
temi della quistione meridionale, in Id., la questione meridionale, a cura
di Franco de Felice e Valentino parlato, Roma, Editori Riuniti, 2005, p. 186.
2 Così Domenico Losurdo, riferendosi al contempo al contesto
politico e culturale italiano, valuta la presa di posizione del giovane Gramsci
per il pensiero liberale e per il neoidealismo italiano (che per lo stesso
Losurdo rappresenta all’epoca «la più avanzata cultura europea e mondiale»),
ivi incluso poi il motivo del necessario superamento di Croce (cioè del passare
attraverso Croce): «La presa di posizione
a favore di Hegel (e di Croce e Gentile) è una presa di posizione a favore del
moderno e, per quanto riguarda l’Italia, a favore del Risorgimento che ha
significato il rovesciamento dell’antico regime, l’avvento di un moderno Stato
nazionale e la sconfitta di uno Stato della Chiesa chiaramente ancora
premoderno […]. Ma ciò sta a significare il carattere sin dall’inizio
problematico del rapporto da Gramsci istituito coi due grandi intellettuali
laici. Viene loro accreditato un credito per così dire sub condicione: la lettura
dei loro testi va alla ricerca di una risposta o di materiali per una risposta
ad un problema reale […] la successiva evoluzione porterà Gramsci a vedere nei
due grandi intellettuali neoidealisti non già gli alfieri della lotta per la
difesa del moderno quanto i complici dell’oscurantismo anti-moderno di Pio X,
impegnati, in nome della difesa dell’ordinamento sociale, a non intaccare
l’influenza sulle masse popolari della cultura clericale più reazionaria» (D.
Losurdo, Antonio Gramsci dal liberalismo al «comunismo critico», Roma,
Gamberetti, 1997, pp. 23-24 e 19-20).
3 A. Gramsci, Misteri
della cultura e della poesia, in Scritti giovanili. 1914-1918, Torino,
Einaudi, 1958, pp. 327-328.
4 S. Timpanaro, Sul
materialismo, Milano, Unicopli, 1973 , p. 97.
5 Nella seconda versione del brano: «In realtà il Labriola,
affermando che la filosofia della prassi è indipendente da ogni altra corrente
filosofica, è autosufficiente, è il solo che abbia cercato di costruire
scientificamente la filosofia della prassi» (QC, pp. 1507-1508).
6 L’esempio portato da Gramsci è quello della «conclusione
opportunistica espressa da Otto Bauer nel suo recente volumetto Socialismo e
Religione che il marxismo può essere ‘sostenuto’ o ‘integrato’ da una qualsiasi
filosofia, quindi anche dalla cosiddetta ‘filosofia perenne della religione’»
(QC, p. 309), «dal tomismo», nella seconda versione di questo brano (QC, p.
1508).
7 Nella seconda versione, è aggiunto tra parentesi: «non
sempre sicura, a dire il vero», e a «marxismo» Gramsci sostituisce
sistematicamente «filosofia della praxis» (QC, p. 1855).
8 C. Luporini, Autonomia
del pensiero di Gramsci e di Togliatti, «Rinascita» 9 (1974), p. 33.
Valentino Gerratana escludeva l’influenza di Labriola su Gramsci all’epoca
dell’«Ordine Nuovo», affermandone
invece l’importanza per i Quaderni
(cfr. V. Gerratana, Ricerche in storia del marxismo, Roma, Editori Riuniti,
1972, pp. 157-158). Cfr. anche Eugenio Garin, che si riferisce specificamente
al giovane Gramsci del 1917-1918: «Lo stesso richiamo a Labriola, a questo
punto, è accidentale, e probabilmente spesso mediato attraverso Croce o
Mondolfo» (E. Garin, Politica e cultura
in Gramsci (il problema degli intellettuali), in Pietro Rossi (a cura di), Gramsci e la cultura contemporanea. Atti
del Convegno internazionale di studi gramsciani tenuto a Cagliari il 23-27
aprile 1967, Roma, Editori Riuniti – Istituto Gramsci, 1970, vol. I, p. 51).
Cfr. anche L. Dal Pane, Antonio Labriola
nella politica e nella cultura italiana, Torino, Einaudi, 1975, pp.
463-464.
9 A. Labriola, Discorrendo
di socialismo e di filosofia, in Id., Saggi sul materialismo storico Roma,
Editori Riuniti, 2000, pp. 238-239.
10 A. Labriola, Del
materialismo storico. Dilucidazione preliminare, in Id., Saggi sul
materialismo storico cit., p. 107.
11 Ivi, p. 94.
12 Ivi, p. 113.
13 Ivi, p. 133.
14 Cfr. invece M. Tronti, Tra materialismo dialettico e filosofia della prassi, in
Caracciolo, Alberto e Scalía, Gianni (a cura di), La città futura. Saggi sulla
figura e il pensiero di Antonio Gramsci, Milano, Feltrinelli, 1976, p. 81, e N.
Badaloni, Il marxismo di Gramsci. Dal mito alla ricomposizione politica,
Torino, Einaudi, 1975, pp. 27-28, che vedono in Labriola un dualismo irrisolto
tra queste due istanze, cioè tra «una interpretazione della storia» e «una
concezione generale del mondo e della vita» (Tronti); e «tra una concezione
della storia come racconto» e «una concezione morfologica dello sviluppo
storico che permetta un’interpretazione dei vari ritmi del tempo storico come
loro ritraduzione in quello della formazione proletaria» (Badaloni).
15 Cfr. su questo punto A. Labriola, Del materialismo storico. Dilucidazione preliminare cit., pp.
174-175, e il commento di S. Timpanaro, Sul materialismo cit., pp. 21-24.
16 «Il concetto di ‘oggettivo’ del materialismo metafisico
pare voglia significare una oggettività che esiste anche all’infuori dell’uomo,
ma quando si afferma che una realtà esisterebbe anche se non esistesse l’uomo o
si fa una metafora o si cade in una forma di misticismo. Noi conosciamo la
realtà solo in rapporto all’uomo e siccome l’uomo è divenire storico anche la
conoscenza e la realtà sono un divenire, anche l’oggettività è un divenire
ecc.» (QC, p. 1416). Sul rifiuto da parte di Gramsci della nozione di
scientificità come carattere precipuo delle scienze naturali, cfr. QC, pp.
826-827.
17 A. Gramsci, Repubblica
e proletariato in Francia, in Scritti giovanili. 1914-1918, Torino,
Einaudi, 1958, pp. 205- 206. Gramsci sta trattando qui della democrazia.
18 A.
Gramsci, Utopia, in Scritti giovanili.
1914-1918 cit., p. 282.
19 S. Timpanaro, Sul
materialismo cit., pp. 203-204.
20 Cfr. N. Badaloni, Il
marxismo di Gramsci. Dal mito alla ricomposizione politica cit., pp. 27-28.
21 Gramsci non aveva i Saggi sul materialismo storico in
carcere, con l’eccezione dell’incompiuto Da un secolo all’altro. Li aveva con
sé a Roma prima dell’arresto.
22 Cfr. F. Engels, Antidühring.
La scienza sovvertita dal signor Dühring, Milano, Ed. Lotta comunista,
2003, p. 36, citato in A. Labriola, Discorrendo di socialismo e di filosofia
cit., pp. 252-253. Cfr. anche ivi, p. 259: «En attendant che in una futura
umanità di uomini quasi trasumanati, l’eroismo di Baruch Spinoza divenga la
virtù minuscola di tutti i giorni, e che i miti, la poesia, la metafisica e la
religione non ingombrino più il campo della coscienza, contentiamoci che fino
ad ora, e per ora, la filosofia, così nel senso differenziato, come nell’altro,
sia servita quale istrumento critico e serva, per rispetto alla scienza, a
mantenere la chiaroveggenza dei metodi formali e dei procedimenti logici, e per
rispetto alla vita a diminuire gl’impedimenti che all’esercizio del libero
pensiero frappongono le fantastiche proiezioni degli affetti, delle passioni,
dei timori e delle speranze; ossia giovi e serva, come direbbe precisamente
Spinoza, a vincere l’imaginatio e l’ignorantia».
23 Cfr. A. Labriola, Del
materialismo storico. Dilucidazione preliminare, in Id., Saggi sul
materialismo storico cit., p. 134: «Anche le idee suppongono un terreno di
condizioni sociali, ed hanno la loro tecnica: ed il pensiero è anch’esso una
forma del lavoro».
24 A. Tosel, Marx en
italiques. Aux origines de la philosophie italienne contemporaine,
Mauzevin, Trans-EuropRepress, 1991, p. 110.
25 G. Mastroianni, Antonio
Labriola e la filosofia in Italia. Studi filosofici, Urbino, Argalia, 1976,
pp. 11 e 15-16.
26 A.
Gramsci, Neutralità attiva ed operante,
in Scritti giovanili. 1914-1918 cit., p. 4.
27 A.
Gramsci, Margini, in Scritti
giovanili. 1914-1918 cit., pp. 84-86.
28 «Il problema del
Gramsci è d’ora in poi questo, che cosa significhi sul serio, senza ricorrere
al passe-partout dello spirito, essere ‘rivoluzionari, non evoluzionisti’, in
che senso arrivino a ‘scoppiare’ gli schemi critici del marxismo, e la
‘volontà’ diventi ‘la motrice dell’economia, la plasmatrice della realtà
oggettiva’» (G. Mastroianni, Antonio
Labriola e la filosofia in Italia. Studi filosofici cit., p. 13). I passi
gramsciani all’interno della citazione di Mastroianni provengono
rispettivamente da I massimalisti russi, La rivoluzione contro il «Capitale», in Scritti giovanili.
1914-1918 cit., pp. 124 e 150. Partendo dalle osservazioni di Gramsci su
Libertà e «automatismo» [o razionalità] (QC, pp. 1245-1246), Mastroianni trae
le conseguenze di un’arretratezza della posizione di Labriola: «Il Labriola è di là da questo chiarimento
della legge, di là dalla drastica riduzione che ne consegue, dell’orizzonte
stesso del marxismo a misura d’uomo, quanto basta per una ‘fase transitoria’ e
quando che sia caduca del pensiero, senz’altro valore che in rapporto
all’‘attuale terreno delle contraddizioni’ (attuale, elaborato soggettivamente,
non è in altri termini anch’esso, una condizione che noi non ci siamo fatta).
Il suo Marx è ancora uno Hegel (uno Spaventa) a rovescio, la sua dialettica non
lascia più margine di quella idealistica a iniziative indipendenti» (G.
Mastroianni, Antonio Labriola e la filosofia in Italia. Studi filosofici cit.,
p. 14-15).
29 A. Gramsci, La
rivoluzione contro il «Capitale», in Scritti giovanili. 1914-1918 cit., pp.
149-153.
30 Cfr. A. Tosel, Marx
en italiques. Aux origines de la philosophie italienne contemporaine, Mauzevin,
Trans-EuropRepress, 1991, p. 106 sgg. Tosel indica anche gli articoli del 1918,
Il socialismo e la filosofia attuale e La critica critica.
31 A.
Gramsci, I massimalisti russi, in Scritti
giovanili. 1914-1918 cit., p. 124.
32 A. Gramsci, La
rivoluzione contro il «Capitale» cit. p. 150.
33 A.
Gramsci, Utopia, in Scritti giovanili.
1914-1918 cit., p. 285.
34 Ivi, pp.
281-282. Non mancano, peraltro, nel giovane Gramsci, passi di segno
diverso, che sembrano richiamare un ritorno più diretto a Marx, quale, ad
esempio: «Con Marx la storia continua ad essere dominio delle idee, dello
spirito, dell’attività cosciente degli individui singoli od associati. Ma le
idee, lo spirito, si sustanziano, perdono la loro arbitrarietà, non sono più
fittizie astrazioni religiose o sociologiche. La sostanza loro è nell’economia,
nell’attività pratica, nei sistemi e nei rapporti di produzione e di scambio.
La storia come avvenimento è pura attività pratica (economica e morale)» (A.
Gramsci, Il nostro Marx, in Scritti giovanili. 1914-1918 cit., p. 285). Ma
riesce davvero Gramsci, qui e poi nei Quaderni, a effettuare questa sintesi
crociana, a rendere impuro l’atto gentiliano, a pensare cioè, come scrive qui,
la sostanziazione delle idee «nell’economia, nell’attività pratica, nei sistemi
e nei rapporti di produzione e di scambio»? Quanto incide questa nozione marxista
dell’unità dell’ideale e del reale nella concezione della storia, ed in essa
dell’azione culturale marxiana? O, piuttosto, alle «idee», allo «spirito»,
all’«attività cosciente degli individui singoli e associati» è lasciata
un’autonomia ed efficacia storica di ascendenza idealistica?
35 Cfr. A. Tosel, Marx
en italiques. Aux origines de la philosophie italienne contemporaine cit.,
p. 109. Nei Quaderni del carcere, l’anti-Gentile, che dovrebbe andare di pari
passo con l’anti-Croce, passa in secondo piano. Si domanda Tosel: forse perché
Gramsci fatica ad uscire da una problematica gentiliana, che continuerebbe a
sviluppare almeno in parte autonomamente? Il resto del capitolo dedicato da
Tosel a tale questione mette in luce le critiche di Gramsci al conservatorismo
dell’attualismo, il carattere regressivo della riforma gentiliana della
dialettica (cfr. ivi, pp. 114-121).
36 N. Badaloni, Il
marxismo di Gramsci. Dal mito alla ricomposizione politica cit., p. 27.
37 È vero peraltro che Croce non negava il momento della
lotta, ma lo considerava proprio del distinto economico, giusticandolo sulla
base di argometi vitalistici, come quelli presenti nei giudizi crociani sulla
guerra. Cfr. la nota accusa a Croce di aver cominciato arbitrariamente la
Storia d’Europa e la Storia d’Italia rispettivamente dal 1815 e dal 1871,
sopprimendo cioè, nel prima caso, la Rivoluzione francese e le guerre
napoleoniche, nel secondo caso le lotte del Risorgimento, sopprimendo così il
momento della lotta a tutto vantaggio del momento etico-politico, quello
dell’«espansione culturale» (QC, p. 1227). Scriveva Bobbio a proposito del
momento etico-politico in Gramsci: «la
soprastruttura è il momento della catarsi, cioè il momento in cui la necessità
si risolve in libertà, intesa hegelianamente come consapevolezza della
necessità. E questa trasformazione avviene per opera del momento
etico-politico. Alla necessità intesa come insieme delle condizioni materiali
che caratterizzano una determinata situazione storica è assimilato il passato
storico, considerato anch’esso come parte della struttura […]: solo attraverso
il riconoscimento delle condizioni obiettive il soggetto attivo diventa libero
e si mette in condizione di poter trasformare la realtà […]. Il riconoscimento
e il perseguimento del fine avvengono per opera del soggetto storico che opera
nella fase sovrastrutturale servendosi della struttura, la quale da momento
subordinante della storia diventa momento subordinato […]: il momento
etico-politico, in quanto momento della libertà, intesa come coscienza della
necessità (cioè delle condizioni materiali), domina il momento economico,
attraverso il riconoscimento che il soggetto attivo della storia fa
dell’oggettività, riconoscimento che permette di risolvere le condizioni
materiali in strumento d’azione, e quindi di raggiungere lo scopo voluto»
(N. Bobbio, Gramsci e la concezione della società civile, in Pietro Rossi (a
cura di), Gramsci e la cultura contemporanea. Atti del Convegno internazionale
di studi gramsciani tenuto a Cagliari il 23-27 aprile 1967, Roma, Editori
Riuniti – Istituto Gramsci, 1970, vol. II, pp. 89-90). Replicando a Bobbio,
Jacques Texier rivendicò l’unità del concetto marxista di blocco storico (ed,
in essa, il carattere condizionante della struttura), da cui viene la teoria
gramsciana dell’egemonia e delle ideologia (cfr. ivi, pp. 152-157). Si veda
anche Losurdo, che insiste sulla centralità della categoria di «contraddizione
oggettiva» nella filosofia della praxis gramsciana: «È privo di senso ridurre a filosofia della soggettività creatrice la
gramsciana filosofia della prassi, la quale si è costruita sì nella lotta
contro la versione positivistica e meccanicistica del marxismo (contro coloro
che condannavano la rivoluzione d’Ottobre agitando Il capitale), ma anche nel corso
della lotta intrapresa da Lenin contro le endenze estremistiche e
volontaristiche largamente presenti nella III Internazionale» (D. Losurdo, Antonio Gramsci dal liberalismo
al «comunismo critico» cit., p. 109).
38 A. Gramsci, Misteri
della cultura e della poesia, in Scritti giovanili. 1914-1918, Torino,
Einaudi, 1958, p. 328.
39 M. Tronti, Tra
materialismo dialettico e filosofia della prassi, in Caracciolo, Alberto e
Scalía, Gianni (a cura di), La città futura. Saggi sulla figura e il pensiero
di Antonio Gramsci, Milano, Feltrinelli, 1976, pp. 85-86.
40 Ivi, p. 86.
41 Ivi, pp. 88-91. Il marxismo in Gramsci non sarebbe
neanche però da considerarsi come una componente fondamentale della sua
formazione: «l’idealismo e, non tanto il
marxismo, quanto il socialismo, accolto come un’esigenza istintiva ma guardato
attraverso il prisma dell’idealismo crociano, sono le due componenti iniziali
della sua personalità culturale: ma è il primo che prevale e dà il tono al
pensiero» (M.A. Manacorda, La
formazione del pensiero pedagogico di Gramsci (1915-1926), in Pietro Rossi
(a cura di), Gramsci e la cultura
contemporanea. Atti del Convegno internazionale di studi gramsciani tenuto
a Cagliari il 23-27 aprile 1967, Roma, Editori Riuniti – Istituto Gramsci,
1970, volI. I, p. 232).
42 A. Gramsci, La
critica critica, in Scritti giovanili. 1914-1918, Torino, Einaudi, 1958,
pp. 154-155. 43 B. Croce, Per la interpretazione e la critica di alcuni
concetti del marxismo, in Materialismo storico ed economia marxistica, Bari,
Laterza, 1944, pp. 80-81 e 87.
44 Secondo Luciano Gallino, è perché respinge il primato
marxiano dei rapporti di produzione che Gramsci, nella seconda stesura di molte
sue note, sostituisce il termine «classe» col termine «gruppo» o
«raggruppamento». Il «gruppo sociale» in Gramsci ha come base, secondo Gallino,
una «funzione essenziale» di carattere economico o tecnico, oltre che nella
produzione economica, anche nella sfera politica, culturale e militare. Per
es., osserva Gallino, nelle note sul Risorgimento gli interessi che dividono i
vari gruppi sociali non sono semplicemente interessi economici oppure politici
o sociali, «sono gli interessi globali di società in nuce che in quanto nascono
da settori e funzioni diverse di una società contraddittoria incorporano
differenti visioni del mondo e sottraggono con la loro stessa esistenza spazio
politico e morale alle concorrenti». L’egemonia di un gruppo avrebbe insomma
soprattutto carattere etico-politico. Ecco l’importanza dell’intellettuale: in
quanto organizzatore di cultura è organizzatore del gruppo, cioè organizzatore
politico, è colui che svolge consapevolmente l’attività che gli intellettuali
tradizionali, legati alla borghesia, alla monarchia o al principe svolgevano in
modo inconsapevole (cfr. L. Gallino, Gramsci
e le scienze sociali, in Pietro Rossi (a cura di), Gramsci e la cultura contemporanea. Atti del Convegno
internazionale di studi gramsciani tenuto a Cagliari il 23-27 aprile 1967,
Roma, Editori Riuniti – Istituto Gramsci, 1970, vol. II, pp. 101-103).
45 Sarebbe Lenin, secondo Tosel, a permettere il superamento
in Gramsci dell’idealismo italiano all’interno del suo marxismo e a permettere
a Gramsci di andare anche al di là del concetto di lavoro di Labriola: «Si réelle et si profane est l’impureté de l’acte,
qu’on s’aperçoit que la théorie qui vient d’en être faite est intrinsèquement
liée à la Révolution d’Octobre et à Lénine. C’est pourquoi elle n’est pas
simplement théorie de la structure du procès historique et de ses
contradictions, mais bien également de la possibilité pour cette structure
d’être révolutionnée. C’est l’action des bolchéviks qui, seule, a réactivé
l’autonomie théorique et pratique de la philosophie de Marx. C’est le léninisme
– du moins jusqu’à la mort de Lénine lui-même – qui a rendu visible le lien
Hegel-Marx et remis à l’ordre du jour les propositions de Labriola. La
Révolution et le léninisme ont montré en effet que la praxis ne s’identifie pas
à un acte subjectif-spirituel, ni au seul travail, mais consiste dans
l’ensemble d’une réalité historico-sociale, en tant que celle-ci peut se
transformer dans tous ses aspects, sur la base d’une prise de conscience des
rapports de force de la part de ses acteurs» (A. Tosel, Marx en italiques. Aux origines de la philosophie italienne
contemporaine cit., p. 119). Rispetto al concetto di egemonia in Lenin,
Bobbio ha notato in Gramsci un’estensione dal significato leniniano di
«direzione politica» (prevalente ancora nei due scritti del 1926 in cui emerge
il concetto di egemonia, Lettera al Comitato centrale del partito comunista
sovietico e Alcuni temi della quistione meridionale) a quello di «direzione
culturale» (cfr. N. Bobbio, Gramsci e la
concezione della società civile cit., p. 96).
46 N. Badaloni, intervento in Pietro Rossi (a cura di), Gramsci e la cultura contemporanea. Atti
del Convegno internazionale di studi gramsciani tenuto a Cagliari il 23-27
aprile 1967, Roma, Editori Riuniti – Istituto Gramsci, 1970, vol. I, p. 167).
47 Cfr. N. Bobbio, Gramsci
e la concezione della società civile cit., pp. 75-100 (poi N. Bobbio,
Gramsci e la concezione della società civile, Milano, Feltrinelli, 1976).
48 Ivi, p. 91.
49 A. Labriola, Del
materialismo storico. Dilucidazione preliminare, in Id., Saggi sul
materialismo storico cit., p. 162.
50 N. Bobbio, Gramsci
e la concezione della società civile cit., p. 91.
51 Ivi, pp. 91-92.
52 A. Labriola, Discorrendo
di socialismo e di filosofia cit., p. 203.
53 «la ricerca sugli intellettuali e le loro funzioni
storico-sociali» (cfr., per esempio, QC, p. 2033).
54 A.
Gramsci, Due rivoluzioni, in L’Ordine
Nuovo. 1919-1920 cit., pp. 136-139.
55 Ed all’interno di questo, il primato andrebbe al motivo
culturalistico su quello politico-istituzionale. È tesi esposta da Bobbio nel
suo intervento, già citato, al convegno cagliaritano del 1967.
56 N. Badaloni, «Filosofia
della praxis», in Aa.Vv., Gramsci. Le sue idee nel nostro tempo, Editrice
l’Unità, 1987, pp. 94-95. Il passo di Gramsci citato da Badaloni si trova in
Quaderni, p. 1487.
57 «In passato noi potevamo distinguere, nella discussione
su Gramsci, sostanzialmente due tendenze: la prima disposta a riconoscere a
Gramsci una sufficiente attrezzatura teorico-filosofica, ma impegnata a
respingere come elemento perturbativo l’impegno etico-politico; la seconda disposta
ad apprezzare l’impegno etico-politico, ma volta a respingere come non
sufficientemente moderna la sua problematica filosofica […]. Possiamo in questa
sede limitarci a caratterizzare come post-crociana (ma filo-crociana) la prima
posizione, e come anti-crociana la seconda» (N. Badaloni, Il fondamento teorico
dello storicismo gramsciano, in Pietro Rossi (a cura di), Gramsci e la cultura contemporanea. Atti del Convegno
internazionale di studi gramsciani tenuto a Cagliari il 23-27 aprile 1967,
Roma, Editori Riuniti – Istituto Gramsci, 1970, vol. II, p. 73).
58 Cfr. ivi, p. 73.
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