Giuseppe Bedeschi
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Su Giovanni Gentile non è mai scesa una coltre di oblio. Recentissimo è
l'ottimo libro di Luciano Mecacci, La
Ghirlanda fiorentina e la morte di Giovanni Gentile (Adelphi); ed esce ora,
per i tipi di Bompiani, un volume, L'attualismo (con introduzione di E.
Severino), che ripropone alcune delle opere più impegnative del filosofo
siciliano. Ma anche nei passati decenni sono apparsi saggi, alcuni di grande
pregio, sulla figura e l'opera di Gentile (penso in primo luogo ai libri di A.
Del Noce, G. Sasso, S. Romano).
Quali sono i motivi di questo continuo «ritorno» del
filosofo siciliano? Un «ritorno» tanto più singolare, in quanto alcuni degli
studiosi più influenti della Prima Repubblica hanno dato su Gentile un giudizio
negativo, durissimo. Vale la pena di fare, a questo proposito, un paio di
esempi. Uno studioso di formazione neoidealistica come Eugenio Garin scriveva nel 1955
(nelle Cronache di filosofia italiana) che purtroppo il primato della
gnoseologia aveva orientato l'attualismo verso una sorta di «teologia», e
quindi non l'aveva fatto gravitare sulla storia, bensì gli aveva fatto
risolvere la storia nella filosofia, «ossia nel quadro vuoto del pensiero
pensante, che invece di essere concretissimo diviene astrattissimo».