Marco
Ambra | La
percezione del movimento circolare di ogni cosa sprofonda, chi è preda delle
vertigini, nell’apparenza visiva di una caduta prolungata, di un’accelerata
discesa in un vuoto originario che allontana e allo stesso tempo non evita
l’impatto con la solidità del terreno, con un saldo mondo di fondamenta.
Il concreto sentimento del tempo storico presente nei Quaderni del carcere impone al lettore contemporaneo una
sensazione analoga, di smisurata vertigine e assenza di fondamenta, un’immagine
di solitudine ed estraneazione dalla violenta contingenza degli anni ’30, che
guarda lontano senza mai impattare con il limite del terreno.
Un Gramsci inattuale dunque, costretto a meditare il
mondo dal carcere fascista per affermare il valore nella storia e nel mondo
della praxis. Ma anche un Gramsci attuale, lettore
della logica storica di crisi della modernità, sradicato con la forza dall’agone
politico della durata, il tempo umano delle azioni e della storia, e
ricollocato nella prospettiva für ewig e di lunga durata della «filologia
vivente» e quindi del nostro – eterno e appiattito – presente. Al quale i suoi
occhi chiari, da triste profeta, non cessano d’imprimere vertigine e movimento.
Dunque è all’insegna della vertiginosa “attualità di un inattuale” che s’inscrive l’ultimo lavoro di Alberto Burgio sul filosofo sardo, Gramsci. Il sistema in movimento (DeriveApprodi, 2014), già autore di altre due importanti studi sull’argomento (Gramsci storico. Una lettura dei “Quaderni del carcere” per Laterza nel 2003 e Per Gramsci. Crisi e potenza del moderno sempre per DeriveApprodi nel 2007) i quali sono in parte riassunti e aggiornati in questo nuovo testo.
Burgio legge l’intero corpus gramsciano, dagli scritti dell’impegno
politico prima nel Partito Socialista poi nel Partito Comunista d’Italia ai Quaderni, lanciandosi in verità in poche incursioni
nell’archivio epistolare, nelle contumelie con le figure di spicco del Partito
fondato a Livorno, con la precisa intenzione di rinvenire in questo castello di
riflessioni e invettive un sistema coerente, un grande testo aperto e in
movimento che guardi al di là di quello che è stata definita il “secondo
carcere” del filosofo.
L’intento di Burgio è infatti conculcare tutte le
letture molecolari e aforistiche delle annotazioni presenti nei Quaderni – qualcuno direbbe “deboli” -per
restituirci il ritmo di un pensiero sovrabbondante e veloce ma coerente, un
sistema in movimento, in cui logica dialettica e sussulti della modernità si
legano al «prodursi di nuovi elementi di fatto, del conseguente precisarsi
delle categorie» (p. 199). Una ricostruzione in cui Labriola, Hegel e il Marx
della Prefazione a Per la critica dell’economia
politica del 1859, riscuotono un credito più
alto della tradizionale declinazione del pensiero di Gramsci nel senso di una
correzione crociana del distillato marxiano.
Dicevamo che
l’ordine e l’organicità dei Quaderni non
escludono il movimento (interno) e la progettazione autocosciente dell’azione
politica (esterna). Ma se la prima coppia è presente a tutto campo nella
riflessione storica del filosofo sardo, nel tema hegelo-marxiano della
«necessità storica» come categoria emergente dal rapporto di osmosi fra
soggettività (la volontà autocosciente e in ciò libera della classe operaia) e oggettività (la realtà storico-politica
connessa ai rapporti di forza e ai metodi di produzione), la seconda, il
rapporto tra movimento nel sistema e progettualità politica s’insinua nei
gangli di un’attenta riflessione storiografica che guarda al cinquantennio
1870-1918, come a un momento tipico di ri-articolazione della modernità
capitalista.
Perché per Gramsci “moderno” è sinonimo di
“ambivalente”, di apertura ad un insieme di possibilità contraddittorie,
espressa dai concetti di “crisi organica”, “transizione” e “rivoluzione”. La
grande transizione alla modernità, iniziata con la svolta socio-economica
dell’XI secolo e proseguita con il lento affermarsi della borghesia e del
capitalismo, prima nella Francia della Rivoluzione e poi in modo ondivago e
incompiuto negli altri paesi europei, soprattutto l’Italia liberale e la
Germania bismarckiana, assume dopo la crisi del 1870 l’evidenza dell’esaurirsi
della soggettività storica borghese, della capacità di innovare oltre i propri
limiti l’inganno della forma di produzione capitalista.
Ma questa “crisi organica”, arrivata all’apice nelle
vicende della Grande Guerra e della Rivoluzione d’Ottobre, s’incancrenisce
nell’incapacità organizzativa delle masse operaie e contadine di farsi
soggettività storica, con evidenti responsabilità della sinistra socialista e
socialdemocratica, e nella vischiosa reattività delle classi dominanti che
attraverso una riorganizzazione dei metodi di produzione (fordismo e
corporativismo) e del monopolio dell’esercizio della violenza (fascismo e
consenso totalitario), non produce alcun cambiamento sostanziale.
È all’interno di questa cornice storiografica che lo
sguardo lucido di Gramsci si muove nella fucina filosofica del materialismo
dialettico per trarne strumenti di analisi e critica del contemporaneo: dalla
distinzione fra «durare» e «far epoca», alle nozioni di «egemonia» e
«rivoluzione passiva», dalla categoria di «cesarismo regressivo e relativamente
progressivo», alla speculazione sul ruolo del moderno Principe, il Partito
comunista, come organizzazione e autorappresentazione della nuova soggettività
storica, il proletariato.
Secondo Burgio, la riflessione carceraria
sull’esaurirsi della fase espansiva della borghesia europea dopo il 1789, e la
conseguente crisi del capitalismo come forma di vita e di produzione dopo il
1870, condurrebbe Gramsci ad estendere il quadro semantico di tutte queste
categorie (far epoca, egemonia, rivoluzione passiva, cesarismo, partito) fino a
individuare l’ambiguità centrale del moderno nella costruzione del consenso al
potere di reprimere e impedire il decorso della “crisi organica”. Quella
ambiguità che da un lato si esprime nella denuncia dell’espansione
cancerogena della politica sulla sfera sociale nel nome della “difesa della
società”, come nel caso del fascismo, e dall’altro individua nel primato ideologico
del discorso pubblico, e nel ruolo dei suoi manipolatori, una tensione costante
a ri-privatizzare il discorso politico (pp. 211-213).
Sarebbe all’interno di questo travagliato percorso,
tutto vissuto in carcere, che Gramsci elabora una delle categorie filosofiche
più “sputtanate” di tutto il Novecento, quella di egemonia. Spesso tirato per
la giacchetta dai maghi del marketing politico, il concetto di egemonia ci
ricorda Burgio, non è solo agire comunicativo, la controparte teorica della
costruzione di un dispositivo di coercizione fisica ed eteronomia ideologica,
di “forza” e “consenso” al dominio dello Stato borghese o totalitario.
Si tratta ancora una volta, di un’oggettiva
ambiguità, la «configurazione problematica del consenso politico» (p. 238), non
più riducibile nell’epoca moderna ad una semplice questione di obbedienza e
disciplinamento. Perché ogni crisi organica di egemonia, come quella che
coinvolse la pavida «borghesia rurale» italiana all’indomani della Prima Guerra
Mondiale, ogni tentennamento nella costruzione di un discorso politico e
culturale che legittimi l’esercizio della violenza da parte delle istituzioni
politiche e la concentrazione dei mezzi di produzione e della ricchezza
in una parte della società, produce uno scambio comunicativo che innesca
esperienze riflessive potenzialmente critiche, apre margini all’affermarsi di
nuove soggettività.
Dunque il campo dell’egemonia è anche quello più
esposto alla «prassi rovesciante» del soggetto plurale che dovrebbe
organizzare e guidare la nuova grande transizione, il Partito comunista. Un
margine sperimentato da Gramsci e compagni durante l’esperienza dell’Ordine
Nuovo e l’occupazione delle fabbriche torinesi. Ma terminato nell’affermazione
di un nuovo discorso egemonico, quello fascista, che ha nella figura del capo
carismatico, uomo della provvidenza in grado di domare la pressante instabilità
sociale e puntellare la traballante egemonia del blocco di potere borghese, un
moderno Cesare, un caricaturale Luigi Bonaparte, attore di una funzione
meramente regressiva. In questo senso anche taylorsimo e fordismo, processi di
automatizzazione e generalizzazione del lavoro di fabbrica, sono carichi di
quella centrifuga ambivalenza del moderno che li porta da un lato ad affermare
il nucleo razionale di una nuova e più efficace forma di organizzazione della
produzione e dall’altro a condividire l’irrazionalità dei progetti politici che
li ispira (l’americanismo, la democrazia liberale), volti a ostruire
l’emergenza della nuova soggettività storica.
Così Gramsci polemizza non tanto con gli aspetti
automatici e “macchinali” del lavoro dell’operaio fordista – non cede alla
retorica della disumanizzazione dell’operaio – quanto piuttosto attacca la
riduzione, operata dalla catena di montaggio e dai tempi contingentati, degli
aspetti intellettivi, del collegamento della mano al cervello, a operazioni
meccaniche (p. 306). Si tratta di liberare la «funzione della produttività»
dalla sua identificazione con la ripetitività meramente meccanica del processo
taylorista.
Infine, numerose sono le pagine che Burgio dedica
all’analisi gramsciana del caso italiano: dall’individuazione della categoria
di “rivoluzione passiva” come carattere tipico della storia nazionale,
dall’Umanesimo al fascismo, alla «sindrome della mosca cocchiera»
dell’intellettualità nostrana, alla funzione regressiva del trasformismo come
meccanismo parlamentare di costruzione di larghe intese ante litteram da Depretis, collaudatore della formula, a
Napolitano suo attuale nume tutelare. È in questo forse il lettore troverà
l’aspetto più inquietante (o consolatore) del Gramsci di Burgio, nella constatazione
dell’attualità dell’analisi critica di in un paese che vive una stagione di
“riforme” volte all’amputazione della rappresentanza politica, al consolidamento
degli interessi del sistema castale partitico e imprenditoriale, al
rafforzamento politico del ruolo del Presidente della Repubblica, verso un
cesarismo regressivo. Una vertigine profondamente attuale perché legata ad una
transizione iniziata con la crisi del 1870 e non ancora chiusa.