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Antonio Gramsci ✆ Sergio Premoli |
Il marxismo di Gramsci: in questa espressione si annida
un’intera serie di questioni aperte, fonti di equivoci e di dispute. Gli
equivoci in realtà scaturiscono da una duplice sorgente, vale a dire la nozione
di “marxismo” e quella di “affiliazione” o “appartenenza”. Anche solo pochi
decenni fa ‒ lo
spartiacque può essere fissato per comodità, almeno in Italia, al giro di
boa del centenario del 1983 ‒
entrambe queste sorgenti sembravano essere per un verso troppo calda materia
del contendere, per un altro scenari illuminati di una luce eccessivamente viva
e ravvicinata, perché se ne potessero cogliere la profondità e i contorni, cioè
le implicazioni e i limiti. Oggi tutto ciò è possibile: la materia si è
raffreddata ed è stata “sistemata” in grandi opere collettive, che hanno
comportato anche una certa riflessione su cosa comporti scrivere una
storia del marxismo. Le pagine da questo punto di vista più interessanti sono
probabilmente quelle premesse da Eric J. Hobsbawm alla monumentale Storia
del marxismo da lui diretta per Einaudi, e datate 1978. Per l’interesse
metodologico che
esse presentano, sarà il caso di ripercorrerne rapidamente l’intelaiatura.
esse presentano, sarà il caso di ripercorrerne rapidamente l’intelaiatura.
La definizione di «marxismo» inizialmente proposta è: «la scuola teorica che nella storia del
mondo moderno ha avuto maggiore influenza pratica (e le più profonde radici
pratiche), [...] al tempo stesso un metodo per interpretare il mondo e per
cambiarlo»[1]. Dunque, se non è possibile una storia del marxismo come
movimento puramente intellettuale, esiste però una dimensione metodologica che
giustifica la possibilità di identificare un nucleo unitario, un nucleo che si
sviluppa («la storia del marxismo non può considerarsi conclusa» [2]), attrezzandosi per la «soluzione di problemi attuali»[3], ma che gode pur tuttavia di una unitarietà che gli deriva sia
dal coerente corpo teorico elaborato da Marx, e dagli specifici problemi
pratici che egli sperava di risolvere attraverso di esso ‒ ad esempio quelli della
rivoluzione e della transizione alla società socialista ‒, sia dalla continuità storica dei
principali gruppi organizzati di marxisti, i quali tutti possono essere, per
così dire, «collocati» in un albero genealogico il cui fusto originario è
rappresentato dalle organizzazioni socialdemocratiche degli ultimi anni della
vita di Engels. Si tratta però di un’«unità nella diversità». Essa non si basa
su un accordo teorico e politico, ma su obiettivi comuni (ad esempio «il
socialismo»), e soprattutto sulla comune adesione, in linea di principio, a un
corpo dottrinario derivato dagli scritti di Marx ed Engels, indipendentemente
dalle aggiunte o dalle modifiche ad essi apportate[4].
Le presupposizioni non ovvie, né evidenti, presenti in
queste poche righe, sono troppe, perché sia possibile darne un elenco
dettagliato. Mi limiterò perciò a osservare che la problematicità di questo
passaggio deriva non solo dal fatto che esso deve sforzarsi di esprimere un
punto di vista condivisibile da un intero gruppo di studiosi (si tratta di «una
versione lievemente modificata del memorandum distribuito ai collaboratori
della Storia del marxismo»[5]), ma anche da ciò, che esso progetta una riflessione su un corpus vivente,
in movimento e soprattutto percorso da diversità e conflitti, di cui si tiene
ferma la singolarità, mentre si è spinti a riconoscerne la pluralità. Per
esprimere ciò, Hobsbawm si serve della formula togliattiana della «unità nella
diversità», che nel cosiddetto Memoriale di Yaltagiungeva come un estremo
tentativo di conservare l’unità di intenti in un campo comunista internazionale
già ampiamente diviso dal «nazionalismo rinascente»[6]. Si trattava, in Togliatti, di un’unità complessa, che
presupponeva la messa in chiaro delle fonti reali di divisione, la libertà
piena di discussione e la volontà di ritrovare le ragioni dell’unità.
Anche in Hobsbawm questa formula sembra essere il tentativo
di ritrovare le ragioni di un’unità, dinnanzi a una frantumazione pienamente in
corso da (nel momento in cui quelle righe venivano scritte) almeno due decenni[7]. Diversamente stanno però le cose per l’ancoraggio al «corpo
teorico elaborato da Marx», a cui poi si aggiunge Engels (da Hobsbawm
abbandonato già all’altezza del 1982, quando introduce con un importante saggio
su “Il marxismo oggi: un bilancio aperto” l’ultimo volume della Storia del
marxismo[8] ‒
e che appare oggi poco meno di una petizione di principio. Infatti la
consistenza di quel «corpo teorico», la sua formazione, i suoi limiti, la sua
natura, e insomma il suo significato, sono precisamente l’oggetto di un’opera
di selezione, ricostruzione, interpretazione, avviata dallo stesso Engels e mai
interrotta in seguito. Di conseguenza, qualsiasi riferimento a essa come radice
unitaria dell’albero marxista mette a tacere l’interrogazione sul modo in cui
il “tronco” storico-politico del marxismo “organizzato” ha per così dire
costruito retroattivamente le sue proprie “radici”.
2. Teoria e politica
di massa
Queste sono però considerazioni che dalla prospettiva
odierna è fin troppo facile fare, e che non escludono, si badi, la validità politica delle
considerazioni di Hobsbawm, non solo limitatamente a quella fase, ma in
qualsiasi altra condizione simile. Semplicemente, ne fanno rilevare
l’inconsistenzalogica. Quest’ultima considerazione ci conduce però, o almeno ci
può condurre ‒ e
questo è per me il punto essenziale ‒
a saggiare la praticabilità di un diverso terreno di approccio metodologico
alla “storia del marxismo”, che si può riassumere nella seguente alternativa: o
si assume la circolarità tra unità e pluralità del marxismo, cioè tra il corpo
teorico e la sua dimensione storico-politica, nei termini della circolarità
ermeneutica; o in alternativa sarà necessario fare, da marxisti (qualsiasi cosa
ciò voglia dire), una riflessione sul rapporto tra “teoria marxista” e
“movimento operaio” (e ciò che ne segue oggi nel mondo) come essenziale per
identificare la peculiare natura del marxismo stesso.
Nel primo caso si potranno avere delle più o meno eleganti
variazioni sul tema della critica del fondamento, un argomento che occupa le
menti di tanti intellettuali nelle accademie euro-americane, compresi coloro i
quali dichiarano di prendere parte per i “subalterni”. Nel secondo, si metterà
in evidenza un fatto tanto elementare da essere quasi invisibile: che il
marxismo non può sopravvivere a lungo, se si riduce a un circuito accademico o
comunque a un movimento di intellettuali come gli altri[9]. In questo secondo caso, e solo in questo, la distanza tra
validità politica e inconsistenza logica nel discorso di Hobsbawm[10] acquisirà i tratti di una tensione necessaria alla
vita concreta di un organismo che non è solo teorico ma vive del e nel nesso
tra elaborazione scientifica e prassi collettiva. La questione si sposta, e può
essere così formulata: teoria (“radici”) e politica-storia (“tronco” e “rami”)
non si contraddicono, nel marxismo, ma si implicano, a condizione di
assumerli non come un fatto imbarazzante, un limite di una teoria
incapace di attingere coerenza e completezza, ma come il punto di osservazione,
solamente assumendo il quale la peculiarità del marxismo diventa
comprensibile[11].
L’unità teorica e la diversità politico-storica, del resto,
si implicano reciprocamente. Di fatto, è stata la potenza organizzativa del
marxismo, il suo vivere dentro la politica, ciò che ‒ come si è notato più sopra ‒ ha potuto
retroattivamente produrre, a prezzo di dolorose semplificazioni, un’unità di
origine, sul piano del corpus testuale e della sua lettura
“ortodossa”. Ciò spinge a dire che le ortodossie marxiste della seconda e della
terza Internazionale sono dei fatti, la cui importanza è anche teorica[12]. Esse mostrano infatti come una certa verità sia stata
costruita e al contempo naturalizzata, dato che solo una naturalizzazione
dell’intervento retroattivo veniva pensata come compatibile con l’unità di
intenti sul piano politico-organizzativo, esattamente come nella storia del
cristianesimo organizzato in chiesa. Il conflitto tra l’ortodossia delle due
internazionali si è aggirato infatti non solamente sul modo di interpretare
Marx ed Engels, o di costruire delle genealogie (con il marxismo-leninismo), ma
anche ‒ e questo qui
conta ‒ sullo
stabilimento del corpus testuale originario: la primissima idea della MEGA,
non lo si dimentichi, nasce nel febbraio del 1921 (quando l’URSS non era ancora
ufficialmente nata) per decisione di Lenin[13]. C’è insomma, nella storia del marxismo (in quanto questo non
si limiti a teoria di gruppi di intellettuali), una tensione incoercibile tra
unità e diversità, che è anche una tensione tra la compattezza ideologica e la
scepsi critica. Questa tensione è incoercibile: non può essere estirpata ed è
destinata a riproporsi in ogni momento, nel quale la “teoria” incontrerà la
“politica” di massa. Il marxismo è insomma stato, e non poteva non
essere, un organismo funzionante al modo delle chiese organizzate. Che tutto
ciò sia dovuto accadere non è qui in questione. In questione è piuttosto il comeciò
sia accaduto e avrebbe potuto diversamente accadere.
3. Il circuito
ideologia/verità e la duplice funzione dell’ideologia
Se il marxismo storico ha funzionato come una chiesa, esso
ha poggiato su di una “concezione del mondo”. Le due cose non possono essere
separate: l’ortodossia non verte su questioni di dettaglio, ma articola molti
elementi in una visione d’insieme di trasformazione globale della
società. Si potrà trovare antiquata questa categoria di Lebens- und
Weltanschauung, ma il discorso andrebbe ribaltato, osservando che il
radicamento della filosofia in una più ampia e complessiva concezione della
vita e del mondo è precisamente ciò che denota l’originalità del marxismo, il
cui obiettivo non può essere confinato entro le aule dell’università, dato che
esso, come ogni altra “religione”, mira a trasformare il mondo.
Anzi, la critica marxista della filosofia comprende proprio
la “riduzione” delle filosofie a delle “concezioni del mondo”, cioè a ideologie,
la cui a volte estrema “raffinatezza concettuale” rappresenta spesso la parte
individuale e caduca della concezione del mondo, che ‒ quando c’è ‒
rimane legata all’interpretazione e alla soluzione (sempre da un punto di vista particolare)
di questioni riguardanti i più ampi gruppi umani, cioè l’“umanità” che eccede
la comunità degli studiosi (altrimenti, non di filosofia si tratta, ma di una
tecnica o di una scienza, ovvero di una semplice esercitazione di scuola e di
gergo, priva di contenuto rilevante)[14].
Ma dicendo che il marxismo è una concezione del mondo, non
si è individuata che una metà del problema. L’aspirazione a “fare presa” sulla
vita nella sua interezza, estensiva e intensiva, accomuna il marxismo alle
concezioni del mondo, ma in cosa esso si differenzia da esse? Nel fatto che il
marxismo, a differenza di qualsiasi altra concezione del mondo, comprende in sé
non solamente la spinta all’universalizzazione pratica, ma anche la spiegazione
concettuale di questa spinta: di come essa nasca e di quale sia il
meccanismo, grazie al quale essa può diffondersi. Di conseguenza, la forza del
marxismo si misura dalla sua capacità di applicare a sé stesso i criteri di
critica che esso dirige alle altre concezioni del mondo[15].
Se pertanto la teoria dell’ideologia è la spiegazione
concettuale della spinta pratica all’universalizzazione, essa servirà alla
riduzione delle filosofie a concezioni del mondo, ivi compreso anche il
marxismo. Solo a patto di intendere l’ideologia come non solamente ciò che
marca il limite dell’universalità del sapere (di ogni sapere), ma anche come
l’indice della potenza pratica del sapere stesso, sarà possibile operare questo scambio tra
“osservatore” e “osservato”, evitando di cadere nel paradosso «di un
osservatore che pretende di stare fuori dell’osservazione senza essere
egli stesso sottoponibile ad osservazione»[16].
La necessità di rendere possibile questo scambio, e quindi
la teoria dell’ideologia, ha costituito nella storia del
marxismo il punto di più difficile comprensione, per cui si è assistito
all’oscillazione tra l’idea che il marxismo dovesse porsi, «con semplicità,
come scienza»[17], o, tutto al contrario, che fosse una «scienza di classe, di
una classe», una “scienza” il cui compito consisteva nell’elaborazione di un «pensiero
operaio» già esistente[18]. Questa oscillazione è in realtà presente già in Marx che,
per un verso parla di sé come economista, e per un altro si ostina a titolare o
sottotitolare le proprie opere con il termine «critica». In questo concetto,
che attraversa l’intera opera di Marx[19] senza mai perdere di protagonismo, e che non può essere
letto come un mero residuo “giovane hegeliano”, è come il contrassegno
dell’irriducibilità di questa impresa teorica a mera teoria, senza pertanto che
essa sia per altro verso riducibile ad agitazione politica. Tutto ciò non
sempre è trasparente allo stesso Marx, ma non viene mai meno, come testimonia
la riemersione di un’interpretazione spiccatamente politico-polemica della
dialettica a ridosso della Comune parigina[20].
Questa motivazione politico-pratica non è qualcosa di
estrinseco rispetto alla teoria, che godrebbe pertanto di una sua completa
autonomia, sia pure legandosi alla pratica, come accade in Aristotele o, in
modo diverso, in Kant. La “critica” designa al contrario il fatto che ogni
autonomia della conoscenza scientifica è resa impossibile, perché la conoscenza
scientifica consiste precisamente nel mostrare il modo in cui le categorie
“oggettive” dell’economia sono sempre attraversate dai rapporti di forze
politici (che d’altra parte Marx formuli anche una critica della politica e del
diritto, in quanto forme limitate e mere portatrici di interessi economici, per
cui da un lato ritrova il carattere politico dell’economia, dall’altro riduce
la politica all’economia, fa parte del problema e non ne è la soluzione)[21]. Parzialità dei concetti e globalità delle visioni del mondo
si riflettono l’una nell’altra, dato che la critica di un concetto, di una
categoria ne mostra non solamente la falsità e parzialità rispetto alla pretesa
neutralità e universalità del sapere; ma al contempo, in quanto ne mette in
mostra il contenuto ideologico, ne illumina la specifica potenza, la capacità
di organizzare la realtà, di formarla attivamente e insomma di intervenire in
essa come una potenza politica. Da questo punto di vista, dallaMisère de la
philosophie al Capitale non vi sono differenze apprezzabili[22].
La “critica” riduce il sapere a una forma di politica, e
sposta il conflitto dalla pura scienza, con la sua pretesa obbiettività
“teorica” ecc., al confronto tra le visioni del mondo complessive, in cui la
questione dell’obbiettività non si perde, né diviene una mera questione di
“punto di vista di classe”, ma risulta radicalmente storicizzata (restituita
cioè alla dinamica reale delle forze sociali)[23]. Come tale, il marxismo è cresciuto, con enormi limiti e
mancanze[24]. Ma è cresciuto, tra XIX e XX secolo, precisamente riuscendo
a sfidare il mondo borghese sul terreno globale, della civiltà[25].
4. Traducibilità dei
linguaggi, immanenza, religione
Si può dire che Gramsci è stato un marxista? No, se per
marxismo s’intende una qualsiasi delle tante versioni che hanno perso di vista
il crinale di filosofia e politica. In questi opposti casi (più sopra
esemplificati nel Tronti “dellavolpiano” nel 1958 e “operaista” nel 1966, ma
ciascuno può completare il catalogo per proprio conto) si assiste alla
fissazione di una determinata dottrina come costitutiva della
“ortodossia”, e si misura di conseguenza l’appartenenza di Gramsci (o di
chiunque altro) a questa dottrina. Nulla di più facile, nulla di più arbitrario
e in fondo anche nulla di più simile alle secolari dispute di scuola, a volta
rese drammatiche dalla presenza di corpose implicazioni politiche[26], ma più spesso simili alle “terribili” dispute tra Bruno
Bauer e soci. Gramsci è invece stato un marxista, se del marxismo si assume
pienamente (come fa Hobsbawm) la sfida rappresentata dalla polarità tra
«verschieden interpretiert» e «verändern», da Marx scolpita
nell’undicesima glossa ad Feuerbach e da lui annodata con un
apparentemente inoffensivo «es kömmt drauf an», «si tratta di»[27].
Il marxismo di Gramsci è qui: egli ha saputo collocare la
propria riflessione esattamente su questo crinale, all’intersezione di politica
e filosofia, facendo dell’unificazione di teoria e pratica il compito per il
quale il marxismo è sorto e che ne identifica la natura più profonda. Egli ha
anche elaborato, nella nozione di traducibilità dei linguaggi, lo
strumentario logico che permette di intendere la specifica posizione
della teoria e della pratica nel loro riflettersi reciproco l’una nell’altra
(il valore pratico della teoria e quello teorico della pratica). L’insieme di
queste due tesi ‒
unità di teoria e pratica e traducibilità dei linguaggi ‒ costituisce il suo marxismo, non solo: è
l’intervento più acuto che lo stesso marxismo abbia prodotto per essere
all’altezza del proprio compito, se questo deve essere la trasformazione globale del
mondo[28].
La definizione probabilmente più compiuta di cosa
esattamente intenda con “traducibilità dei linguaggi”[29], Gramsci la dà nel seguente passo del Quaderno 10:
IV. Traducibilità dei linguaggi scientifici. Le note scritte in questa rubrica devono essere raccolte appunto nella rubrica generale sui rapporti delle filosofie speculative e la filosofia della praxis e della loro riduzione a questa come momento politico che la filosofia della praxis spiega «politicamente». Riduzione a «politica» di tutte le filosofie speculative, a momento della vita storico‑politica; la filosofia della praxis concepisce la realtà dei rapporti umani di conoscenza come elemento di «egemonia» politica[30].
Nella misura in cui non sono elucubrazioni intellettuali, ma
intervengono su problemi concreti (politicamente concreti), le filosofie tradizionali
possono essere tradotte (ridotte)[31] criticamente in rapporti di conoscenza reali, cioè
efficaci sul senso comune, cioè infine possono essere intese come «elemento di
“egemonia” politica». Ciò accade naturalmente tenendo in conto la specificità
dei livelli sui quali tutto ciò accade:
La storia della filosofia come si intende comunemente, cioè
la storia delle filosofie dei filosofi, è la storia dei tentativi e delle
iniziative ideologiche di una determinata classe di persone per mutare,
correggere, perfezionare le concezioni del mondo esistenti in ogni determinata
epoca e per mutare quindi le conformi e relative norme di condotta, ossia per
mutare la attività pratica nel suo complesso[32].
La filosofia intesa in senso tecnico acquisisce il
suo significato autentico non in quanto si separa dal senso comune, ma in
quanto, separandosene, riesce a rimanere partecipe dei problemi che il senso
comune pone, e che sono le questioni vitali (sia pure formulate malamente e in
modo incoerente) che attraversano una determinata epoca[33]. Solo in questo modo il filosofo è pienamente tale:
perché riesce a formulare in un linguaggio che è astratto e rigoroso – ma
è anche tendenzialmente “gergale” e segregante (di scuola)[34] – le questioni che interessano tutti, in un determinato
ambiente (che può essere nazionale o, come nel caso di Croce, continentale).
Naturalmente, il punto di vista da cui tale formulazione viene realizzata è
quello delle classi dirigenti, in un senso ampio sia socialmente sia
territorialmente. Di conseguenza l’efficacia della filosofia professionale di
un’epoca storica consisterà nella somma di modificazioni del senso comune che
essa sarà riuscita a conseguire in vista della formazione o del consolidamento
di una determinata egemonia. È su questo piano di ragionamento che la
distinzione tra “filosofia” e “storia” perde la sua rigidezza, e le distinzioni
si convertono in momenti di differenziazione analitica all’interno di un continuum reale:
La filosofia di un’epoca non è la filosofia di uno o altro filosofo, di uno o altro gruppo di intellettuali, di una o altra grande partizione delle masse popolari: è una combinazione di tutti questi elementi che culmina in una determinata direzione, in cui il suo culminare diventa norma d’azione collettiva, cioè diventa «storia» concreta e completa (integrale). La filosofia di un’epoca storica non è dunque altro che la «storia» di quella stessa epoca, non è altro che la massa di variazioni che il gruppo dirigente è riuscito a determinare nella realtà precedente: storia e filosofia sono inscindibili in questo senso, formano «blocco». Possono però essere «distinti» gli elementi filosofici propriamente detti, e in tutti i loro diversi gradi: come filosofia dei filosofi, come concezione dei gruppi dirigenti (cultura filosofica) e come religioni delle grandi masse, e vedere come in ognuno di questi gradi si abbia a che fare con forme diverse di «combinazione» ideologica[35].
Questa concezione realistica della filosofia, si badi, non
equivale a uno storicismo ingenuo, perché è resa possibile da una parte
teorica, che è data appunto dalla traducibilità dei linguaggi. È questa che
rende possibile comparare tra loro le differenti «spinte» nazionali, che «quasi
sempre riguardano determinate attività culturali o gruppi di problemi»[36]. Ma questa comparazione era stata impostata proprio da Hegel,
quando aveva assegnato a francesi e tedeschi «per opposti che siano tra loro,
anzi appunto perché opposti», la titolarità dello Spirito del mondo[37].
Questo passo di Hegel ‒
nota Gramsci nel Quaderno 8 ‒
mi pare sia appunto il riferimento letterale del Marx, dove nella Sacra
Famiglia accenna a Proudhon contro il Bauer. Ma esso mi pare assai più
importante ancora come «fonte» del pensiero espresso nelle Tesi su
Feuerbach che i filosofi hanno spiegato il mondo e si tratta ora di
mutarlo, cioè che la filosofia deve diventare «politica», «pratica», per
continuare ad essere filosofia: la «fonte» per la teoria dell’unità di teoria e
di pratica[38].
Più tardi, nel Quaderno 10, Gramsci scrive:
In un certo senso mi pare si possa dire che la filosofia della praxis è uguale a Hegel + Davide Ricardo. Il problema è da presentare inizialmente così: i nuovi canoni metodologici introdotti dal Ricardo nella scienza economica sono da considerarsi come valori meramente strumentali (per intendersi, come un nuovo capitolo della logica formale) o hanno avuto un significato di innovazione filosofica? La scoperta del principio logico formale della «legge di tendenza», che porta a definire scientificamente i concetti fondamentali nell’economia di «homo oeconomicus» e di «mercato determinato» non è stata una scoperta di valore anche gnoseologico? Non implica appunto una nuova «immanenza», una nuova concezione della «necessità» e della libertà ecc.? Questa traduzione mi pare appunto abbia fatto la filosofia della praxis che ha universalizzato le scoperte di Ricardo estendendole adeguatamente a tutta la storia, quindi ricavandone originalmente una nuova concezione del mondo[39].
Queste
righe sono state scritte nel maggio del 1932. Leggendole, si capisce
anche perché Gramsci ribadisca, pochi mesi dopo, che «la Miseria della
Filosofia è un momento essenziale nella formazione della filosofia della
praxis; essa può essere considerata come lo svolgimento delle Tesi su
Feuerbach»[40]: appunto perché nella Miseria Gramsci ritrova la
presenza esplicita di Ricardo come correttivo realistico dell’identificazione
speculativa di teoria e pratica realizzata da Hegel grazie all’equiparazione di
Francia e Germania.
La teoria della traducibilità dei linguaggi è dunque il
lascito teorico maggiore della filosofia classica tedesca e dell’economia
inglese: due distinti elementi che si ritrovano, rielaborati, nelle Tesi
su Feuerbach, che ne sono la “somma” o, più precisamente, la sintesi: il
“pensare insieme” l’unità di teoria e pratica (Hegel) e, rispettivamente, il
carattere pratico, mondano, profano, in una parola “immanente” della verità
(Ricardo), ossia una concezione dell’unità di teoria e pratica che non viene
pensata a partire dalla teoria, ma come questione essa stessa pratica,
cioè storica e politica. L’originalità filosofica del marxismo sta insomma
nell’aver riletto la «traducibilità dei linguaggi» (Hegel) in modo realistico
(non speculativo), grazie alla «immanenza storicistica o realistica» (Ricardo),
producendo così una nuova concezione filosofica, che, strutturalmente, sarà una
politica, un’egemonia. Di qui discende la lettura che Gramsci dà
dell’undicesima glossa a Feuerbach: «come rivendicazione di unità tra teoria e
pratica, e quindi come identificazione della filosofia con ciò che il Croce
chiama ora religione (concezione del mondo con una norma di condotta conforme)
– ciò che poi non è che l’affermazione della storicità della filosofia fatta nei
termini di un’immanenza assoluta, di una “terrestrità assoluta”»[41].
Gramsci si riferisce alla riduzione della filosofia a
religione nel significato di «una concezione della realtà e [...] un’etica
conforme», prescindendo «dall’elemento mitologico, per quale solo
secondariamente le religioni si differenziano dalle filosofie», realizzata da
Croce nella Storia d’Europa[42], ma già presente nel saggio su “Storia economico-politica e
storia etico-politica” da lui pubblicato nel 1924[43]. È significativo il fatto che questa equiparazione si
accompagna in Croce alla sempre più avvertita necessità di lottare Contro
le sopravvivenze del materialismo storico, come recita il titolo di un suo
opuscolo anch’esso del 1924, posseduto da Gramsci prima dell’arresto[44]. In questa concomitanza Gramsci fissa l’importanza
dell’elaborazione più recente del filosofo abruzzese, che gli appare tutta
svolta in previsione di «una rivalutazione trionfale del materialismo storico
[...] Egli ‒
prosegue Gramsci ‒
resiste con tutte le sue forze a questa pressione della realtà storica, con una
intelligenza eccezionale dei pericoli e dei mezzi dialettici di ovviarli.
Perciò lo studio dei suoi scritti dal 19 ad oggi è del maggior valore»[45].
Non casualmente, se da un lato Croce “forza” la struttura
dei distinti coniando questo nuovo concetto di “religione/filosofia”,
dall’altra mantiene ferma la sua interpretazione delle Tesi su Feuerbach come
presa di congedo da ogni filosofia e passaggio all’agitazione e
propaganda politica. Il marxismo, insomma, non poteva essere un movimento di
pensiero, perché era una corrente politica, come tale «inconfutabile perché non
maschera ma realtà, non pensiero ma azione»[46]. L’importanza che Gramsci gli assegna nasce dalla posizione che
Croce riesce a occupare: il più possibile mimetica di quella marxista
autentica, in modo da impedire la sua riammissione (dopo la conclusione
dell’esperienza di Labriola, oculatamente gestita dallo stesso Croce) nel
circuito della discussione culturale[47], e in modo da poter sfigurare la posizione marxista in
filosofia, egemonizzandola da una prospettiva borghese.
5. Ideologia,
egemonia, metafisica
Quest’ultima osservazione, relativa alla “guerra di
posizione” condotta da Croce contro il marxismo, rinvia a uno sfondo più
generale, che discende però anch’esso dalla concezione gramsciana del marxismo
come tentativo di unificare filosofia e politica. Per intendere questo sfondo,
il punto di partenza deve essere il seguente passaggio, tratto dal Quaderno 4:
«Perché il marxismo ha avuto questa sorte, di apparire assimilabile, in alcuni
suoi elementi, tanto agli idealisti che ai materialisti volgari? Bisognerebbe
ricercare i documenti di questa affermazione, ciò che significa fare la
storia della cultura moderna dopo Marx e Engels»[48].
Rovesciando completamente il proprio approccio giovanile,
quando era prevalso un «uso estremamente libero degli scritti di Marx»[49], e all’integrazione positivistica di Marx, perpetrata dal
socialismo italiano, Gramsci ne aveva opposta una, simmetrica, con l’idealismo
e con Bergson, ora egli riconosce nell’intera «cultura moderna» una variegata
serie di successivi “assorbimenti” del marxismo nelle forme consuete della
cultura, assorbimento realizzato mediante la decomposizione in momenti opposti,
materialismo e idealismo, di ciò che in Marx si ritrovava unito.
Tali assorbimenti sono pertanto tutto, tranne che una stanca
genealogia di concetti: sono operazioni politiche destinate a sottrarre di
nuovo alle classi popolari[50] la capacità, presente nel marxismo, di attaccare la
grande questione della «differenza intellettuale», cioè dell’intreccio tra
conoscenza (verità) e potere (politica) inscritto nell’organizzazione materiale
della cultura e dello Stato[51]. «Lo studio del Sorel ‒
scrive Gramsci ‒ può
dare molti indizi a questo proposito. Bisognerebbe però studiare specialmente
la filosofia del Bergson e il pragmatismo per vedere in quanto certe loro
posizioni sarebbero inconcepibili senza l’anello storico del marxismo; così per
il Croce e Gentile ecc.»[52]. E, poco più avanti, Gramsci riafferma contro Croce il legame
del concetto di sovrastruttura/ideologia[53]con la realtà e con la verità. Le ideologie, scrive, sono
reali e veicolo alla verità non in sé stesse, ma nella concreta funzione
conoscitiva e politica che intrattengono con le diverse forze sociali. La
verità non è il neutro rispecchiamento di un oggetto, ma la tendenza inscritta
in un movimento reale, la costituzione di uno specifico intreccio tra cultura e
Stato[54].
Da questo punto di vista, Sorel e Croce rappresentano due
revisioni speculari della nozione marxiana di ideologia. Nel primo si deposita
il valore mobilitante e pratico, costruttivo, dell’ideologia, mentre il secondo
ne esalta la funzione critico-distruttiva, di separazione rispetto alla sfera
della verità[55]. Scrive infatti Gramsci, dopo aver criticato la riduzione
crociana dell’ideologia a mera finzione: «Questo argomento del valore concreto
delle superstrutture in Marx dovrebbe essere bene studiato. Ricordare il
concetto di Sorel del “blocco storico”»[56]. Come ha ben visto Valentino Gerratana annotando questo
testo, la nozione di «blocco storico» rinvia a quella di «mito»[57]. Prescindendo dal non chiaro riferimento letterale[58], è il modo stesso in cui Gramsci legge Sorel, che giustifica
il nesso tra il concetto di mito e il «valore gnoseologico» delle
superstrutture in Marx[59]; e che spiega anche perché Gramsci, poco più avanti, nel § 38
del Quaderno 4, colleghi a questo ragionamento anche il «concetto di egemonia»
elaborato da Lenin[60], perché l’elaborazione «del concetto e del fatto di egemonia,
dovuto a Ilici»[61] è un prolungamento, dentro e non fuori del marxismo,
degli effetti costruttivi del concetto marxiano di ideologia.
«Il curioso antigiacobinismo del Sorel, settario, meschino,
antistorico» (ma spiegabile storicamente con l’esperienza della guerra
franco-prussiana e della Comune)[62], lo conduce all’ideologia dello spontaneismo; ma il suo
approccio alla questione della lotta politica come affermazione di «una regola
di vita originale e un sistema di rapporti assolutamente nuovi» testimoniava
per Gramsci di un momento di elaborazione ulteriore, anche se parziale, del
pensiero di Marx[63]. È per questa ragione che nei Quaderni il pensiero
di Sorel viene riallacciato al concetto di egemonia, e il “mito” alla nozione
di “ideologia”.
Nei Quaderni Gramsci matura dunque l’idea che le
opposte riduzioni crociana e soreliana del concetto di ideologia trovano la
loro composizione nella teoria e nella pratica dell’egemonia. I
riferimenti di appoggio che Gramsci cerca in Marx mostrano certamente, nella
loro estravaganza[64], il fatto che l’egemonia è una forte innovazione, anche se si
tratta di un’innovazione che nel marxismo è stata a lungo cercata[65], perché in essa l’aporia dell’ideologia ‒ negazione teorica e
affermazione pratica; testimone di una concezione assoluta e, rispettivamente,
relativa della verità ‒
diventa per la prima volta pienamente pensabile. La teoria della traducibilità
dei linguaggi rende possibile la decifrazione retrospettiva della cultura
moderna come un variegato sistema di forme funzionali al riassorbimento del
marxismo; ma allo stesso tempo mostra come il marxismo sia in esse presente,
e come pertanto, proprio in quanto intendono controllarlo, quelle forme della
cultura segnalino la presenza viva del marxismo nella storia delle masse, nella
loro incoercibile tendenza a entrare nella politica. Esattamente come nel caso
del rapporto tra ideologia e verità, non si tratta di separare il marxismo come
tale dalle sue forme stravolte, ma di commisurare le deformazioni all’originale
e viceversa, di ritrovare l’originale nelle sue deformazioni.
Il “luogo” in cui questo duplice passaggio è non
astrattamente, ma concretamente possibile, come pratica di massa, è appunto
l’egemonia. Ricordiamo il passo, già citato, del § 33 del Quaderno 7, in cui
Gramsci accenna «all’importanza filosofica del concetto e del fatto di
egemonia, dovuto a Ilici»[66]. Il rinvio riguardava in quel caso la necessità di spiegare
«l’espressione che il proletariato tedesco è l’erede della filosofia
classica tedesca: come deve essere intesa – non voleva indicare Marx l’ufficio
storico della sua filosofia divenuta teoria di una classe che sarebbe diventata
Stato?»[67]. Il concetto e il fatto dell’egemonia (il fatto è essenziale
per lo sviluppo del concetto: «per Ilici questo è realmente avvenuto in un
territorio determinato») sono una “spiegazione” delle Tesi su Feuerbach,
in cui la questione poteva essere posta in termini ancora solo teorici. A
partire da ciò, il seguente passaggio del Quaderno 7 risulta finalmente chiaro:
Nella storia l’«uguaglianza» reale, cioè il grado di «spiritualità» raggiunto dal processo storico della «natura umana», si identifica nel sistema di associazioni «private e pubbliche», esplicite ed implicite, che si annodano nello «Stato» e nel sistema mondiale politico: si tratta di «uguaglianze» sentite come tali fra i membri di una associazione e di «diseguaglianze» sentite tra le diverse associazioni, uguaglianze e disuguaglianze che valgono in quanto se ne abbia coscienza individualmente e come gruppo. Si giunge così anche all’eguaglianza o equazione tra «filosofia e politica», tra pensiero e azione, cioè ad una filosofia della praxis. Tutto è politica, anche la filosofia o le filosofie (confronta note sul carattere delle ideologie) e la sola «filosofia» è la storia in atto, cioè è la vita stessa. In questo senso si può interpretare la tesi del proletariato tedesco erede della filosofia classica tedesca – e si può affermare che la teorizzazione e la realizzazione dell’egemonia fatta da Ilici è stata anche un grande avvenimento «metafisico»[68].
La realtà del concetto “spirito” si definisce solamente
attraverso l’unificazione contraddittoria, politica e culturale, del genere
umano. Se metafisica è ogni affermazione di unità fatta prescindendo da
questo passaggio, l’elaborazione teorica e pratica (in un luogo determinato)
del metodo dell’egemonia segna una rottura nella storia della
metafisica, o meglio nella storia metafisica della filosofia e della cultura in
generale (dato che metafisico è un atteggiamento, non una dottrina
particolare). L’egemonia presuppone infatti «che una massa di uomini sia
condotta a pensare coerentemente e in modo unitario il reale presente»[69], perché «la realizzazione di un apparato egemonico [...] crea
un nuovo terreno ideologico, determina una riforma delle coscienze e dei metodi
di conoscenza» [70].
La realizzazione di un apparato egemonico si colloca sullo
stesso terreno della “metafisica”, perché riflette sulle condizioni dell’unità
del genere umano. Ma lo fa in una maniera completamente nuova, identificando
l’attività filosofica con la produzione politica concreta di quella unità:
Il carattere della filosofia della praxis è specialmente quello di essere una concezione di massa, una cultura di massa e di massa che opera unitariamente, cioè che ha norme di condotta non solo universali in idea, ma «generalizzate» nella realtà sociale. E l’attività del filosofo «individuale» non può essere pertanto concepita che in funzione di tale unità sociale, cioè anch’essa come politica, come funzione di direzione politica[71].
Questa definizione del «filosofo “individuale”» nel marxismo
non può che valere anzi tutto autoriflessivamente: per chi l’ha coniata.
Come «funzione di direzione politica» vanno pertanto letti i suoi quaderni
carcerari, e insomma il suo marxismo.
Note
[1] E. J. Hobsbawm, “Prefazione”, in Storia del marxismo,
Vol. 1. Il marxismo ai tempi di Marx, Torino, 1978, pp. XI-XXIX: XII.
[2] Ibidem.
[3] Ivi, p. XIII.
[4] Ivi, pp. XIII-XIV.
[5] Ivi, p. XIn.
[6] Cfr. P. Togliatti, “Promemoria sulle questioni del
movimento operaio internazionale e della sua unità”, Rinascita, 21, n. 35,
5 settembre 1964, poi in Id., Da Salerno a Yalta. Vent’anni di lotta
politica negli articoli di Rinascita, “Prefazione” di G. Chiarante, Roma,
1983, pp. 285-296: 296.
[7] Di fatto, a partire dagli anni Ottanta si è abitualmente
parlato di “marxismi”, al plurale. Cfr. p. es. W. F. Haug, Pluraler
Marxismus. Beiträge zur politischen Kultur, 2 voll., Berlin, 1985-1987; A.
Tosel, “Devenir du marxisme: de la fin du marxisme-léninisme aux mille
marxismes. France-Italie 1975-1995”, in Dictionnaire Marx contemporain,
sous la direction de J. Bidet et E. Kouvélakis, Paris, 2001, pp. 57-78; C.
Corradi, Storia dei marxismi in Italia, Roma, 2005.
[8] E. J. Hobsbawm, “Il marxismo oggi: un bilancio aperto”, in Storia
del marxismo, Vol. 4. Il marxismo oggi, Torino, 1982, pp. 3-52: 45-46.
[9] Una presentazione limpida e a mio avviso definitiva della
costitutiva implicazione del marxismo con la politica di massa (e di
conseguenza del marxismo con la sua storia) è nella “Prefazione” di V.
Gerratana al suo Ricerche di storia del marxismo, Roma, 1972.
[10] Anche in seguito, questo è rimasto un punto fermo della
sua interpretazione del marxismo. Cfr. E. J. Hobsbawm, “Marx e la conoscenza storica”, Studi storici,
24, 1983, n. 3/4, pp. 335-346; Id., How to Change the World. Reflections
on Marx and Marxism, New Haven & London, 2011.
[11] Questo spostamento di
prospettiva è oggi possibile farlo, dato che a un certo marxismo (legato per
affinità o per contrasto all’esperienza di determinati partiti di massa) ci
possiamo rivolgere come a un episodio concluso. Ma il marxismo nel mondo
non è affatto scomparso, anche se esso oggi stenta ad attingere un legame reale
con la politica di massa, la quale rimane per ora appannaggio piuttosto del
“ritorno del religioso” (cfr. A. Tosel, Du retour du religieux, Paris,
2011 e, più sinteticamente, Id., “La democrazia tra conflitto sociale e
conflitto identitario”, Critica marxista, N.S., 51, 2013, n. 2, pp.
53-62).
[12] Con ciò non s’intende negare la presenza, dentro la
seconda e dentro la terza Internazionale, di varie eterodossie, forme di
revisionismo e diversità di interpretazione. Tuttavia ‒ come giustamente osserva Hobsbawm ‒ un conto è il
«pluralismo» succeduto al 1956, un conto è «la tolleranza del dissenso»: «Il
revisionismo di Bernstein era tollerato nella socialdemocrazia tedesca, ma al
tempo stesso era respinto sia dal partito, sia dalla maggior parte dei
marxisti, come una teoria indesiderabile e non ortodossa. Per quanto alcune
teorie elaborate da alcuni teorici sollevino il sospetto e l’ostilità di altri,
è difficile trovare oggi [sono parole scritte nel 1982 ‒ F.F.] un consenso diffuso, a livello
nazionale o internazionale, su cosa costituisca un’interpretazione legittima e
su cosa, di fatto, abbia cessato di essere “marxista”» (E. J. Hobsbawm, “Il
marxismo oggi: un bilancio aperto”, cit., p. 37).
[13] Nel febbraio 1921 David B. Rjazanov ricevette da Lenin
l’incarico di raccogliere i documenti relativi a Marx ed Engels; nel luglio
1922 fu nominato direttore dell’appena fondato Istituto Marx-Engels; nel 1924,
in occasione del V Congresso dell’Internazionale (17 giugno-8 luglio) ebbe
l’incarico di avviare la MEGA. Nella Risoluzione sulle pubblicazioni
dell’Istituto Marx-Engels, da lui letta al Congresso e approvata all’unanimità,
si richiedeva tra l’altro la collaborazione di tutti i partiti comunisti «nella
raccolta dei materiali relativi alla vita e all’opera di Marx ed Engels» (Thesen
und Resolutionen des V. Weltkongresses der Kommunistischen Internationale,
Hamburg, 1924, p. 189, cit. in R. Hecker, “Rjazanovs Editionsprinzipien der
ersten MEGA”, in David Borisovič Rjazanov und die erste MEGA (Beiträge
zur Marx-Engels Forschung. NF
Sonderband 1). Herausgeber und Redaktion: C.-E. Vollgraf, R. Sperl und R.
Hecker, Hamburg, 1997, pp. 7-27: 13). Nell’aprile 1927 Rjazanov firmava il
“Vorwort” al primo tomo del volume I.1 della Marx-Engels-Gesamtausgabe (K.
Marx,Werke und Schriften bis Anfang 1844, Frankfurt a.M., 1927, pp. IX-XXVIII).
[14] In questo modo non s’intende ridurre la filosofia alla
dimensione religiosa dalla quale, per una serie di ragioni ampiamente indagate,
si distaccò (per quanto riguarda la storia dell’Europa) nel corso del VI sec.
a.e.v. (cfr. M. Rossi, Le origini della filosofia greca, a cura di L.
Rossi, Roma, 1984). S’intende solamente affermare che, conquistando
un’autonomia che con Aristotele appare già pienamente delineata e affermata, in
ragione della sua origine la filosofia ha occupato un luogo ibrido e instabile,
tra il sapere positivo e l’attitudine pratica. Ciò è evidente già in
Aristotele, nella tensione tra la dispersione della ricerca e la necessità di
ricondurla costantemente sotto il finalismo della natura.
[15] Cfr. D. Losurdo, Antonio Gramsci dal liberalismo al
«comunismo critico», Roma, 1997, pp. 212-216. Un saggio di questa applicazione
(derivata da Labriola) è in C. Luporini, “La consapevolezza storica del
marxismo” (1955), in Id., Dialettica e materialismo, Roma, 1974, pp. 3-41.
[16] A. M. Iacono, “Sul concetto di ‘feticismo’ in Marx”, Studi
storici, 24, 1983, n. 3/4, pp. 429-436: 435.
[17] M. Tronti, “Tra materialismo dialettico e filosofia
della prassi. Gramsci e Labriola”, in La città futura. Saggi sulla figura
e il pensiero di Antonio Gramsci, a cura di A. Caracciolo e G. Scalia, Milano,
1959, pp. 139-162: 161.
[18] M. Tronti, Operai e capitale, Torino, 19712, pp.
14, 11.
[19] Ricordo qui rapidamente: Zur Kritik der Hegelschen
Rechtsphilosophie. Einleitung (1843), Kritik der Hegelschen Dialektik
und Philosophie überhaupt (1844), Die Heilige Familie. Kritik der
kritischen Kritik (1845), Grundrisse der Kritik der politischen
Ökonomie (1857-1858), Zur Kritik der politischen Ökonomie (1859),
e quindi Das Kapital. Kritik der politischen Ökonomie, Bd. 1 (1867).
[20] Mi riferisco al “Nachwort” alla seconda edizione (1873)
del primo libro del Capitale, sul quale cfr. E. Renault, Marx e
l’idea di critica, trad. it. di M. T. Ricci, Roma, 1999, pp. 112-122. Sul
concetto di “critica” in Marx cfr. anche L. Basso, Socialità e isolamento.
La singolarità in Marx, Roma, 2008, in partic. pp. 109-110, 153; P. Vinci, La
forma filosofia in Marx. Dalla critica dell’ideologia alla critica
dell’economia politica, Roma, 2011, in partic. pp. 10-13.
[21] Cfr. E. Balibar, Dalla lotta di classe alla lotta
senza classi?, in E. Balibar, I. Wallerstein, Razza nazione classe. Le
identità ambigue, tr. it. di O. Vasile, Roma, 1996, pp. 203-240: 215-216. Sul
connesso tentativo di individuare un altro “luogo” della politica nel periodo
di Kreuznach, cfr. M. Abensour, La Démocratie contre l’État. Marx et le
moment machiavelien, Paris, 2004. Su ciò mi permetto di rinviare ai miei: Da
Gramsci a Marx. Ideologia, verità e politica, Roma, 2009; “Marx e la politica.
Da Le lotte di classe in Francia al 18 Brumaio”, in Aspetti
del pensiero di Marx e delle interpretazioni successive, a cura di M. Cingoli e
V. Morfino, Milano, 2011, pp. 67-81; “Spazio e potere alla luce della teoria
dell’egemonia”, in Tempora multa. Il governo del tempo, a cura di V.
Morfino, Milano, 2013, pp. 225-254.
[22] «Les économistes comme Adam Smith et Ricardo [...] sont
les historiens de cette époque» (K. Marx, Misère de la philosophie,
Préface de J. Kessler, Paris, 2002, p. 178). «Derartige Formen [sta parlando
delle forme del feticismo] bilden eben die Kategorien der bürgerlichen
Ökonomie. Es sind gesellschaftlich gültige, also objektive Gedankenformen für
die Produktionsverhältnisse dieser historisch bestimmten gesellschaftlichen
Produktionsweise, der Warenproduktion» (K. Marx, Das Kapital, Bd. 1, in K.
Marx, F. Engels, Werke, Bd. 23, Berlin, 1968, p. 90).
[23] Sulla «questione della verità» nel marxismo come
costitutivamente duplice ‒
da un lato «analisi delle finzioni di universalità che la filosofia [...]
autonomizza», dall’altro critica della «denegazione dell’ideologia in Marx» ‒ si sofferma in modo
magistrale E. Balibar, La filosofia di Marx, trad. it. di A. Catone, Roma,
1994, pp. 127-128 (e cfr. ivi, pp. 51-52).
[24] «[...] la più flagrante incapacità del marxismo è
consistita precisamente nel compito cieco che rappresentavano per esso il suo
funzionamento ideologico, la sua idealizzazione del “senso della storia” e la
sua trasformazione in religione secolare di masse, di partiti e di Stati» (ivi,
p. 128).
[25] «La consapevolezza dell’autonomia della
concettualizzazione come sede del sapere scientifico» (C. Luporini, Dialettica
e materialismo, cit., p. XXIV), che Luporini attribuiva a Marx, non può essere
pensata separatamente dalla consapevolezza che, come Luporini stesso
riconosceva, «il costituirsi del senso dell’universale, del generale, da cui
nascono la filosofia e la scienza, in una parola la teoria, [...]
coincide, storicamente, con la divisione del lavoro manuale e intellettuale»
(ivi, p. XXIII). Evitare di porre questo fatto alla base della forma stessa
della filosofia marxista, significa equiparare il marxismo ‒ con qualche ritocco
superficiale ‒ alla
filosofia tradizionale e al mondo da cui essa nasce.
[26] Si veda la magistrale ricostruzione che Leonardo Paggi
ha fatto della «elaborazione del marxismo-leninismo» come funzione delle lotte
in corso nel gruppi dirigente bolscevico tra il 1923 e il 1924. L. Paggi, Le
strategie del potere in Gramsci. Tra fascismo e socialismo in un solo paese.
1923-1926, Roma, 1984, pp. 59-80. Cfr. anche G. Labica, Il
marxismo-leninismo (tra ieri e domani), trad. di A. Catone, Roma, 1992.
[27] K. Marx, [Thesen über
Feuerbach], in K. Marx, F. Engels, Werke, Bd. 3, Berlin, 1958, p. 7.
[28] A ciò non è estraneo il fatto che Gramsci è l’unico teorico (nel
senso di filosofo) marxista che abbia al suo attivo un’esperienza come politico in
senso integrale. Cfr. a questo proposito l’acuto confronto proposto da L. Paggi
(Antonio Gramsci e il moderno principe. I. Nella crisi del socialismo italiano,
Roma, 1970, pp. XLV-XLVI) tra il Lenin di Gramsci e quello di Lukács.
[29] Cfr. R. Lacorte,
“Translatability, Language and Freedom in Gramsci’s Prison Notebooks”, inGramsci,
Language, and Translation, ed. by P. Ives and R. Lacorte, Lanham (Maryland),
2010, pp. 213-224.
[30] L’edizione da me utilizzata (a cui si rinvia con QC)
è: A. Gramsci, Quaderni del carcere, edizione critica dell’Istituto
Gramsci a cura di V. Gerratana, Torino, 1975. In questo caso: Quaderno 10 II, §
6.IV: QC, 1245. Per i termini di datazione dei testi dei Quaderni del
carcere mi baserò su: G. Cospito, “Appendice”, in Id., “Verso l’edizione
critica e integrale dei ‘Quaderni del carcere’”, Studi storici, 52, 2011,
n. 4, pp. 881-904: 896-904.
[31] Sul rapporto tra questi due
concetti cfr. F. Frosini, “On ‘Translatability’ in Gramsci’s Prison
Notebooks”, in Gramsci, Language, and Translation, cit., pp. 171-186:
178-183.
[32] Quaderno 10 II, § 17: QC, 1255.
[33] Cfr. Quaderno 3, § 48: QC, 331: «Ricordare che E.
Kant ci teneva a che le sue teorie filosofiche fossero d’accordo col senso
comune; la stessa posizione si verifica nel Croce».
[34] Su ciò cfr. sopratutto Quaderno 10 II, § 31: QC,
1269-1276.
[35] Quaderno 10 II, § 17: QC, 1255-1256.
[36] Quaderno 11, § 48: QC, 1470.
[37] G. W. F. Hegel, Lezioni sulla storia della
filosofia, trad. it. di E. Codignola e G. Sanna, Firenze, 1945, Vol. III, t. 2,
p. 268; Id., Lezioni sulla filosofia della storia, trad. di G. Calogero e
C. Fatta, Firenze, 1963, vol. IV, p. 200.
[38] Quaderno 8, § 208: QC, 1066.
[39] Quaderno 10 II, § 9: QC, 1247.
[40] Quaderno 13, § 18: QC, 1592. Nella prima stesura
(risalente all’ottobre 1930) Gramsci era stato assai più prudente: «la Miseria
della Filosofia può essere considerata in parte come l’applicazione e lo
svolgimento delle Tesi su Feuerbach» (Quaderno 4, § 38: QC, 462).
Nell’accentuazione impressa nella seconda stesura si nota la presenza delle
riflessioni su «Hegel + Davide Ricardo» intervenute nel frattempo, essendo
Ricardo ampiamente presente nella Miseria ma non nelle Tesi (la
sua presenza nei cosidetti Manoscritti economico-filosofici del 1844 non
poteva essere nota a Gramsci, dato che furono pubblicati per la prima volta nel
1932: K. Marx, Ökonomisch-philosophische Manuskripte aus dem Jahre 1844,
in Marx-Engels-Gesamtausgabe, I.3, Berlin, 1932).
[41] Quaderno 10 II, § 31: QC, 1270-1271.
[42] B. Croce, Storia d’Europa nel secolo decimonono (1932),
a cura di G. Galasso, Milano, 1991, pp. 28-29.
[43] «Bisogna pur raccomandare di non prendere “religione”
nel significato materiale degli adepti delle varie religioni o ristretto degli
avversarii filosofici delle religioni, ma, come intendeva il Goethe, in quello
di ogni sistema mentale, di ogni concezione della realtà, che si sia tramutata
in fede, diventata base di azione e lume di vita morale» (B. Croce, “Storia
economico-politica e storia etico-politica”, La Critica, 22, 1924, pp.
334-341: 341).
[44] B. Croce, Contro le sopravvivenze del materialismo
storico. Nota letta all’Accademia di scienze morali e politiche della Società
Reale di Napoli dal socio Benedetto Croce, Napoli, 1924. Il volumetto ‒ privo di contrassegni
carcerari ‒ è
presente nel Fondo Gramsci (n. 155) custodito presso la Fondazione
Istituto Gramsci di Roma.
[45] Quaderno 1, § 132: QC, 119.
[46] B. Croce, Conversazioni critiche, Serie I (1918),
Bari, 19504, p. 305 (e cfr. ivi, pp. 298-301, l’interpretazione delle «celebri
glosse al Feuerbach»).
[47] Ristampando nel 1938 i labriolani saggi su La
concezione materialistica della storia (Bari, 19473), Croce vi aggiunse lo
scritto “Come nacque e come morí il marxismo teorico in Italia (1895-1900). Da
lettere e ricordi personali” (ivi, pp. 265-312), che ad ogni buon conto (perché
fosse tutto chiaro) pose anche in appendice alla quinta edizione (1941) del
proprio Materialismo storico ed economia marxistica (Bari, 1968, pp.
253-294).
[48] Quaderno 4, § 3: QC, 422, corsivo mio.
[49] F. Izzo, I Marx di Gramsci, in Gramsci nel suo
tempo, a cura di F. Giasi, Roma, 2008, Vol. 2, pp. 553-580: 567. Cfr. anche
Cfr. L. Rapone, Cinque anni che paiono secoli. Antonio Gramsci dal
socialismo al comunismo (1914-1919), Roma, 2011, pp. 259-270. Sul nesso
idealismo-politica e idealismo-marxismo nel giovane Gramsci rimane ancora
imprescindibile la consultazione di L. Paggi,Antonio Gramsci e il moderno
principe, cit., pp. 3-42.
[50] Cfr. in particolare Quaderno 4, § 3: QC, 422: «Un
altro aspetto della quistione è l’insegnamento pratico che il marxismo ha dato
agli stessi partiti che lo combattono per principio, così come i gesuiti
combattevano Machiavelli pur applicandone i principii»; e Quaderno 4, § 8,
intitolato Machiavelli e Marx, che istituisce un’analogia tra il
«machiavellismo» dei gesuiti e le ricorrenti forme di revisione del marxismo:
«Questa posizione del Machiavelli si ripete per Marx: anche la dottrina di Marx
è servita oltre che alla classe alla quale Marx esplicitamente si rivolgeva (in
ciò diverso e superiore al Machiavelli) anche alle classi conservatrici, il cui
personale dirigente in buona parte ha fatto il suo tirocinio politico nel
marxismo» (QC, 431). Cfr. anche l’“Introduzione” al primo corso della Scuola
interna di Partito (1925), in A. Gramsci, La costruzione del Partito
comunista. 1924-1926, a cura di E. Fubini, Torino, 1971, in partic. pp. 48-57:
54-55.
[51] Per la nozione di «differenza intellettuale» rinvio a E.
Balibar, La filosofia di Marx, cit., pp. 55-60.
[52] Quaderno 4, § 3: QC, 422.
[53] Sull’identificazione di «superstrutture» (declinato al
plurale) e «forme ideologiche» nei Quaderni del carcere cfr. P. D.
Thomas, The Gramscian Moment. Philosophy, Hegemony, and Marxism, Leiden,
2009, pp. 98-99.
[54] Cfr. Quaderno 4, § 15: QC, 437.
[55] Cfr. B. Croce, “Elementi di politica” (1925), in Id., Etica
e politica (1931), Roma-Bari, 1967, p. 193; Id., “Il partito come giudizio
e come pregiudizio” (1912), in Id., Cultura e vita morale. Intermezzi
polemici, 2a ed. raddoppiata, Bari, 1926, pp. 191-198.
[56] QC, 437.
[57] QC, 2632.
[58] Scrive Gerratana (ibidem): «Non sembra che Gramsci abbia
avuto occasione di rileggere in carcere le Riflessioni sulla violenza di
Sorel; un riassunto del passo citato è però nel capitolo su Sorel del libro di
Malagodi a cui si fa riferimento in questo stesso paragrafo [G. F. Malagodi, Le
ideologie politiche, Bari, 1928]: “Non bisogna confondere questi stati
relativamente fugaci della nostra coscienza volontaria con le affermazioni
stabili della scienza. Non bisogna cercar di analizzare questi ‘sistemi di
immagini’ come si analizza una teoria scientifica, scomponendola nei suoi
elementi. Bisogna ‘prenderli in blocco’ come forze storiche”» (la citazione di
Malagodi è ivi, p. 95).
[59] Così anche M. Gervasoni, Gramsci e la Francia. Dal
mito della modernità alla «scienza della politica», Milano, 1998, pp. 169-170.
[60] QC, 464-465.
[61] Quaderno 7, § 33: QC, 882 (febbraio 1931).
[62] Quaderno 4, § 31: QC, 448 (settembre 1930). Cfr.
anche Quaderno 5, § 80 (ottobre-novembre 1930) e Quaderno 4, § 70 (novembre
1930).
[63] Cfr. “Il partito comunista”, L’Ordine Nuovo, 2, n.
15, 4 settembre 1920 e n. 17, 9 ottobre 1920, ora in A. Gramsci, L’Ordine
Nuovo. 1919-1920, a cura di V. Gerratana e A. A. Santucci, Torino, 1987, pp.
651-661: 651. L’articolo esordisce così: «Dopo il Sorel è diventato un luogo
comune riferirsi alle primitive comunità cristiane per giudicare il movimento
proletario moderno. [...] Per il Sorel, come per la dottrina marxista, il
cristianesimo rappresenta una rivoluzione nella pienezza del suo sviluppo» (ibidem).
L’allusione è al paragone tra movimento operaio e prime associazioni cristiane
istituito da Engels nell’Introduzione preposta nel 1895 alla riedizione di Klassenkämpfe
in Frankreich 1848 bis 1850 (in K. Marx, F. Engels, Werke, Bd. 22,
Berlin, 19723, pp. 509-527: 526-527). Sulla fortuna del paragone engelsiano
cfr. L. Paggi, Antonio Gramsci e il moderno principe, cit., p. 4.
[64] In Quaderno 7, § 21: QC, 869, intitolato Validità
delle ideologie, riprendendo non casualmente la nozione di «blocco storico»,
Gramsci rinvia a un passo del Capitale (K. Marx, Il capitale.
Critica dell’economia politica, Libro I, trad. it. di D. Cantimori, Roma, 19748,
p. 92) e a uno di “Per la critica della filosofia del diritto di Hegel.
Introduzione” (in K. Marx, Scritti politici giovanili, a cura di L. Firpo,
Torino, 1950, p. 404). È significativo che in essi non è in questione la
dottrina “ufficiale” dell’ideologia, ma, nel primo caso, la nozione del tutto
estemporanea di «pregiudizio popolare», nel secondo quella giovanile di
realizzazione della filosofia come «forza materiale».
[65] Su questo punto mi sento di condividere pienamente la
tesi di E. Laclau, Ch. Mouffe, Hegemony
and Socialist Strategy. Towards a Radical Democratic Politics, London and
New York, 20012(Egemonia e strategia socialista. Verso una politica
democratica radicale, a cura di F. M. Cacciatore e M. Filippini, Genova, 2012).
[66] Quaderno 7, § 33: QC, 882.
[67] QC, 881-882. Il passo è in realtà tratto a memoria
dall’engelsiano Ludwig Feuerbach und der Ausgang der deutschen klassichen
Philosophie, in K. Marx, F. Engels, Werke, Bd. 21, Berlin, 1962, p. 307
(«Die deutsche Arbeiterbewegung ist die Erbin der deutschen klassischen
Philosophie»), ma Gramsci si riferisce all’undicesima tesi su Feuerbach. Che
egli leggesse le due proposizioni come equivalenti risulta del resto evidente
dal seguente passo: «La proposizione che il proletariato tedesco è l’erede
della filosofia classica tedesca contiene appunto l’identità tra storia e
filosofia; così la proposizione che i filosofi hanno finora solo spiegato il
mondo e che ormai si tratta di trasformarlo» (Quaderno 10 II, § 2: QC,
1241).
[68] Quaderno 7, § 35: QC, 886.
[69] Quaderno 11, § 12: QC, 1378.
[70] Quaderno 10 II, § 12: QC, 1250.
[71] Quaderno 10 II, § 31: QC, 1271.
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