Non è un caso che i loro scritti — sebbene composti in contesti
profondamente differenti — affrontino questioni simili o sovrapposte: la
genealogia del totalitarismo, la filosofia politica e pratica, la modernità, il
carattere delle rivoluzioni, i movimenti popolari o di massa, ecc. Tuttavia,
nonostante
queste affinità, quello che maggiormente colpisce quando i due pensieri vengono comparati, è l’immensa divergenza in campo politico e storico Potrebbe darsi che l’assenza di allusioni a Gramsci nel lavoro della Arendt sia dovuta alla sua consapevolezza che le idee di quest’ultimo fossero così lontane dalle sue da non meritare un impegno serio. D’altro canto, Antonio Gramsci e Hannah Arendtnon c’è nessuna ragione per ritenere che la Arendt abbia letto un qualsiasi scritto di Gramsci. Sebbene si possa essere imbattuta nel suo nome e aver letto qualcosa su di lui, è quasi certo che non fosse fortemente motivata ad un’analisi più approfondita del suo lavoro. Nella sua prima grande opera, Le Origini del Totalitarismo, la Arendt più o meno equipara il Nazismo e il comunismo. Il marxismo, secondo lei, è un elemento originario nella genealogia del totalitarismo il cui credo nella “legge della storia”, lei spiega, legittimerebbe il terrore. Gramsci ha ripetutamente sostenuto che la storia non segue una legge inesorabile e trascendente ma, piuttosto, è fatta dagli uomini. È improbabile, tuttavia, che la Arendt lo abbia saputo dato che teneva talmente “in gran dispitto” i marxisti per essere a conoscenza delle loro opere teoriche. (La sua ammirazione per Rosa Luxemburg e Walter Benjamin non è un’eccezione in quanto derivava da quegli aspetti del loro marxismo che lei riteneva non–marxisti.) È altrettanto improbabile che la Arendt possa aver pensato che l’analisi del fascismo di Gramsci potesse arricchire la sua comprensione del totalitarismo, visto che non credeva che il regime di Mussolini fosse totalitario. “La prova della natura non totalitaria della dittatura fascista”, asserisce in una nota, “è il sorprendentemente esiguo e comparativamente mite numero di frasi indirizzate agli oppositori politici”. Scritta durante la guerra fredda e influenzata dalla sua logica della opposizione binaria, la seconda parte de Le Origini del Totalitarismoha avuto l’effetto, com’è ovvio non voluto, di dare appoggio alle molto più recenti teorie dei neo–conservatori negli Stati Uniti e a quelle degli storici revisionisti in Italia. D’altro canto Gramsci resta l’uomo nero della destra americana mentre, in Italia, i giornali diffondono storie infondate circa una sua rinuncia al comunismo sul letto di morte.
queste affinità, quello che maggiormente colpisce quando i due pensieri vengono comparati, è l’immensa divergenza in campo politico e storico Potrebbe darsi che l’assenza di allusioni a Gramsci nel lavoro della Arendt sia dovuta alla sua consapevolezza che le idee di quest’ultimo fossero così lontane dalle sue da non meritare un impegno serio. D’altro canto, Antonio Gramsci e Hannah Arendtnon c’è nessuna ragione per ritenere che la Arendt abbia letto un qualsiasi scritto di Gramsci. Sebbene si possa essere imbattuta nel suo nome e aver letto qualcosa su di lui, è quasi certo che non fosse fortemente motivata ad un’analisi più approfondita del suo lavoro. Nella sua prima grande opera, Le Origini del Totalitarismo, la Arendt più o meno equipara il Nazismo e il comunismo. Il marxismo, secondo lei, è un elemento originario nella genealogia del totalitarismo il cui credo nella “legge della storia”, lei spiega, legittimerebbe il terrore. Gramsci ha ripetutamente sostenuto che la storia non segue una legge inesorabile e trascendente ma, piuttosto, è fatta dagli uomini. È improbabile, tuttavia, che la Arendt lo abbia saputo dato che teneva talmente “in gran dispitto” i marxisti per essere a conoscenza delle loro opere teoriche. (La sua ammirazione per Rosa Luxemburg e Walter Benjamin non è un’eccezione in quanto derivava da quegli aspetti del loro marxismo che lei riteneva non–marxisti.) È altrettanto improbabile che la Arendt possa aver pensato che l’analisi del fascismo di Gramsci potesse arricchire la sua comprensione del totalitarismo, visto che non credeva che il regime di Mussolini fosse totalitario. “La prova della natura non totalitaria della dittatura fascista”, asserisce in una nota, “è il sorprendentemente esiguo e comparativamente mite numero di frasi indirizzate agli oppositori politici”. Scritta durante la guerra fredda e influenzata dalla sua logica della opposizione binaria, la seconda parte de Le Origini del Totalitarismoha avuto l’effetto, com’è ovvio non voluto, di dare appoggio alle molto più recenti teorie dei neo–conservatori negli Stati Uniti e a quelle degli storici revisionisti in Italia. D’altro canto Gramsci resta l’uomo nero della destra americana mentre, in Italia, i giornali diffondono storie infondate circa una sua rinuncia al comunismo sul letto di morte.

Un altro argomento importante che La Porta mette in primo
piano riguarda l’attualità dei lavori di Gramsci e della Arendt. Di interesse
particolare a questo riguardo sono le loro analisi critiche dello Stato
liberale mo14Antonio Gramsci e Hannah Arendt derno e dei sistemi
politici alternativi da loro proposti. Per Gramsci, lo stato moderno consiste
in un insieme di “rapporti organici tra Stato o società politica e società civile”
(Q, p. 2288) che, inoltre, incarna e manifesta “l’unità storica delle classi
dirigenti” (ivi, 2287). I membri delle classi più basse partecipano alla
società civile, ma, dato che sono frammentati e disorganizzati, restano esclusi
dal — o ai margini del — sistema politico. La modernità, con la sua
trasformazione radicale dei modi di produzione e dell’intero ordine economico,
crea le condizioni per i gruppi sociali subalterni per organizzarsi e cercare di
influenzare i programmi delle formazioni politiche già esistenti. La crescente
coerenza dei raggruppamenti sociali subalterni e dell’articolazione dei loro
bisogni e interessi genera “la nascita di partiti nuovi dei gruppi dominanti
per mantenere il consenso e il controllo dei gruppi subalterni” (ivi, 2288).
Mentre questa situazione si può dire che migliori la possibilità di curare gli
interessi e i bisogni da parte dei gruppi subordinati che ricevono grande
considerazione nell’arena politica, essa tuttavia perpetua l’assenza dei
subalterni dalla società politica.
In altre parole, lo strato sociale subalterno non parla per se
stesso; altri si assumono il compito di parlare per lui. “Può parlare lo strato
subalterno?” si è chiesto Gayatri Spivak in un saggio molto discusso.Il lavoro
di una vita intera di Gramsci fu dedicato precisamente al compito di permettere
“nuove formazioni che affermano l’autonomia dei gruppi subalterni” (ivi, 2288)
in modo che i subalterni potessero parlare per se stessi, muoversi dai margini
al centro, smettere di essere subalterni e diventare protagonisti nella società
politica. Questo avrebbe costituito “l’ordine nuovo” che Gramsci progettava. Per
Hannah Arendt niente è più importante della abilità di ogni membro della
società di parlare per se stesso o se stessa nell’arena
politica. In effetti assimila la libertà autentica (perché positiva) all’attiva
partecipazione alla polis. La modernità, secondo lei, impedisce l’attuazione della
libertà positiva perché genera solitudine, conformità e apatia. La democrazia
rappresentativa, inoltre, allontana i cittadini dalla politica e li rende
passivi. Nella visione della Arendt, è pericolosa l’invadenza, che ha accompagnato
la ascesa del liberalismo, del sociale nella sfera politica. Nella modernità la
politica è stata ridotta a una questione di mezzi e fini, erodendo così o addirittura
cancellando l’autonomia del politico. Secondo la Arendt l’azione politica
autentica deve trovare un fine in se stessa, fine perseguito in modo
disinteressato, e non strumentale. La sua teoria è basata su una definizione della
politica che la distingue e la separa da tutte le altre sfere di interesse
umano e di attività — compresa l’economia e la società civile. Nel perseguire
questa polis ideale la pensatrice non evidenzia o propone la costruzione di un
“nuovo ordine”, ma un ritorno al passato. Infatti il suo ideale è la democrazia
ateniese premoderna, precapitalista e lamenta il fallimento dell’America nel
perseguire la visione di Jefferson di una cittadinanza attiva che partecipa ai
consigli locali. Dal punto di vista della Arendt, l’America ha tradito la sua
stessa rivoluzione. Scrive: “Se lo scopo ultimo della rivoluzione era la libertà
e la costituzione di uno spazio pubblico dove la libertà potesse presentarsi...
allora le repubbliche elementari delle circoscrizioni, l’unica sede tangibile
dove ognuno poteva essere libero, erano in realtà il fine della grande repubblica,
il cui scopo principale negli affari di politica interna avrebbe dovuto essere
quello di offrire ai cittadini tali sedi di libertà e di proteggerle.” (La
tradizione rivoluzionaria e il suo tesoro perduto in Sulla rivoluzione,
Edizioni di Comunità, Milano 1983, p. 294) La Costituzione degli Stati Uniti,
tuttavia, privò la gente della felicità e della libertà
introducendo un sistema di governo nel quale la delega e la rappresentanza
sottraevano al popolo, in quanto detentore del potere, l’esercizio del potere
stesso che soltanto a lui appartiene.
Una critica costruttiva alla posizione della Arendt dovrebbe
prendere le mosse sottolineando che la complessità della modernità, che rende
impossibili i governi basati sui consigli locali, non può essere semplicemente
ignorata, non importa quanto indesiderabile si possa pensare essa sia. C’è
tuttavia un aspetto ancora più problematico nella teoria politica della Arendt,
e precisamente la sua insistenza sulla netta separazione delle sfere sociali e
private dalla sfera politica. È ironico che le conseguenze indesiderate della
Arendt di questa separazione emergano più chiaramente in un articolo che lei
scrisse su una delle più importanti battaglie contro la segregazione avvenuta negli
Stati Uniti alla fine degli anni cinquanta. L’articoloè intitolato “Riflessioni
su Little Rock” e il periodico, Commentary, per il quale originariamente era
stato scritto, si rifiutò di pubblicarlo. Apparve, con una nota editoriale che
esprimeva disaccordo con il suo contenuto, nel periodico di sinistra Dissent (6.1
1959).
Come emerge dal titolo, l’articolo nasce dalla situazione di
drammatica tensione nella Scuola Superiore Centrale Little Rock nella capitale
dell’Arkansas nel 1957 — uno degli eventi più importanti nella lotta afro–americana
per i diritti civili. Tre anni prima (maggio 1954), la Corte Suprema americana
aveva emesso la sua decisione (conosciuta come “Brown contro il Consiglio
scolastico”) che non solo dichiarò incostituzionale l’esistenza di scuole
segregazioniste, ma ordinò anche la desegregazione di tutte le scuole degli
Stati Uniti. La scuola dell’Arkansas progettò un piano di attivazione del
processo di desegregazione con l’ammissione di studenti neri nell’anno scolastico
che iniziava nel settembre 1957. Nell’attimo in cui i primi
studenti neri si preparavano a frequentare la scuola superiore, alcuni
cittadini del consiglio (e qui è importante ricordare la visione della Arendt
dei consigli come soggetti di “azioni” politiche positivamente finalizzate) fecero
sapere che si sarebbero radunati per protestare intorno alla scuola e non
avrebbero fisicamente permesso agli studenti neri di entrare nell’edificio. Il
governatore dell’Arkansas, Orval Fabius, appoggiò i segregazionisti e mandò sul
luogo le Guardie Nazionali dello Stato; i soldati bloccarono gli studenti neri,
impedendo loro di frequentare la scuola. Sebbene la desegregazione nella scuola
superiore di Little Rock venisse tecnicamente portata a termine nell’ultima
parte di settembre, quando il presidente Eisenhower inviò una divisione
dell’esercito americano per proteggere gli studenti neri, il conflitto continuò
sotto altre forme. I nove studenti neri che avevano forzato le barriere del
colore, furono soggetti per molti mesi ad intensi abusi sia fisici che psicologici.
Nel suo articolo la Arendt costruisce sorprendentemente un
dibattito control’applicazione della desegregazione nelle scuole; il nucleo del
suo argomentare è che la sfera sociale dovrebbe esser tenuta separata da quella
politica: “Un provvedimento antisegregazionista” sostiene, “non può abolire la
discriminazione e imporre con la forza l’eguaglianza nella società, ma può, e
in effetti deve, rafforzare l’eguaglianza nel corpo politico. L’eguaglianza,
infatti, non soltanto ha origine nel corpo politico, ma è qualcosa che vale
esclusivamente nella sfera politica. Solo lì noi siamo eguali”. (Riflessioni su
Little Rock in Responsabilità e giudizio, Einaudi, Torino 2004, pp. 175–176)
In altre parole, mentre è appropriato per lo Stato intervenire
per garantire che i neri abbiano il diritto di voto, la discriminazione
nell’istruzione è una faccenda sociale che non può essere né deve essere
risolta politicamente. Secondo la Arendt, i cittadini che costituirono il consiglio
per bloccare la desegregazione nelle scuole in Arkansas stavano esercitando il
loro diritto di associazione libera — un diritto che li avrebbe dovuti rendere
immuni dall’intervento coercitivo dello Stato. L’ordine della Corte Suprema di
desegregare le scuole e la decisione del governo federale di far rispettare
quell’ordine, secondo la Arendt, rappresentarono un pericolo per la struttura politica
della Repubblica: “ Il punto, qui,” scrive “non è dunque tanto o soltanto il
benessere della popolazione nera, ma — perlomeno in una prospettiva di lungo periodo
—, la sopravvivenza stessa della repubblica.” (ivi, p. 172) Contrariamente ai timori
della Arendt, la repubblica non solo sopravvisse alla desegregazione ma, come
hanno dimostrato le recenti elezioni, ha fatto molta strada verso
l’attenuazione del razzismo.
In “Riflessioni su Little Rock” la teoria della Arendt dell’assoluta
separazione del sociale dal politico acquista la caratteristica di un dogma che
è cieco alla complessità del mondo moderno. Se avesse letto Gramsci, sarebbe sicuramente
stata d’accordo con la sua visione che, nello stato moderno, la società
politica e quella civile sono intrecciate; la fedeltà al suo dogma, invece, la
obbliga a codificare la loro separazione. La sua Repubblica ideale garantirebbe
ai neri (e a chiunque altro dello strato sociale subalterno) “uguaglianza
all’interno del corpo politico”, ma non adotterebbe misure contro le
ingiustizie private e sociali di cui sono vittime. Nelle sue note sull’istruzione,
Gramsci si dilunga sul bisogno di fornire coloro che sono governati del tipo di
formazione intellettuale che li renderà in grado di governare. Il timore più
grande dei consigli cittadini che resistettero fortemente alla desegregazione
delle scuole in Arkansas e in altri luoghi era legato all’acquisizione del
potere politico da parte dei neri (così come di ebrei, cattolici, e svariati
“altri”). Per la Arendt questo rappresentava una minaccia minore al benessere della repubblica rispetto all’insistenza dello Stato sull’uguaglianza
dell’istruzione — che, dopo tutto, è la pre condizione necessaria per
l’uguaglianza di opportunità, non solo nella sfera economica, ma anche
nell’ideale polis periclea della Arendt.
Come chiarisce Lelio La Porta, uno studio comparativo di
Gramsci e della Arendt rivela non solo le profonde, peraltro inconciliabili,
differenze che separano le loro teorie politiche e le loro rispettive visioni
dello stato moderno, ma è anche un correttivo necessario alla nozione semplicistica
che l’esule tedesco sia un pensatore più democratico del marxista sardo.
Prefazione al libro 'Antonio Gramsci e Hannah Arendt: Per amore del mondo grande, terribile e complicato’ di Lelio La Porta