
italiana, Torino, Einaudi, 2012). Il Bel paese – lo notavano del resto Leopardi e Gramsci (S.Cingari, Appunti per uno studio sulla storia dell’industrializzazione della cultura nell’ideologia italiana, in “Bollettino della Domus mazziniana”, Pisa, anno LIV, 2009, num.1-2, pp.191-202) – è caratterizzato da una particolare tendenza a restringere lo spazio pubblico in un perimetro “estetico-spettacolare”. Ciò fa si che se da un lato, quindi, essa può esprimere uno scarto massimo con la commercializzazione della vita, si trova su un crinale in cui massimo è anche il rischio dell’estetizzazione della politica e del dominio dell’economia attraverso lo spettacolo.
Jerry, interpretato da Woody Allen, è un impresario di
spettacoli operistici in pensione, attanagliato dalla paura della morte. E’ in
viaggio a Roma per conoscere il fidanzato della figlia Hayley, che a sua volta
ha conosciuto Michelangelo nella più classica delle vacanze romane. A
differenza della moglie Phyllis, ovviamente psichiatra (una necessaria
terapeuta di famiglia, insomma), vive con estraneità perplessa la quotidianità
dello stile di vita italiano, ad esempio di tipo gastronomico. Rimane però
colpito dalla naturalezza con cui Giancarlo, il padre di Michelangelo, convive
con il suo lavoro di impresario di pompe funebri. Il parallelo è affine a
quello con cui si mettevano a raffronto, in un altro film (Hollywood ending,
USA, 2002), le paranoie ipocondriache di un regista newyorkese con l’assoluta
incuria per le malattie mortali di un produttore californiano. La differenza è,
tuttavia, che nel californiano si trattava di una rimozione della morte che
radicalizzava lo stesso tipo di nichilismo, mentre nel caso di Giancarlo si
tratta di una convivenza creativa con la morte stessa, che non fa problema in
ragione di una sapienza antica, un po’ all’insegna di quello scarto rispetto
alle altre nazioni occidentali segnalato dallo stesso Leopardi nel Discorso sui
costumi degli italiani (non credo quindi che ci sia “caricatura” del bel paese,
basata su stereotipi folkloristici, come certa critica ha imputato al regista
americano, quasi fosse preso da un’improvvisa pulsione neo-coloniale).
Giancarlo, quando torna a casa, si fa la doccia cantando arie operistiche con
voce da professionista, avendo avuto in famiglia un antenato amico di Giuseppe
Verdi. A Jerry, per la prima volta da quando è atterrato a Fiumicino, si
accende una lampadina in testa. Improvvisamente prende interesse all’altro, e
cioè quando può farci un business. Qui si apre il conflitto con Michelangelo,
preoccupato che il padre, una persona culturalmente semplice, possa essere
strumentalizzato da uno squalo dell’industria musicale, riproducendo allo
stadio di lucida consapevolezza politica ciò che nell’Anna Magnani del viscontiano
Bellissima (Italia, 1951) era un’embrionale presa di coscienza. Michelangelo,
come gli altri figli di Giancarlo, orgogliosamente elevato agli studi superiori
con la fatica del lavoro, è un avvocato che si presta soprattutto per difendere
le persone bisognose (motivo immediato dei divertenti sarcasmi di Jerry,
preoccupato del futuro materiale della figlia), vicino ai lavoratori (come la
fidanzata spiega ai genitori con tono naive, come parlasse di strani costumi
alieni, sebbene umanamente apprezzabili) e che finisce per quasi litigare col
futuro suocero per un accenno critico di quest’ultimo ai “sindacati”. Già
sull’aereo, Jerry è preoccupato che Michelangelo sia “comunista” – innescando
la classica ossessione americana, riattivata in Italia dopo la caduta del Muro
in una sorta di fiction degli anni della prima guerra fredda – e la moglie lo
rassicura che i comunisti in Italia non esistono più: è “solo molto molto di
sinistra”. Giancarlo, dopo essersi a lungo schermito facendosi forte della
protezione del figlio, viene alla fine sedotto dalle insistenze di Jerry, che
gli promette celebrità nel “mondo dei vivi”.
Il primo provino va male, dato che Giancarlo non è abituato
a esibirsi per un pubblico, scatenando l’irritazione di Michelangelo e la
rabbia anche violenta della moglie del neo-cantante. Ma fallito il primo
tentativo, la furia mercificante di Jerry si accende per la soluzione finale:
Giancarlo comparirà in scena nudo sotto la doccia, in una sorta di estremo
avvicinamento dell’arte d’avanguardia al quotidiano. Questa volta l’esperimento
riesce e perfino Michelangelo si acquieta. L’arte incarnata nella vita (nello
stesso nome del giovane avvocato), come le terzine dantesche negli stornelli
dei contadini toscani, viene risucchiata dalla gabbia d’acciaio dello
spettacolo che si fa mondo, ma uno spettacolo che in realtà è la forma
gassificata del denaro e del suo potere. Lo stile di vita caratterizzato da un
rapporto di reciproche responsabilità anche non materiali viene rotto dal
fantasma del successo personale che alimenta la scissione narcisistica.
Il narcisismo, come tendenza psicologica sempre più diffusa
in epoca post-moderna e incunabolo individuale alle seduzioni della cultura
consumistica, è il protagonista dell’episodio incentrato su Jack, un ragazzo americano
studente di architettura a Roma, che incontra un connazionale architetto di
fama mondiale, ultracinquantenne, in vacanza nella capitale, John. John è
chiaramente in crisi perché ritorna nei luoghi dove lui stesso, da ragazzo,
aveva passato un anno di soggiorno-studio. Sembra non innamorato della sua
attuale partner, dato che ricorda il tempo di quando era “giovane e
innamorato”. Non può negare la realtà quando Jack, pur tributandogli tutta la
sua ammirazione, gli fa notare di come si sia venduto al sistema finendo per
progettare soltanto molto remunerativi centri commerciali. Dopo aver preso un
caffè nella casa di Jack, nel suggestivo angolo di Trastevere che era stato il
suo giovanile “terreno di caccia”, John esce di scena in carne ed ossa, per rimanervi
come coscienza critica di Jack. Accade infatti che nel felice menage di
quest’ultimo con Sally, irrompa Monica, attrice momentaneamente disoccupata e
neo-single, cara amica di quest’ultima. E’ già Sally che la introduce
preoccupata al fidanzato, presentandola come una sirena irresistibile per gli
uomini. Quando arriva all’aeroporto appare come una semplice ragazza carina e
nulla più, ma le insistite celebrazioni di Sally e il crescente atteggiamento
di indiretta seduzione dell’attrice, sciolgono le resistenze perplesse di Jack,
che in breve se ne innamora. John, grillo parlante di Jack, lo avverte
continuamente che Monica, oltre a gonfiare ad arte i suoi dettagliati racconti
erotici autobiografici, cita dei poeti le uniche frasi a effetto che conosce e
che recita continuamente per attrarre l’attenzione. Alla fine Jack decide di
lasciare Sally, dopo aver fatto l’amore con Monica. Prima di parlarne con Sally
stessa, tuttavia, ritorna nei ranghi, dato che Monica, senza mostrare alcuna
minima emozione per dover lasciare Jack, decide in pochi secondi di accettare
un’allettante scrittura per un film da girare fra USA e Giappone, con partner
non privi, per lei, di trascorsi e attrazione erotica. In Monica, insomma, si
concentra tutto il potenziale nichilistico del consumismo narcisistico, basato
sul debordiano “falso generalizzato”, di cui John è assolutamente consapevole,
progettando supermercati, e proprio per questo cerca di salvare Jack, dato che
non è riuscito a salvare quel se stesso improvvisamente tornatogli di fronte a
Trastevere, come la slitta “rosa bella” dell’Orson Wells di Quarto potere (USA,
1941).
L’episodio che racconta la storia di Leopoldo Pisanello è
forse quello metaforicamente centrale. Leopoldo, interpretato da un Roberto
Benigni perfetto nell’uscire dalla sua maschera vestendo i panni ordinari di un
moderno monsù travet gettato in una situazione surreale, viene improvvisamente
sequestrato dallo star system e intervistato al telegiornale di Rai Tre (la
scelta del canale non credo che volesse essere una critica politica in senso
“anti-comunista”, come certa critica ha adombrato, ma piuttosto l’idea di come
la cultura ipermercificata abbia ormai assorbito trasversalmente il perimetro
pubblico) sugli aspetti più anonimi del suo quotidiano (come si è fatto la
barba, cosa mangia a colazione, come si è versato addosso il caffè: alla
banalità del male subentra il male della banalità, nel paese in cui il corpo
del sovrano si faceva oggetto del gossip quotidiano), diventando in breve una
celebrità, posto al centro continuo dell’attenzione, invitato ai Gran Gala,
desiderato e concupito dalle donne più belle. Inizialmente Leopoldo è
sconcertato dagli eventi e spaventato dalla ventata di successo e offerte
sessuali a cui va incontro, desideroso di tornare alla sua vita monotona ma
nobilitata dall’affetto coniugale e dei suoi due bambini. Ma quando infine i
riflettori inopinatamente si spostano su un’altra persona anonima, abbandonando
Pisanello, ecco che, dopo un primo momento di sollievo, subentra l’astinenza
dall’adrenalina del successo. Torneremo su questo punto.
Aggiungiamo ora che
l’episodio parla evidentemente di come con il reality, la cultura di massa
abbia definitivamente abbandonato il midcult, aderendo totalmente alla vita così
come è. Lo spettacolo, perciò, divora tutta la vita, colonizzandone ogni spazio
ma, insieme, privandola della sua forza. Il privato, cioè, diventa pubblico e
in tal modo depotenziato di ogni possibilità di scarto e resistenza, così come,
di converso, lo spazio pubblico non è più una sfera in cui partecipare,
discutere criticamente, ispirare il privato, ma una semplice riproduzione dello
stesso. E’ quella che Marcuse definiva desublimazione repressiva: o anche la banalizzazione
del sublime a cui Umberto Eco lavora fra Apocalittici e integrati e il Superuomo
di massa (su ciò cfr. ad es. U.Eco, Analitica della banalità e pop fascismo, in
P.Di Vittorio, A.Manna, E.Mastropierro, A.Russo, L’uniforme e l’animai, Edizioni
Action30, Bari, 2009, p.194). Chiedendo lumi sulla sua inspiegabile celebrità
all’anziano e saggio autista, Leopoldo si sente rispondere che anche le persone
che sembrano più legittimamente famose non se lo “meritano”, dato che in realtà
sono come le altre, come a dire che è il loro diventare visibili che gli reca la
fama, non un’aura.
Passiamo ora all’episodio rimanente, quello di una giovane
coppia di “provinciali” approdati da Pordenone a Roma, con la speranza di
rimanere nella Capitale a seguito di un colloquio in un’azienda propiziato da
uno zio ed alla sua fitta rete di conoscenze. Forse è vero che oggi nessuno
parlerebbe di “adulterio” per una deviazione extraconiugale, come fanno i due
protagonisti sconcertati della loro stessa arrendevolezza alle pulsioni
momentanee, tuttavia non mi pare che ci sia eccesso caricaturale negli sposini
inquadrati nei valori nazional-popolari, sebbene con qualche inquietudine
dettata dalla passione per la pittura di Antonio e quella per la scienza di
Milly, insegnante di liceo. Ancora attuali, peraltro, anche le figure parentali
altoborghesi permeate di perbenismo e di devozione formale. Semmai qualche
forzatura, in questo come negli altri episodi, va vista alla luce dei continui
rimandi alla commedia italiana degli anni cinquanta e sessanta, a cui allude
anche la fotografia, un’oleografia non stucchevole in quanto mediata
dall’emotività autenticamente filoeuropea del regista. L’episodio in questione
è non a caso una sorta di libero remake del felliniano Sceicco Bianco (Italia,
1952). Qui però a “perdersi” non è solo la moglie, ma anche il marito, iniziato
ad una sessualità trasgressiva da una escort interpretata da Penelope Cruz.
Milly invece, anziché da Alberto Sordi, viene irretita da Antonio Albanese,
che, dopo una facilissima performance seduttiva, la porta nella sua camera d’albergo,
avvolto da una fama di sex symbol maschile che, nella sua improbabilità, è un
ennesimo rinvio al falso generalizzato. Qui, dopo alcuni fatti rocamboleschi,
Milly finisce per consumare una notte di sesso non con l’attore ma con un topo
d’albergo con la pistola, interpretato dallo Scamarcio di Romanzo criminale, un
po’ anche a marcare il carattere espropriativo dell’industria culturale (oltre
che, ovviamente, mostrare il potere dell’immaginario sul bovarismo di
provincia). Ma, in certo senso, anche capovolgibile nel suo contrario in quanto
potenziale di mobilitazione emotiva e desiderante. Il rapporto fra i due
sposini ne esce infatti cresciuto e consolidato, anche se poi Antonio decide di
tornare a Pordenone, da un lato rifiutando il compromesso familistico ma
altresì, però, rinunciando ad un confronto che lo ha radicalmente messo in
discussione: un po’ come i due coniugi di Eyes wide shut di Stanley Kubrik
(USA, 1999), dopo l’exursus dantesco successivo alla rottura.
Il film, oltretutto, regge i livelli umoristici del miglior
Allen. Dove può rintracciarsi il limite dell’opera? Non credo nello specifico
estetico, bensì in un limite culturale, ma solo rispetto a determinati valori e
visioni del mondo. Mi riferisco al fatto che l’analisi critica del potere
mercificante dell’economia-spettacolo, incarnata anche geopoliticamente
nell’America imperialistica e nell’Italia teatro dello scontro fra storico
estetismo berlusconiano e tradizione civico-conflittuale e “vivente”, finisce
per rinunciare ad ogni potenziale eversivo. Allen, infatti, ribadisce il suo
assoluto disincanto politico. Alludendo forse al ressentiment rispetto alla
satrapia videocratica, attraverso l’autista di Pisanello, ricorda che i ricchi
hanno gli stessi problemi “umani” dei poveri, ma che, in conclusione, essere
ricchi è meglio di essere poveri. Con il che da un lato si tende a disinnescare
l’utilità di ogni forma di conflitto e, dall’altra, in parte
machiavellianamente, cercare di entrare nella logica del reale. E questa
logica, sembra dire Allen, non può innalzare alcun argine al potere del mercato
economico, spettacolare, consumistico. Infatti alla fine Michelangelo, dopo
aver rischiato la rottura con la fidanzata americana, si avvia al ricco
matrimomio conciliato anche con Jerry che ha riempito d’oro Giancarlo:
l’alterità popolare, e la sua resistenza etico-politica, viene insomma
assorbita nel pensiero unico dell’industria culturale, secondo la più classica
analisi francofortese. Monica continua il suo percorso schiacciasassi, senza
che Jack sia riuscito minimamente a disinnescarne il potenziale illusionistico,
pur essendone continuamente avvertito dalla coscienza critica. Leopoldo
Pisanello finisce per rimpiangere il gusto del successo assaggiato per un intenso
ma breve interludio, precipitando nella nevrosi. Solo Antonio sembra
ribellarsi, ma per tornare al suo “posto”, consapevole che non avrebbe
resistito nella città-vetrina d’emozioni. Come insomma nell’intera sua
filmografia, Allen non concede nulla all’”altro Machiavelli”, quello che con la
virtù cerca di mitigare il ruolo della fortuna sul corso delle cose. In lui
tutti gli uomini sono destinati a tradire, a cedere al potere di un erotismo
ridotto al determinismo della carne e della psiche, ad abdicare alle seduzioni
della ricchezza e del successo. Non esiste niente al di là della realizzazione
personale del principio di un piacere desublimato, tanto che solo forse la
capacità poetica di rappresentare questa estrema scomposizione dei soggetti, ne
restituisce respiro universale, come nei suoi grandi capolavori. Manca,
insomma, il gesto del protagonista di Caos calmo di Sandro Veronesi (Milano,
Bompiani, 2005), che, afflitto dal senso di colpa d’aver desiderato un’altra
donna mentre la moglie moriva, sceglie di stare, anche ossessivamente, vicino
alla figlia, rifiutando un ricco passaggio di carriera in una multinazionale
per evitare di tradire un amico. Invano in Woody Allen si cercherebbe la
resistenza e lo scarto (probabilmente ci farebbe divertire ricordandoci che
Pietro Paladini stava già abbastanza bene economicamente).
*: Questo saggio, già uscito sul numero di Luglio 2013 del
Ponte, è qui ripresentato con qualche piccola integrazione.