- Un'interpretazione liberal del pensatore marxista è una forzatura filologica ma aiuta a capire da dove viene l'antico tic antipolitico italiano
Massimiliano Panarari | Una
premessa (alquanto) doverosa. Antonio Gramsci (1891-1937), per chi non lo
ricordasse, era un comunista e, per la precisione, un leninista. Certamente, un
marxista a suo modo eterodosso, sui generis ed eretico, e che pagò un duro
prezzo personale anche per questa sua originalità e autonomia rispetto al
movimento comunista internazionale egemonizzato dall’Unione Sovietica di Stalin
(ed espresso in Italia dalla sua Togliatti’s Version). Ma sempre marxista (e,
nella fattispecie, esponente del “marxismo occidentale”, al quale è
assimilabile per la formazione di tipo storicista, antipositivista e idealista)
– e questo va saputo nel momento in cui ci si accinge (come utilissimo e
doveroso) a leggerlo ai giorni nostri. Perché, giustappunto, Gramsci è
assolutamente e integralmente figlio dei propri tempi di ferro e di fuoco.
Ma si rivela pure perfettamente in grado, in virtù di alcune categorie e intuizioni formidabili, e di portata molto durevole, di trascendere il Novecento per parlare ai nostri giorni postmodernizzati e divenuti tanto liquidi.
Ma si rivela pure perfettamente in grado, in virtù di alcune categorie e intuizioni formidabili, e di portata molto durevole, di trascendere il Novecento per parlare ai nostri giorni postmodernizzati e divenuti tanto liquidi.
E, allora, va tenuto sempre presente, a rigor di
storiografia e onestà intellettuale, che quando ci esercitiamo in qualche
ermeneutica liberale o liberal (che, lo confessiamo, ci piace molto…) di
Gramsci, stiamo compiendo una forzatura e una operazione di
decontestualizzazione che cozza con la filologia. Ma proprio qui, d’altronde,
ovvero nella loro capacità di oltrepassare la propria epoca, risiedono il
landmark e la cifra distintiva dei classici: cosa che vale anche per il
filosofo di origini sarde. Il quale, letto con gli occhi e il senno dell’oggi,
ci descrive superbamente gli elementi non funzionanti nel rapporto tra popolo
ed élites dirigenti che hanno unificato questa nazione, dicendoci tanto, anche
ben oltre le finalità che perseguiva quando scriveva, dei problemi e dei
deficit che ci trasciniamo da più di un secolo e mezzo, e ci impediscono di
diventare (finalmente) un “Paese normale”. Perciò leggere alcuni passaggi dei
Quaderni del carcere risulta estremamente interessante per comprendere alcune
delle radici profonde e di lunga durata dell’antipolitica, e
dell’antipartitismo che, in modo ciclico (e assai rumoroso), riaffiora nella
politica italiana. E indica, per filo e per segno, quanto un partito di
sinistra (ovvero intenzionato a trasformare – ovviamente senza la rivoluzione
violenta che costituiva un must per i marxisti novecenteschi – lo stato delle
cose esistente) abbia bisogno di intellettuali, o, come qualcuno direbbe ai
nostri tempi, di analisti simbolici capaci di delineare un progetto di
emancipazione dei più deboli, i quali ci sono ancora, e anzi, come dovrebbe
apparire evidente, aumentano vieppiù al dilagare delle diseguaglianze.
Gli intellettuali “organici” (all’epoca andava così) al
partito e alle masse (ovvero coloro che erano specializzati nell’esercizio
della “funzione intellettuale”, perché Gramsci pensava che chiunque fosse, in
certa misura, un intellettuale) erano infatti investiti di un compito
delicatissimo e fondamentale. Ossia la missione di elaborare un universo
culturale, fatto di visioni e istituzioni, contrapposto a quello dominante che
ammaliava le classi subordinate, rendendole inconsapevolmente complici di chi
le manteneva in stato di soggezione: in poche parole, a loro spettava la
produzione di una controegemonia che se la giocasse alla pari con l’egemonia
culturale vittoriosamente instaurata dalle classi dominanti (come, per fare un
esempio attuale, e mutatis mutandis, il neoliberismo che respiriamo
ininterrottamente dagli anni Ottanta dell’ascesa di Reagan e della Thatcher). L’egemonia
è, quindi, la messa in opera di un poderoso lavoro di direzione culturale e di
pedagogia di massa che stabilisce i connotati di ciò che diventerà
nazionalpopolare (senso comune e gusto di massa).
Gramsci era infatti convinto che la cultura rappresentasse
una straordinaria (anzi, un’imprescindibile) opportunità di emancipazione anche
politica e sociale, e che gli intellettuali di professione (con il partito
“intellettuale collettivo”, e fors’anche general intellect, come direbbe
qualcuno) potessero costruire, da mediatori preziosi, una filosofia popolare al
servizio degli oppressi e delle lotte per raddrizzare le storture della
società.
Se si sostituisce l’espressione soft power alla
parola direzione culturale, si pensa a quanto quella stessa egemonia si
sovrapponga alla nozione postmoderna di immaginario (anche se Gramsci era,
appunto, un campione tutto d’un pezzo della modernità), si ripercorrono le sue
categorie di “crisi organica” e di “blocco storico”, si guarda alla fortuna
straordinaria di cui gode in vari ambienti accademici e culturali anglosassoni
– che ne hanno agevolato perfino la riscoperta in madrepatria – si percepisce
nitidamente quanto il pensatore dei Quaderni vada ancor più letto in questa
nostra epoca di postdemocrazia (e di postpolitica). E, allora, scusate se è
poco…