Domenico Losurdo | È
noto che Gramsci saluta l’ottobre bolscevico come la «rivoluzione contro Il
capitale»: smentendo la lettura meccanicistica dell’opera di Marx, essa si era
verificata in un paese non compreso tra quelli capitalistici più avanzati. Meno
noto è il fatto che il rifiuto del dottrinarismo caratterizza anche la visione
gramsciana della costruzione dell’«ordine nuovo»: ne derivano insegnamenti
preziosi per una sinistra che voglia comprendere i processi in atto in paesi
quali Cina, Vietnam e Cuba.
Ritorniamo all’articolo già citato. Quali saranno le
conseguenze della vittoria dei bolscevichi in un paese arretrato e stremato
dalla guerra?: «Sarà in principio il collettivismo della miseria, della
sofferenza». Era uno stadio inevitabile, ma che doveva essere superato «nel
minor tempo possibile». Il socialismo non coincideva con l’«ascetismo
universale» e il «rozzo egualitarismo» criticati dal Manifesto del partito
comunista. Ben lungi dal ridursi alla ripartizione egualitaria della miseria,
il socialismo esigeva lo sviluppo delle forze produttive. È per conseguire
questo risultato che Lenin introduce la Nuova Politica Economica.
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Dai populisti la NEP viene subito letta quale sinonimo di
restaurazione del capitalismo. Non è questo il punto di vista di Gramsci che
nel 1926 osserva: la realtà dell’URSS ci mette in presenza di un fenomeno «mai
visto nella storia»; una classe politicamente «dominante» viene «nel suo
complesso» a trovarsi «in condizioni di vita inferiori a determinati elementi
e strati della classe dominata e soggetta». Le masse popolari che continuano a
soffrire una vita di stenti sono disorientate dallo spettacolo del «nepman
impellicciato e che ha a sua disposizione tutti i beni della terra». E,
tuttavia, ciò non deve costituire motivo di scandalo: il proletariato non può
né conquistare né mantenere il potere, se non è capace di sacrificare interessi
particolari e immediati agli «interessi generali e permanenti della classe».
Coloro che denunciano la NEP quale sinonimo di ritorno al capitalismo hanno il
torto di identificare ceto economicamente privilegiato e classe politicamente
dominante.
La resa dei conti col populismo nostalgico di un mondo
ancora al di qua della grande industria prosegue nei Quaderni del carcere:
nell’«americanismo e fordismo» vi è qualcosa che, una volta staccato dal
sistema capitalistico di sfruttamento, può svolgere una funzione positiva negli
stessi paesi socialisti. Anche per loro – per citare il Manifesto – è «una
questione di vita e di morte» l’introduzione di «industrie che non lavorano più
materie prime locali, bensì materie prime provenienti dalle regioni più remote,
e i cui prodotti diventano oggetto di consumo non solo all’interno del paese,
ma in tutte le parti del mondo».
Siamo ora in grado di comprendere le difficoltà dei paesi di
orientamento socialista. Essi sono chiamati a lottare non contro una bensì
contro due diseguaglianze: quella che vige all’interno del singolo paese,
l’altra che sancisce la preminenza economica, tecnologica (e militare) dei
paesi capitalistici più avanzati. La lotta contro le due diseguaglianze non può
procedere con un passo cadenzato.
Gramsci è l’autore che più di ogni altro ha insistito sul
carattere complesso e contraddittorio del processo di costruzione dell’«ordine
nuovo»: guardare a esso con saccenteria e lasciarsi sedurre dal «canto del
cigno» dell’Antico regime (che può essere talvolta di «mirabile splendore»),
tutto ciò significa delegittimare ogni rivoluzione.
Anche ai giorni nostri il populismo svolge un ruolo
negativo. Mentre a partire dalla Francia, nonostante la crisi e la recessione,
si diffonde il culto della «décroissance» caro a Latouche e in Italia anche a
Grillo, la sinistra occidentale guarda con diffidenza o ostilità a un paese come
la Repubblica popolare cinese, scaturita da una grande rivoluzione
anticoloniale e protagonista di un prodigioso sviluppo economico, che non solo
ha liberato diverse centinaia di milioni dalla fame e dalla degradazione ma che
finalmente comincia a mettere in discussione il monopolio occidentale della
tecnologia (e quindi le basi materiali dell’arroganza imperialista
Non c’è dubbio: il populismo è tutt’altro che morto. Ma è
proprio per questo che la sinistra ha bisogno della lezione di Gramsci.