
Sulle due sponde dell’Atlantico, Antonio Gramsci non ha mai
cessato di colloquiare con antropologi, filosofi e storici. Nelle Americhe,
come in Europa, a seguito delle opere di Edward Said e di Stuart Hall, di
Gayatri Spivak e di Dipesh Chakrabarty, il pensatore italiano è oggi
riconosciuto come il nume tutelare degli studi post-coloniali e di quelli
subalterni, le discipline che da almeno un ventennio popolano i dibattiti nelle
aule universitarie e che lentamente conoscono in Italia una certa diffusione
grazie all’intelligenza culturale, tra gli altri, di Sandro Mezzadra e Iain
Chambers.
A Napoli, dall’ 8 al 10 maggio, nell’Università
“L’Orientale”, si è svolto il convegno “Immaginare l’Europa nel mondo
postcoloniale” ideato da Giorgio Baratta. Il 9 maggio, in occasione della festa
dell’Europa, il convegno si è spostato per l’intera giornata all’Istituto
Italiano per gli Studi Filosofici.
“Gramsci e i sud del pianeta”, sottotitolo suggestivo che fotografa alcune letture gramsciane in Brasile (Carlos Nelson Coutinho), negli Stati Uniti (Joseph Buttigieg, Frank Rosengarten) e in Europa (Francisco Buey, Guido Liguori, Rita Medici, Pasquale Voza), intersecate con le analisi postcoloniali di Giuseppe Cacciatore, Renzo Imbeni, Iain Chambers, Junot Diaz, Ettore Finazzi Agrò, Rada Ivekovic, Domenico Jervolino, Antonio Melis, Laura Piccioni, Enrico Pugliese, Carlo Batà, Andréa Maria de Paula Teixeira, Sonia Torres, Gloria Wekker. Un convegno, quello organizzato dal network “Immaginare l’Europa”, dall’International Gramsci Society, dall’ “Orientale”, dall’Istituto per gli Studi Filosofici di Napoli, dalla Fondazione A. Ruberti e dall’Istituto C.L.R. James di New York, coordinato da G. Baratta, M.H. Laforest e A. Riccio, capace di interrogare un grande classico come un “testimone del presente” da punti di vista disciplinari molteplici, a testimonianza della straordinaria diffusione che il pensiero del filosofo italiano sta conoscendo in questi ultimi anni in tutto il mondo: un “mondo grande e terribile”, sottoposto a un’ondata neocoloniale, che ripropone la logica del dominio contro la civile convivenza di popoli e culture.
“Gramsci e i sud del pianeta”, sottotitolo suggestivo che fotografa alcune letture gramsciane in Brasile (Carlos Nelson Coutinho), negli Stati Uniti (Joseph Buttigieg, Frank Rosengarten) e in Europa (Francisco Buey, Guido Liguori, Rita Medici, Pasquale Voza), intersecate con le analisi postcoloniali di Giuseppe Cacciatore, Renzo Imbeni, Iain Chambers, Junot Diaz, Ettore Finazzi Agrò, Rada Ivekovic, Domenico Jervolino, Antonio Melis, Laura Piccioni, Enrico Pugliese, Carlo Batà, Andréa Maria de Paula Teixeira, Sonia Torres, Gloria Wekker. Un convegno, quello organizzato dal network “Immaginare l’Europa”, dall’International Gramsci Society, dall’ “Orientale”, dall’Istituto per gli Studi Filosofici di Napoli, dalla Fondazione A. Ruberti e dall’Istituto C.L.R. James di New York, coordinato da G. Baratta, M.H. Laforest e A. Riccio, capace di interrogare un grande classico come un “testimone del presente” da punti di vista disciplinari molteplici, a testimonianza della straordinaria diffusione che il pensiero del filosofo italiano sta conoscendo in questi ultimi anni in tutto il mondo: un “mondo grande e terribile”, sottoposto a un’ondata neocoloniale, che ripropone la logica del dominio contro la civile convivenza di popoli e culture.
Il titolo del convegno illumina una situazione molto
attuale: l’Europa, lacerata dal conflitto tra gli Stati pro-Usa alla Francia
con la Germania, che affronta la guerra infinita americana contro il terrorismo
e gli “Stati canaglia”, è alla ricerca di un’identità politica, oltre che
culturale. Quello europeo, con tutte le sue contraddizioni, è o può essere un
nuovo “cantiere della democrazia”, che però si scontra immediatamente contro il
volto oscuro dell’universalità della sua cittadinanza, capace di creare una
crescente segregazione istituzionale, sino a giungere alla guerra sociale
contro gli immigrati, ma anche contro tutti coloro che non hanno diritti.
Un’analisi della sua memoria “postcoloniale” può essere utile per elaborare un modello
di costituzione che sappia coniugare libertà ed uguaglianza, diritti
fondamentali e rappresentanza politica. Nei mesi del varo della nuova
costituzione europea molte sono invece le questioni irrisolte, il dibattito è
ormai incentrato sulle forme di governo capaci di rappresentare l’Europa come
un soggetto politico sulla scena mondiale, ma forse ancora troppo reticente
sulle forme sociali della convivenza tra popoli assai diversi.
Per Marie-Hélène Laforest, il post-coloniale va inteso non
solo come un “dopo” o come il ‘superamento del coloniale, ma come una
“interruzione critica” nel modo di narrare la storia. Sulla scia di Stuart
Hall, ha aggiunto che i testi del passato vanno quindi rivisitati per guardare
con occhi nuovi la storia del colonialismo che ha dato inizio alla modernità
occidentale. La gerarchia insita nelle divisioni centro e periferia, Nord e
Sud, che ha permesso all’europeo di costruire la sua identità a partire di un
senso di superiorità rispetto al resto del mondo, continua a essere un problema
annoso per coloro che hanno dovuto ricostruire la loro identità dalla
decolonizzazione in poi, nonché per tutti quelli, provenienti dagli ex imperi
che si trovano oggi in Europa, spinti verso nuovi margini. E tale è risultato
dagli interventi di Junot Diaz e di Gloria Wekker, la quale si è soffermata
sulla costituzione postcoloniale dell’Olanda, sistematicamente rimossa dalla
sua modernità multiculturale ufficialmente aperta all’assimilazione e
all’inclusione. Interrogativo fondamentale per chi s’interroga sull’ “identità”
europea, ammesso che sia possibile di parlare ancora di identità storiche
transnazionali, è quello di verificare in che modo il cuore del discorso
colonizzatore, il cristianesimo, ritorni nelle strutture costituzionali, come in
quelle relazionali. Famigerato è ormai l’esempio del Presidente della
Convenzione Giscard D’Estaing, il quale si è rifiutato di menzionare nel
preambolo della costituzione europea i cosiddetti “valori cristiani” che,
secondo Giovanni Paolo II, esprimerebbero “l’identità cristiana europea”, ma,
in un riflesso “postcoloniale” ha espresso indirettamente lo stesso
orientamento quando ha sostenuto che la Turchia, in quanto paese islamico, non
può appartenere all’Unione Europea.
Problema complesso, quello dell’identità. Lo ha affrontato
in maniera suggestiva Rada Ivekovic, secondo la quale quello dell’identità è un
processo di traduzione, sempre imperfetto, in continuo differimento.
Ispirandosi a Jean-François Lyotard, Rada Ivekovic ha esposto i lineamenti di un
lavoro che intreccia un’indagine sul mondo europeo e quello indiano. Ponendo
esempi concreti, ha dimostrato come l’identità sia un processo di transizione
(il concetto di “palanka” di R. Konstantinovic) con la sempre possibile, ma non
fatale violenza. In seguito ha svolto una comparazione tra il mondo
post-coloniale e quello post-socialista, individuando alcuni motivi comuni: i
processi di (de)legittimazione e depoliticizzazione massiccia, di perdita
di universalità riconosciuta. L’Europa si costituisce come centro, mentre ai
suoi bordi, in particolare nei Balcani (sui quali Rada Ivekovic ha scritto
volumi esemplari, tra tutti: Autopsia dei Balcani) lascia la guerra, le
divisioni nazionalistiche, il caos istituzionalizzato degli interventi di peace-keeping.
Ogni identità. Insomma, ha il suo “fuori”, per costituirsi compie un gesto,
quel “partage de la raison” che è alla base di tutte le divisioni ed, informa e
contribuisce a configurare altri tipi di identità, di esclusioni (o di
inclusioni subordinate, come nel caso delle donne), di egemonie, dominanze, che
è alla base della costituzione delle identità, della comunità (in particolare
della nazione), dello stato.
Sandro Mezzadra, autore di Diritto di fuga. Migrazioni,
cittadinanza, globalizzazione, ha discusso la tesi del convegno da un altro
punto di vista. La sua idea, di una storia postcoloniale dell’Europa, gli
permette di prefigurare, nelle nuove immigrazioni, un rovesciamento di ruoli
tra il vecchio centro e le nuove periferie, un’accelerazione della modernità
nei paesi post-coloniali grazie ad una globalizzazione dal basso, di cui Genova
e Porto Alegre sarebbero soltanto le anticipazioni.
L’idea dell’Europa nel mondo, i suoi tentennamenti, le sue
prospettive, sono state analizzate dal vicepresidente del Parlamento Europeo,
Renzo Imbeni, il quale ritiene che la dottrina Bush sia una sfida diretta alla
costruzione della nuova Unione. Quello di Bush sarebbe il tentativo di
riaffermare il dominio unipolare contro l’ipotesi europea del governo
multi-polare del mondo. La potenza americana guarda il mondo attraverso
un’ottica post-coloniale, oppure di un rinnovato neo-colonialismo? La domanda
di Imbeni è il risvolto simmetrico del j’accuse di Mezzadra contro l’Unione
Europea, una possibile interpretazione del tema del convegno.
Carlos Nelson Coutinho ha messo a confronto la dialettica
geostorica “Nord e Sud” con la categoria di “rivoluzione passiva” attraverso
“l’uso” di Gramsci, il processo di “occidentalizzazione” del mondo. In che modo
le “colonie” sono viste dai centri metropolitani, con quali immagini e, innanzi
tutto, in che modo sono formulate queste immagini? Antonio Melis ha parlato
dell’immagine che l’America Latina ha dato di se stessa, della sua
“colonialità”. José Martì, José Carlos Mariátegui. la teologia della
liberazione e la filosofia della liberazione, oltre che la letteratura, sono
nel corso del tempo le prove di una vitalità “antropofagica” del post-coloniale
che gli permette di appropriarsi della cultura europea, trasformandola in
tradizioni culturali autonome. Sono queste le dinamiche che scorrono lungo
l’Atlantico, incontrandosi sul crocevia di una mescolanza tra civiltà
interdipendenti. Ettore Finazzi Agrò ha definito questa mescolanza come un
“processo di transculturazione”, un processo che permette ai colonizzati di
assorbire l’identità dei colonizzatori, trasformandola secondo un uso ed una
prospettiva storica totalmente differente.
Frank Rosengarten, il curatore dell’edizione americana delle
lettere dal carcere, ha parlato di uno dei capisaldi degli studi post-coloniali
e subalterni, C.L.R. James, conosciuto in Italia per la storia dei Giacobini
Neri, l’insurrezione degli schiavi a Haiti contro la colonizzazione francese,
pubblicata da Feltrinelli nel 1968. Al centro della sua analisi, ci sarà “American
Civilization” di James, un singolare punto di vista “postgramsciano” sulla
nascita della civiltà imperiale statunitense scritto tra il 1948 e il 1950,
oltre che “Facing Reality”. È la nozione di “popolo” in Gramsci e James a
destare l’interesse di Rosengarten: si può affermare che questo concetto,
incardinato nella storia dello Stato-nazione europeo, sia stato “esportato”
negli Stati Uniti ed abbia preso nuovi significati. Gramsci non rinuncia mai al
ruolo del partito comunista nelle lotte popolari, mentre per James è il popolo
stesso, al di fuori di qualsiasi forma d’ingerenza dei partiti, a dare non solo
l'impulso, ma anche la direzione a queste lotte. Il nesso tra “centralismo
democratico” ed autodeterminazione popolare, querelle tradizionale che ha
diviso spesso i pensatori marxisti, è fondamentale per comprendere le lotte di
liberazione nazionale del XX secolo, ma anche le nuove dinamiche delle lotte
globali dopo la caduta del Muro di Berlino.
Speculare all’interrogazione sulla postcolonialità europea,
è quella sulla “europeità” dell’america. Per Alessandra Riccio l'America, così
come la conosciamo, esiste da che esiste la colonizzazione e di essa è il
frutto; si potrebbe addirittura sostenere che quella colonizzazione è stata una
delle prime forme della globalizzazione che ha trasformato la lingua e la
cultura delle periferie cui ha fatto seguito il disprezzo della cultura
colonizzata. L’immaginario postcoloniale europeo, vale a dire l’appartenenza
coloniale dei territori, e le differenze implicite, ha contato nella visione
eurocentrica della storia d’America, molto più di antiche comunanze
precolombiane. Oggi si tratta di rintracciare i molteplici canali in cui si
esprime il complesso intreccio transculturale tra Europa e America, contro la
dialettica semplificatrice e arretrata di scelta fra vecchio e nuovo mondo, fra
culture anglosassoni e culture latine.
È possibile seguire questo intreccio trans-culturale
attraverso un’opera di ricostruzione gramsciana, e postgramsciana, del legame
postcoloniale che lega l’America e l’Europa. Tuttavia, come ha suggerito nel
suo intervento Giorgio Baratta, non si può trascurare che la transculturalità
sia ormai un elemento consustanziale all’Europa attuale. Da qui l’interrogarsi
di alcuni intellettuali come Etienne Balibar e Jürgen Habermas sulla natura, e
la possibilità storica, di un “popolo europeo”. Per Giorgio Baratta, il popolo
europeo è, sia pure per motivi completamente diversi, altrettanto “disperso e
polverizzato” quanto quello italiano sia dell’epoca di Machiavelli sia di
Gramsci; altrettanto decisiva, per una costruzione dell’Europa non burocratica
o puramente istituzionale, appare la necessità politica di organismi capaci di
“suscitarne e organizzarne la volontà collettiva”, come anche, ha scritto
Balibar, la necessità operosa di “intellettuali sufficientemente ‘organici’,
cioè implicati personalmente e istituzionalmente (ivi compresa all’Università)
nella lotta per la trasformazione dell’Europa.
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