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Una premessa / Parlare attualmente di Gramsci e di socialismo sembra andare del tutto
controcorrente, dato il crollo dei paesi cosiddetti socialisti, e quella che è
stata definita “la fine della storia”[1], e cioè la presunta vittoria del
sistema capitalista a livello mondiale. Ma questo pone un problema importante
al quale si può riallacciare il pensiero e la figura di Gramsci. E’ fallito il
socialismo come modello di società, oppure sono fallite le due strade finora
intraprese per raggiungerlo, e cioè, da una parte, la rivoluzione armata,
violenta, utilizzata in Russia da Lenin, ed il riformismo, utilizzato
invece nei paesi occidentali?
L'ipotesi che sia vera questa seconda ipotesi, e che sia ancora aperta e da sperimentare la strada della rivoluzione nonviolenta dal basso, è stata sostenuta, con molte valide argomentazioni, da Giuliano Pontara[2], un obbiettore di coscienza italiano al servizio militare che ha preferito l’esilio in Svezia (dove è diventato esimio docente di filosofia morale) al carcere, allora previsto, in Italia, per coloro che rifiutavano di esercitarsi a fare la guerra.
L'ipotesi che sia vera questa seconda ipotesi, e che sia ancora aperta e da sperimentare la strada della rivoluzione nonviolenta dal basso, è stata sostenuta, con molte valide argomentazioni, da Giuliano Pontara[2], un obbiettore di coscienza italiano al servizio militare che ha preferito l’esilio in Svezia (dove è diventato esimio docente di filosofia morale) al carcere, allora previsto, in Italia, per coloro che rifiutavano di esercitarsi a fare la guerra.
Pontara è uno dei più profondi studiosi italiani del
pensiero gandhiano, ed autore di molti importanti libri su tematiche
nonviolente. La tesi di Pontara, presentata ad uno dei due dibattiti
organizzati dal Movimento Nonviolento, fondato da Aldo Capitini, su “Marxismo e
Nonviolenza nella transizione al socialismo” (cui hanno partecipato importanti
politici e studiosi del nostro paese) era quella che tra il voto ed il fucile
ci fosse una terza via al socialismo, rivoluzionaria nonviolenta (che lui
definisce di “nonviolenza specifica”) che avrebbe potuto, e potrebbe forse
ancora, portare il nostro paese ad un socialismo dal volto umano. Secondo
Pontara, infatti, la via rivoluzionaria armata era contro-produttiva
perché tendeva a de-umanizzare ed a brutalizzare i valori del socialismo, ed ad
insediare nei posti dirigenziali persone e gruppi autoritari che avrebbero
mantenuto il potere attraverso la soppressione delle informazioni, la
segretezza, l’irreggimentazione, l’eliminazione totale dell’autogestione del
popolo; la via riformista, quella del voto, era per lui insufficiente
perché costringeva la classe operaia ad annacquare notevolmente il programma
socialista per allearsi con il ceto medio necessario a vincere le elezioni. Il
ceto medio, a sua volta, avrebbe potuto poi allearsi con le forze di destra per
bloccare e distruggere quanto già fatto, senza che la classe operaia fosse
preparata ad una resistenza nonviolenta di fronte a questa restaurazione. Per
Pontara perciò la via più valida era quella della rivoluzione nonviolenta, mai
purtroppo ancora realizzata, perché questa tende ad inibire nell’avversario
quei processi sociali e psicologici che lo portano a de-umanizzare il nemico, e
tende a ridurre il processo di scalata della violenza. Ma, secondo Pontara, la
scelta di questa via richiede l’accettazione di cinque principi: 1) non causare
la morte o gravi sofferenze all’avversario; 2) assumere su di sé i sacrifici
necessari a portare avanti la propria causa; 3) mantenere, in tutte le fasi, la
massima obbiettività ed imparzialità, il massimo controllo da parte dei
partecipanti, e la non clandestinità; 4) allargare la partecipazione anche
grazie ad un programma costruttivo che ricerchi obbiettivi sovra-ordinati che
richiedono, per il loro raggiungimento, la collaborazione delle parti in
conflitto; 5) graduare i mezzi di lotta: arrivare alla scelta di quelli più
radicali (come la disobbedienza civile o il boicottaggio) solo quando quelli
più blandi si sono dimostrati chiaramente insufficienti.
Norberto Bobbio, che è stato uno degli interlocutori
privilegiati di questi dibattiti, ha sostenuto la validità e l’importanza di
queste tesi ed ha scritto: “La ‘complementarietà’ della nonviolenza rispetto al
marxismo è stata la tesi che ha finito per emergere e che merita di essere
considerata come il punto di partenza di ulteriori discussioni”[3]. Ed infatti
da quei primi dibattiti ne sono nati vari altri sulla terza via al socialismo
che però, più che discutere sulla via di trasformazione, e sul collegamento ed
i rapporti tra la via utilizzata per la trasformazione ed il modello di società
realizzato, come nei nostri convegni, hanno parlato solo del modello
riformista, come realizzato in certi paesi europei come l’Inghilterra e
l’Italia, considerandolo come una terza via al socialismo tra il capitalismo ed
il comunismo sovietico. In un articolo sulla Stampa di Torino Norberto Bobbio
si è lamentato che questi dibattiti, successivi al nostro (sul marxismo e lo
stato, sul leninismo, sulla terza via al socialismo), dibattiti che qualcuno ha
definito “litigio a sinistra”, non abbiano tenuto in alcun conto quelli
precedenti del Movimento Nonviolento e che, perciò, per questa mancanza, siano
stati molto più poveri di quello che avrebbero potuto essere altrimenti.
Infatti, rispetto alla cosiddetta alternativa del modello riformista ed al suo
considerarsi come una terza via, il Movimento Nonviolento ha scritto, nella
introduzione degli atti del primo dei convegni su citati:
“Il problema dell’uso della violenza o della nonviolenza nella transizione al socialismo è stato sottovalutato dalla sinistra che ha ritenuto, a torto, il problema dei metodi come secondario rispetto a quello della conquista del potere…… L’esperienza storica ha dimostrato “ad abundantiam” come le modalità con cui si arriva al potere sono una variabile fondamentale anche del come tale potere viene mantenuto e gestito e che perciò un “socialismo dal volto umano” necessita di un modo di arrivare al potere diverso dalla rivoluzione armata, ma forse diverso anche dal semplice uso dell’arma elettorale……Resta perciò aperto il problema di una via originale di transizione al socialismo che non si identifichi né con la tradizionale via riformistica dei paesi a capitalismo avanzato (che spesso si è limitata a razionalizzare il sistema senza trasformarlo profondamente) né con quello della rivoluzione armata portato avanti nei paesi del terzo mondo (che spesso danno vita a regimi dittatoriali e totalitari e non a quella nuova forma di società intravista da Marx, Lukačs, Gramsci e altri autorevoli marxisti)”[4].
Da questo punto di vista la figura ed il pensiero di Gramsci
è fondamentale per sviluppare questo tema dato che le sue idee possono dare
attualità al progetto di una rivoluzione nonviolenta nel nostro paese, che deve
ancora essere fatta, con la speranza di dar vita ad un socialismo dal volto
umano, autogestito, e anti-autoritario, come quello che si era tentato di
realizzare, ai tempi della primavera di Praga, da parte di Dubcek e di altri
socialisti democratici[5], ma che è stato ucciso ai suoi albori dai carri armati
sovietici, non senza una bellissima resistenza nonviolenta durata circa otto
mesi che ha portato molti militari russi a solidarizzare con i resistenti
locali, ed ha convinto il governo russo a cambiare rapidamente i loro militari
che occupavano quel territorio per paura che diventassero pericolosi, una volta
tornati in Russia, per il mantenimento dello stesso regime[6].
La mia introduzione al dibattito di Ghilarza
La mia introduzione al dibattito di Ghilarza
Questa parte del mio scritto riprende ed aggiorna una
relazione fatta da me il 24 settembre 1992 presso la Torre Aragonese di
Ghilarza in un incontro su “Gramsci e la nonviolenza” organizzato dalla Casa
per la Pace e dalla Casa Gramsci di Ghilarza, all’interno delle manifestazioni
per il mese della cultura di quella cittadina. Oltre al sottoscritto, che aveva
avuto l’incarico di introdurre il dibattito, partecipavano due profondi
conoscitori del pensiero gramsciano Don Giorgio Nardone[7] di Padova, autore,
tra l’altro, di un bel libro sulla figura di Gramsci, libro che era una
rielaborazione della sua tesi di laurea seguita da Norberto Bobbio, e Sergio
Caprioglio[8], curatore degli scritti torinesi di Gramsci pubblicati da
Einaudi, ed allora Direttore del Centro Gramsci di quella città. Dato però il
tanto tempo passato da quell’incontro, la cui registrazione ufficiale era stata
perduta e solo recentemente ne è stata trovata una non ufficiale che però,
essendo stata registrata non abbastanza da vicino, in certe parti è quasi
incomprensibile, questa relazione e tutto il dibattito è restato inedito. Qui
mi limiterò a riprendere e sviluppare le mie tesi di allora, aggiornandole
anche sulla base di altre letture, riportando, dell’intervento di Caprioglio,
l’unico, oltre al mio, che siamo riusciti a deregistrare, solo per quanto
necessario a comprendere le sue tesi e le risposte e precisazioni da me date in
quella occasione, od anche sviluppate in seguito. Sarebbe comunque necessario
che tale dibattito, iniziato in quella occasione, venisse ripreso ed
approfondito dati i molti problemi ancora aperti che il trattamento di questo
argomento chiederebbe di approfondire.
L’amore per il pensiero e la figura di Gramsci mi era stato
trasmesso, mentre lavoravo come volontario nel progetto di Dolci in Sicilia, da
un industriale fiorentino Giuseppe Ganduscio che costruiva apparecchi di alta
precisione per l’ascolto di musica, che aveva lasciato la sua industria bene
avviata ai suoi operai per tornare nella sua terra natale, la Sicilia, per
lavorare anche lui come volontario nel progetto Dolci. Questo industriale, che raccoglieva
e cantava anche i canti tradizionali (di amore, del lavoro, della galera,e
ninne-nanne) del suo paese, registrati in un bel disco pubblicato dalla
Ricordi, faceva a tutti i volontari, che venivano da varie parti d’Italia e non
conoscevano quasi niente della cultura locale, lezioni sulla storia della sua
regione. Queste verranno più tardi pubblicate in un aureo libretto: “Perché il
Sud si ribella”[9], tutto ispirato al pensiero gramsciano dell’importanza, per
una rivoluzione sociale nel nostro paese, di una stretta alleanza tra Sud e
Nord, tra contadini ed operai. E lui, che fin da giovanissimo era iscritto al
Partito Comunista Italiano, si lamentava che nelle sezioni del partito le foto
di Gramsci erano state eliminate perché le sue idee venivano considerate
contrarie all’impostazione allora ufficiale del partito (che non criticava,
come faceva Gramsci, il regime comunista come si era concretizzato nei paesi
dell’Est Europa, ed in particolare nella Russia Sovietica). Ganduscio, proprio
sulla base delle sue idee gramsciane, si autodefiniva marxista-nonviolento, e
le sue lezioni ed il suo esempio, hanno portato anche me ad amare Gramsci, al
desiderio di leggerlo, ed ad utilizzare le idee gramsciane anche per l’analisi
della società attuale e dei suoi possibili cambiamenti e miglioramenti.
Devo dire comunque che gli scritti di Gramsci che mi hanno
colpito di più e che mi hanno molto influenzato sono le sue “Lettere dal
Carcere”[10], ed i suoi “Quaderni del Carcere”[11], dai quali traspare, secondo
la mia opinione, il Gramsci più vero e più umano, ed anche quello dove la sua
vicinanza con la nonviolenza è più chiara ed esplicita. Ed infatti è proprio
durante il suo lungo periodo nel carcere che Gramsci è venuto a conoscere il
pensiero e la vita di Gandhi. Un noto scrittore francese, Romain Rolland,
premio Nobel per la letteratura, autore tra l’altro di un noto libro
antimilitarista “Al di sopra della mischia”[12], aveva scritto una vita ed una
analisi del pensiero di Gandhi[13]. Essendo egli stesso anche l’animatore di un
comitato francese per la liberazione dal carcere di Gramsci chiese ed ottenne
il permesso di visitarlo nel carcere e gli portò in regalo una copia del suo
libro. Dai quaderni del carcere risulta che Gramsci, forse proprio grazie alla
lettura di quel libro, conosceva Gandhi e ne parla varie volte, qualche volta,
è vero anche con toni un po’ ironici, che però, alla fine, si trasformano in
una grossa simpatia per quel tipo di lotta che lui definisce come “il materasso
contro le pallottole”, una resistenza a lungo termine portata avanti da Gandhi
attraverso le lotte nonviolente, che non è una resistenza armata, ma una
resistenza a base morale. Da una lettura di testi di Gramsci, e su Gramsci, ho
individuato sette ipotesi che mi sembra colleghino, o che possano collegare, il
pensiero di Gramsci non solo alla nonviolenza in generale, ma, in particolare,
a quella che potrebbe, e dovrebbe essere, la rivoluzione nonviolenta ancora da
fare in Italia. A queste idee si è ricollegato più tardi anche Aldo Capitini,
il fondatore del Movimento Nonviolento Italiano, che, su questo aspetto si è
dichiarato espressamente allievo di Gramsci[14]. Ma su questo torneremo in
seguito.
Ma vediamo queste sette ipotesi che spero possano servire ad
aprire un dibattito che porti ad approfondirle, ad approvarle oppure a
rigettarle. Essendo infatti un metodologo della ricerca tendo a iniziare le mie
ricerche con delle ipotesi che sono un primo punto di partenza da mettere in
discussione e che, se vengono confermate, andranno in seguito sviluppate
ulteriormente, ed eventualmente approfondite.
La prima ipotesi è quella che un iniziale collegamento tra
Gramsci e la nonviolenza sia la grande importanza data da lui alla politica
come atto morale, una politica cioè legata ai valori etici, alla verità[15],
alla auto-disciplina. Quando si leggono, infatti, le frasi di Gramsci
sull’importanza della verità e della disciplina anche per l’autoformazione
delle persone, ritornano in mente frasi abbastanza simili di Gandhi, che, pur
partendo da principi filosofici e politici abbastanza diversi, arriva però a
conclusioni molto vicine. La politica come atto morale implica anche un impegno
etico che porta ad unire ragione e passione, e fa riferimento all’esistenza di
un essere umano complessivo, formato di mente, anima e corpo, tutti
interconnessi ed interagenti. Questa mi sembra una prima pista molto
interessante sulla quale lavorare e da approfondire.
Una seconda ipotesi è quella che riguarda la concezione del
popolo e dell’essere umano che Gramsci aveva: egli non credeva nell’ “uomo
massa”, egli aveva una immagine dell’uomo come essere individuale legato, e
collegato, strettamente agli altri esseri umani attraverso continui rapporti di
interconnessione. E dalla sua lettura emerge chiaramente l’importanza del
singolo essere umano e la necessità di formare gli uomini a sentirsi tutti
responsabili di quanto avviene in questo mondo. Questo ricorda moltissimo certe
frasi di Don Milani, sull’importanza di educare i giovani a superare il
fascistico “Me ne frego”, tanto diffuso, purtroppo, anche oggi, tra i giovani,
per portarli invece a capire la bellezza dell’“ I care”, dell’importanza che
tutti gli uomini si sentano responsabili di tutto[16]. Connesso a questo c’è in
Gramsci anche la coscienza che la passività dell’uomo è uno degli elementi che
determina negativamente la storia, perché, in questo caso, si lascia fare la
storia agli altri, a quelli che hanno beni ed interessi. Da qui la necessità
che gli esseri umani, soprattutto quelli che fanno parte della classe operaia,
prendano coscienza del loro stato e delle ragioni che lo determinano, diventino
attivi, operino per liberarsi dal loro giogo, e non accettino di essere uomini
massa. Ma questo sottolinea anche la necessità di superare le concezioni
meccanicistiche ed evoluzionistiche, presenti anche in certe scuole marxiste,
che fanno ritenere che il comunismo sarebbe stato il naturale sviluppo del
progresso capitalistico, e che perciò vedono la storia quasi determinata da
forze poco controllabili dall’uomo, mentre, secondo Gramsci, è l’uomo stesso
che può e deve costruire la propria storia. Mi sembra questa un’altra pista,
un’altra ipotesi, veramente importante, su cui questo collegamento tra Gramsci
e la nonviolenza si può ritrovare.
La terza ipotesi è quella del legame tra costruzione e
distruzione, che si potrebbe anche chiamare dell’importanza del progetto
costruttivo. Scrive Gramsci: “E’ distruttore-creatore chi distrugge il vecchio
per mettere alla luce, far affiorare, il nuovo che è diventato necessario ed
urge implacabilmente al limitare della storia. Perciò si può dire che si
distrugge in quanto si crea”[17]. Da questa si evince che il mondo nuovo si
costruisce all’interno del vecchio mondo e, che, man mano che nasce quello
nuovo, a poco a poco il vecchio crolla, e si distrugge. Da questa impostazione
emerge, tra l’altro, l’importanza degli aspetti strategici, progettuali ed
anche la centralità del processo educativo, del prepararsi ad essere uomini
liberi, della necessità di costruire una nuova classe dirigente, un nuovo
gruppo che non aspetti la palingenesi, il cambiamento subitaneo ed improvviso
di tutta la realtà, la rivoluzione vista come azione improvvisa, ma che, senza
aspettare questo fatidico giorno, cominci da subito a trasformare la realtà nel
senso desiderato, dando vita appunto a quegli aspetti innovativi che, come
accennato prima nella citazione di Gramsci, porteranno alla crescita della
società nuova ed alla morte di quella vecchia. Da questo punto di vista è
importante ricordare un punto centrale della visione gramsciana riportata da
Ganduscio nel suo libretto citato. Ganduscio distingue tra “rivoluzione” e
“ribellione”: la prima è un cambiamento della società programmato e studiato
strategicamente, anche se non necessariamente fatto di colpo, ma avendo già una
idea del tipo di società che si vuole mettere in vita al posto di quella
attuale; la seconda invece è un cambiamento subitaneo, ma senza alcuna visione
strategica del tipo di società che si vuole mettere al posto di quella vecchia.
Quelle che conosciamo come rivoluzioni sono spesso state più delle ribellioni
che delle rivoluzioni vere e proprie. Queste idee di Gramsci fanno venire in
mente il grande lavoro fatto, anche qui in Sardegna, da gruppi di base che sono
tornati a coltivare la terra, spesso abbandonata per l’esodo rurale verso la
città e verso l’industria, e che la coltivano in modo ecologico, che non
distruggono la terra attraverso concimi chimici che l' inquinano, e che
contribuiscono ad accrescere “l’impronta ecologica”[18] già troppo alta per la
sopravvivenza dell’intera umanità; oppure quelli che, attraverso i GAS (gruppi
di acquisto solidali), mettono i produttori ed i consumatori insieme per
superare l’elevata speculazione dei molti commercianti che rendono attualmente
difficile la vita sia ai produttori che ai consumatori, e che non sono
interessati alla qualità dei prodotti ma solo al proprio guadagno; ed a tutti
quei gruppi o associazioni che, dal basso, lavorano per rendere il nostro mondo
più giusto e meno violento, ad esempio dando vita a fondi etici che, come la
Banca dei poveri di Yunus[19], diano i fondi ai più poveri e più bisognosi e
non ai più ricchi, come fanno invece normalmente le banche, ecc. ecc. Tutte
attività, queste, che cercano di dar vita ad una società basata sulla
solidarietà e sulla equità, alternativa a quella attuale basata invece sullo
sfruttamento e sulla priorità del mercato, che sta rapidamente aumentando la
ricchezza dei più fortunati e la miseria dei più poveri. Sono queste attività
innovative, per fortuna abbastanza diffuse anche in Sardegna, che sono in linea
con il progetto costruttivo[20] previsto nella strategia nonviolenta e nel
pensiero di Gramsci. Ma questo mi ricorda anche la discussione all’interno dei
movimenti nonviolenti sulla ricerca di metodi decisionali consensuali, che
coinvolgono realmente tutti, come cercava di fare anche Gramsci. Egli infatti
rifiutava le decisioni prese dall’alto, dal centro; e si dava da fare per
costruire un partito non basato sulla dirigenza centralizzata ed autoritaria,
ma che avesse, invece, continui rapporti con la base, e ricercasse il consenso
e l’accordo. Ed anche i movimenti nonviolenti hanno ricercato un metodo
decisionale consensuale, che sono stati poi quelli che, applicati, per esempio,
nelle lotte di Comiso contro l’impianto dei missili Cruise in quella base,
hanno influito sull’abbandono di quel progetto e sulla riconversione della base
militare in aeroporto civile, od anche nelle lotte di Genova contro la “Mostra
dei Mostri”, e cioè contro la mostra vendita di armi, che hanno costretto i
venditori a trasferire il loro commercio su una nave militare attraccata in
mezzo al mare. Questi processi decisionali sono più lunghi, e più difficili, ma
dato che coinvolgono tutti nella decisione, portano anche, di conseguenza, un
impegno maggiore della popolazione nel superare le difficoltà che si incontrano
nel realizzare queste stesse decisioni, come è avvenuto, appunto, nelle lotte
su citate che hanno visto il coinvolgimento di migliaia ed anche centinaia di
migliaia di persone, e grazie a questo coinvolgimento, hanno potute essere
vincenti[21]. Questa è un'altra delle ipotesi, che mi sembra valga la pena di
essere sviluppata, che conferma l’apertura di Gramsci verso le tematiche, e le
modalità di lotta, della nonviolenza.
La quarta ipotesi è strettamente connessa a quella che
abbiamo appena veduto, ed è l’importanza data da Gramsci alla guerra di
posizione, invece di quella di movimento. Una guerra cioè vista non come uno
scontro frontale, ma con continui processi molto lunghi di prese di posizione,
di conquista o costruzione delle famose “casematte”, come avamposti della
società da costruire in mezzo a quella vecchia da distruggere. E’ questo tipo
di lotta e di guerra, appunto di posizione, con avanzamenti e sconfitte, ma con
altri avanzamenti, fino alla trasformazione sociale completa, che Gramsci vede
come fondamentale in un tipo di società come la nostra, dei paesi occidentali
avanzati ed anche, spesso solo a parole, democratici. Anche su questo le molte
pagine degli scritti di Gramsci sono estremamente interessanti, e richiamano la
nonviolenza, e la sua strategia di trasformazione della società attuale, una
strategia rivoluzionaria, sì, ma senza violenza, che porta avanti la lotta con
un principio di gradualità, da lotte di intensità minore ad altre sempre più
grandi, fino alla totale trasformazione sociale della realtà nella quale
viviamo. Dalla lettura dei testi gramsciani, ma in particolare delle “Lettere
dal Carcere” e dai “Quaderni del Carcere” ho tratto l’impressione che il
discorso sulla guerra di posizione, e cioè di una strategia nonviolenta di
trasformazione sociale, sia andato aumentando in Gramsci dall’inizio del suo
imprigionamento verso la fine della sua vita[22]. E’ questo, della guerra di
posizione, un altro filone, un’altra ipotesi importante del rapporto tra
Gramsci e la nonviolenza.
La quinta è l’ipotesi dell’importanza dell’organizzazione di base, e del controllo dal basso, che è quella che si può chiamare la rivoluzione dal basso, e che cioè Gramsci, in tutto il suo pensiero, tenga a sottolineare l’importanza dell’organizzazione di base, dei gruppi e dei consigli operai, dei vari organismi di base. E quindi l’importanza di un basso che si organizza, per creare una nuova società, e mettere, sia pur gradualmente, fine alla vecchia società capitalistica e sfruttatrice. Dando vita ad una specie di contro-potere di base che poi, a poco a poco, riuscisse ad impregnare e trasformare tutta la società. Questa idea gramsciana è stata arricchita, in seguito, da Aldo Capitini (il fondatore del Movimento Nonviolento Italiano e l’organizzatore della Marcia per la Pace Perugia-Assisi), che considerava Gramsci suo maestro. Capitini è la persona che ha portato in Italia il pensiero gandhiano già durante il fascismo, attraverso un libro “Elementi di una esperienza religiosa”[23], che illustrava e promuoveva, anche nel nostro paese, la rivoluzione nonviolenta sulla scia della esperienza di Gandhi in India. Il libro passò alla censura perché il regime fascista aveva appena firmato il concordato con la Chiesa Cattolica, e dato che nel titolo si parlava di religione, il regime si sentiva forte e riteneva che la religione non potesse in alcun modo nuocergli. Capitini, parlando di questo fatto, ha sostenuto che questo è un segno molto negativo per la religione, perché questa non viene vista come una forza di trasformazione, come, secondo Capitini, dovrebbe essere, ma solo come una forza conservatrice. Capitini, riprendendo alcune idee di Gramsci, fonda un giornale “il potere è di tutti”, con il quale cercava di educare alla partecipazione attiva i contadini, gli operai, gli studenti, affinché organizzassero, nelle scuole, nelle fabbriche, nelle campagne, degli organismi di base che dovevano essere gli elementi fondamentali per creare una società diversa[24] E questo ha portato anche all’organizzazione, da parte di Capitini, dei COS, Centri di Orientamento Sociale, che erano appunto dei centri di informazione e discussione pubblica, nati originariamente nella città di Perugia, ma che si sono poi diffusi in tutta Italia. In questi si presentavano e si discutevano, da una parte, i temi di amministrazione locale, invitando anche gli amministratori a discuterne con il pubblico perché si facessero certe cose, o delle ragioni del perché non si facevano altre cose, e così via. Ma dall’altra parte anche, in modo alternato, i problemi mondiali, il perché delle guerre in corso o in preparazione, e su cosa si poteva fare per evitarle, e così via. E questo con l’idea, che è sempre molto attuale, che è importante interessarsi dei problemi locali, ma che bisogna sempre avere presente i loro collegamenti con i problemi mondiali. Capitini, nei COS, dedicava spesso del tempo alla conoscenza di Gramsci e del suo pensiero dato che, come abbiamo visto, vedeva Gramsci come suo ispiratore per questo tipo di attività. La teoria del potere di Capitini aveva stretti collegamenti con quella di Gramsci, che è, anche, la teoria del potere alla base della nonviolenza. Questa sostiene che non esiste tutto il potere al centro e nessun potere alla base, ma che, ognuno di noi, ognuno dei cittadini, ha un briciolo di potere, e che, se prende coscienza del proprio potere, se riesce ad organizzarsi, a collegarsi con altri gruppi nella stessa condizione, a diventare attivo e non passivo, anche attraverso l’azione diretta nonviolenta, se riesce a fare bene questo lavoro, il potere di chi lo detiene attualmente diminuisce e diventa sempre meno forte, e che, se questo movimento di sviluppo del potere dal basso si accresce e si allarga, quello dall’alto rischia di indebolirsi ed anche di crollare[25].
La quinta è l’ipotesi dell’importanza dell’organizzazione di base, e del controllo dal basso, che è quella che si può chiamare la rivoluzione dal basso, e che cioè Gramsci, in tutto il suo pensiero, tenga a sottolineare l’importanza dell’organizzazione di base, dei gruppi e dei consigli operai, dei vari organismi di base. E quindi l’importanza di un basso che si organizza, per creare una nuova società, e mettere, sia pur gradualmente, fine alla vecchia società capitalistica e sfruttatrice. Dando vita ad una specie di contro-potere di base che poi, a poco a poco, riuscisse ad impregnare e trasformare tutta la società. Questa idea gramsciana è stata arricchita, in seguito, da Aldo Capitini (il fondatore del Movimento Nonviolento Italiano e l’organizzatore della Marcia per la Pace Perugia-Assisi), che considerava Gramsci suo maestro. Capitini è la persona che ha portato in Italia il pensiero gandhiano già durante il fascismo, attraverso un libro “Elementi di una esperienza religiosa”[23], che illustrava e promuoveva, anche nel nostro paese, la rivoluzione nonviolenta sulla scia della esperienza di Gandhi in India. Il libro passò alla censura perché il regime fascista aveva appena firmato il concordato con la Chiesa Cattolica, e dato che nel titolo si parlava di religione, il regime si sentiva forte e riteneva che la religione non potesse in alcun modo nuocergli. Capitini, parlando di questo fatto, ha sostenuto che questo è un segno molto negativo per la religione, perché questa non viene vista come una forza di trasformazione, come, secondo Capitini, dovrebbe essere, ma solo come una forza conservatrice. Capitini, riprendendo alcune idee di Gramsci, fonda un giornale “il potere è di tutti”, con il quale cercava di educare alla partecipazione attiva i contadini, gli operai, gli studenti, affinché organizzassero, nelle scuole, nelle fabbriche, nelle campagne, degli organismi di base che dovevano essere gli elementi fondamentali per creare una società diversa[24] E questo ha portato anche all’organizzazione, da parte di Capitini, dei COS, Centri di Orientamento Sociale, che erano appunto dei centri di informazione e discussione pubblica, nati originariamente nella città di Perugia, ma che si sono poi diffusi in tutta Italia. In questi si presentavano e si discutevano, da una parte, i temi di amministrazione locale, invitando anche gli amministratori a discuterne con il pubblico perché si facessero certe cose, o delle ragioni del perché non si facevano altre cose, e così via. Ma dall’altra parte anche, in modo alternato, i problemi mondiali, il perché delle guerre in corso o in preparazione, e su cosa si poteva fare per evitarle, e così via. E questo con l’idea, che è sempre molto attuale, che è importante interessarsi dei problemi locali, ma che bisogna sempre avere presente i loro collegamenti con i problemi mondiali. Capitini, nei COS, dedicava spesso del tempo alla conoscenza di Gramsci e del suo pensiero dato che, come abbiamo visto, vedeva Gramsci come suo ispiratore per questo tipo di attività. La teoria del potere di Capitini aveva stretti collegamenti con quella di Gramsci, che è, anche, la teoria del potere alla base della nonviolenza. Questa sostiene che non esiste tutto il potere al centro e nessun potere alla base, ma che, ognuno di noi, ognuno dei cittadini, ha un briciolo di potere, e che, se prende coscienza del proprio potere, se riesce ad organizzarsi, a collegarsi con altri gruppi nella stessa condizione, a diventare attivo e non passivo, anche attraverso l’azione diretta nonviolenta, se riesce a fare bene questo lavoro, il potere di chi lo detiene attualmente diminuisce e diventa sempre meno forte, e che, se questo movimento di sviluppo del potere dal basso si accresce e si allarga, quello dall’alto rischia di indebolirsi ed anche di crollare[25].
La sesta ipotesi, è il superamento dell’ idea di dittatura
del proletariato in quella di egemonia. L’egemonia è un concetto che
include anche momenti consensuali, di condivisione da parte di tutti i gruppi,
non solo del gruppo egemone, il che implica un forte lavoro per convincere gli
altri delle proprie idee e dei propri punti di vista. Il concetto di “egemonia
culturale della classe operaia” di cui parla Gramsci, viene considerato molto
importante da Capitini il quale scrive:
“Se sul piano politico deve formarsi la volontà collettiva per la trasformazione sociale, il Gramsci vede che sul piano culturale occorre una riforma intellettuale e morale, con una nuova concezione del mondo, e questa riforma molto più complessa è riforma 'in senso forte'” [26].
E Capitini, rispetto al concetto di egemonia, appoggia la tesi di Bobbio:
“Bobbio. ...sottolinea l'importanza del consenso nel pensiero di Gramsci che si estrinseca anche nel concetto di egemonia intesa non solo come direzione politica, ma anche come direzione culturale, e che include, ma non si identifica, con l'uso della forza (vista come strumentale e subordinata all'egemonia) che ha una estensione maggiore e comprende anche la direzione culturale, cioè la formazione del consenso, oltre la direzione politica”ed ancora: “ ..mette al centro del processo rivoluzionario non il numero di persone, non la forza bruta, ma la capacità di elaborazione culturale”[27].
Ed infatti l’egemonia non si identifica né si esaurisce nella forza, specie di
quella bruta di tipo poliziesco e militare messa in atto nell’Unione Sovietica
da parte di Stalin. Questo porterà Gramsci al rifiuto, in modo molto netto, e
alla condanna dello stalinismo, posizione che, data l’impostazione dell’allora
Partito Comunista, lo metterà spesso in difficoltà all’interno del partito da
lui stesso fondato, e per l’adesione al quale verrà anche messo in carcere.
Una ultima ipotesi, più gramsciana che nonviolenta, dalla quale i movimenti nonviolenti hanno tutto da imparare, è quella del superamento della mitizzazione della classe operaia, tradizionalmente intesa come gli operai delle grandi industrie dei paesi sviluppati, come leva principale del processo rivoluzionario. Questo avrebbe dovuto avvenire, perciò, nei paesi e nelle zone industrialmente più forti, come in realtà non è affatto avvenuto. Questa teoria metteva ai margini, in questo processo, i contadini del mezzogiorno ed i popoli dei paesi non industrializzati, nei quali, invece, molte volte ci sono stati movimenti rivoluzionari ispirati al socialismo. Uno dei punti essenziali dell’insegnamento gramsciano, che può permettere di superare il distacco tra il marxismo dei paesi occidentali e quello terzomondista, era quello di trovare punti di accordo ed una strategia rivoluzionaria comune tra operai e contadini, tra Nord e Sud[28].
Una ultima ipotesi, più gramsciana che nonviolenta, dalla quale i movimenti nonviolenti hanno tutto da imparare, è quella del superamento della mitizzazione della classe operaia, tradizionalmente intesa come gli operai delle grandi industrie dei paesi sviluppati, come leva principale del processo rivoluzionario. Questo avrebbe dovuto avvenire, perciò, nei paesi e nelle zone industrialmente più forti, come in realtà non è affatto avvenuto. Questa teoria metteva ai margini, in questo processo, i contadini del mezzogiorno ed i popoli dei paesi non industrializzati, nei quali, invece, molte volte ci sono stati movimenti rivoluzionari ispirati al socialismo. Uno dei punti essenziali dell’insegnamento gramsciano, che può permettere di superare il distacco tra il marxismo dei paesi occidentali e quello terzomondista, era quello di trovare punti di accordo ed una strategia rivoluzionaria comune tra operai e contadini, tra Nord e Sud[28].
L’intervento di Caprioglio e le mie
conclusioni
Le mie ipotesi non hanno molto convinto il Dott. Caprioglio
che ha dichiarato che, quando ha ricevuto l’invito, non ha nascosto le sue
perplessità nel vedere accostato il pensiero di Gramsci a quello di Gandhi e di
Tolstoj, e dichiara perciò di aver scelto, in questo dibattito, di fare
l’avvocato del diavolo, sostenendo la tesi contraria alla mia, e cioè che il
pensiero di Gramsci non ha nulla a che vedere con la nonviolenza. Infatti, secondo
lui, Gramsci è strettamente ancorato al pensiero di Marx, ed influenzato anche
da quello di Sorel, e pur utilizzando le armi della critica sosteneva anche la
critica delle armi ed accettava l’assioma che la violenza è la levatrice
della storia. Secondo Caprioglio, infatti, la cultura nella quale Gramsci era
immerso, e che aveva accettato, era una cultura violenta di origine hegeliana:
per lui l’emancipazione dei lavoratori, per la quale lottava e alla quale aveva
dedicato la propria vita, non avrebbe potuto avvenire senza violenza. Ed a
proposito dell’accettazione, da parte di Gramsci, della violenza come fatto
naturale e necessario Caprioglio ricorda un articolo scritto da Gramsci, il 6
aprile 1918, sull’ultimo tentativo che fece l’esercito tedesco per sfondare il
fronte e vincere la prima guerra mondiale, articolo che si conclude con questa
affermazione: “nella storia ogni fusione
di civiltà per il perverso destino degli uomini ha sempre avuto bisogno di
questi carnai sterminati e di queste cementazioni cruente” [29]. E
commentando questo dice Caprioglio: “Questa è una frase violenta, qui Gramsci
sta dichiarando apertamente la positività della violenza”. Ed in rapporto
all’opinione su Stalin egli sostiene che Gramsci aveva espresso un parere
positivo sul piano quinquennale staliniano, e che, forse, l’atteggiamento di
Gramsci verso questo personaggio era mutato negli ultimi tempi soprattutto di
fronte ai grandi processi staliniani dell’anno 1936, nei quali le confessioni
degli imputati erano chiaramente estorte. Ed in rapporto alla nonviolenza,
sempre secondo questo relatore, Gramsci, parlando di Gandhi e Tolstoj,
considerava le loro come teorizzazioni ingenue. Secondo Caprioglio,
infatti, Gramsci colloca queste posizioni accanto alla tattica irlandese, para-terroristica,
considerandole tattiche di resistenza passiva che riconosceva potessero essere
state valide per l’India contro la dominazione inglese, ma che non erano,
secondo lui, né una teoria né una filosofia generalizzabile. E Gramsci,
inoltre, critica anche altri personaggi pacifisti, come Teodoro Moneta, che è
stato uno dei primi premi Nobel per la pace, ma che poi, durante la prima
guerra mondiale, si è dichiarato a favore dell’interventismo. Gramsci, inoltre,
considera il pacifismo come una invenzione del Capitale per farsi credere
migliore di quanto sia ma che, quando gli fa comodo, non ha ritegno a fare le
guerre ed a commettere crimini efferati. Ma Caprioglio sostiene che, non
Gramsci, ma altre persone del mondo comunista o socialista, come Umberto
Terracini e Umberto Calosso hanno invece avuto posizioni molto vicine e
simpatetiche verso la nonviolenza, il secondo anche lottando per far
riconoscere nell’ordinamento italiano il diritto all’obiezione di coscienza al
servizio militare[30]. Ma rispetto alle mie ipotesi la conclusione di
Caprioglio è netta considerandole come un tentativo di forzare la realtà
completamente diversa del pensiero gramsciano.
Diverso è stato, invece, l’intervento di Don Nardone che, per quanto ricordo - purtroppo la registrazione del suo intervento è del tutto incomprensibile - ha dato degli elementi di appoggio alle mie ipotesi. Ma dati i lunghi anni passati e l’impossibilità di risentire il suo intervento, in questo saggio mi devo accontentare di rispondere alle critiche ed alle obiezioni di Caprioglio. Lo farò però anche aggiornando le mie argomentazioni, e cioè non mantenendomi del tutto a quanto detto in quella occasione, nei soli 10 minuti di tempo per farlo che l’organizzazione mi aveva concesso, ma sviluppando le mie argomentazioni come se fossero un proseguimento della discussione allora iniziata. Mi auguro che il Dott. Caprioglio, ed anche Don Nardone, se avranno occasione di leggere questo scritto, accettino di proseguire il confronto allora iniziato[31].
Per prima cosa ringrazio Caprioglio per la sincerità con la quale ha contestato le mie argomentazioni e le mie ipotesi. Queste contestazioni permettono di mettere in luce anche i molti aspetti delle riflessioni gramsciane che non concordano con le mie ipotesi. E’ bene tenerne conto per non fare emergere una immagine edulcorata e agiografica di Gramsci, il che non è affatto nelle mie intenzioni, né mostrerebbe un atteggiamento serio e scientifico come quello che lo stesso Gramsci ha sempre ricercato.
Partirò perciò proprio da quelle osservazioni che sono in
linea con le argomentazioni di Caprioglio, usando al massimo possibile le
citazioni dello stesso Gramsci e di alcuni suoi noti studiosi, per poi passare
invece alle mie risposte ed osservazioni che cercheranno di confermare, per
quanto possibile, le mie ipotesi iniziali.
Scritti di Gramsci che mostrano una sua accettazione della violenza come necessaria per il processo rivoluzionario che tenda a migliorare l’umanità non mancano. In un altro suo testo, rispetto a quello citato da Caprioglio, Gramsci, parlando della rivoluzione francese scrive (sottolineature mie) :
Scritti di Gramsci che mostrano una sua accettazione della violenza come necessaria per il processo rivoluzionario che tenda a migliorare l’umanità non mancano. In un altro suo testo, rispetto a quello citato da Caprioglio, Gramsci, parlando della rivoluzione francese scrive (sottolineature mie) :
“ [questa] ha abbattuto molti privilegi, ha sollevato molti oppressi, ma non ha fatto che sostituire una classe all’altra per dominio. Però ha lasciato un grande ammaestramento: che i privilegi e le differenze sociali, essendo prodotti dalla società e non dalla natura, possono essere sorpassate”. E conclude: “L’umanità ha bisogno di un altro lavacro di sangue per cancellare molte di queste ingiustizie: che i dominanti non si pentano allora di aver lasciato le folle in stato di ignoranza e di ferocia quali sono adesso!”[32].
Ed in un altro suo testo, parlando dei compiti del Partito,
egli scrive:
“Certo l’azione che il Partito deve svolgere, assieme agli altri partiti antifascisti, non deve essere quella di rimorchiati. Il Partito ha come obiettivo la conquista violenta del potere, della dittatura del proletariato che egli deve realizzare usando la tattica più rispondente ad una determinata situazione storica, al rapporto di forza di classe esistente nei diversi momenti di lotta”[33].
Un’altra citazione gramsciana dove sembra prevalere la massima del “tanto
peggio tanto meglio” portata avanti da tanti cosiddetti rivoluzionari è questa:
“Nei paesi dove non succedono i conflitti di piazza, dove non si vedono calpestate le leggi fondamentali dello stato, né si vede l’arbitrio essere il dominatore, la lotta di classe perde la sua asprezza, lo spirito rivoluzionario perde di slancio, e si abbioscia. La cosiddetta legge del minimo sforzo, che è la legge dei poltroni, e vuol dire spesso non far niente, diventa popolare. In quei paesi la rivoluzione è meno probabile. Dove esiste un ordine, è più difficile che ci si decida a sostituirla con un ordine nuovo”[34].
Ma rispetto alla guerra, in un suo scritto giovanile (sembra
del 1910 quando ancora frequentava l’ultima classe del liceo Dettori di
Cagliari), Gramsci sembra prendere le distanze da questa e scrive.
“Le guerre sono fatte per il commercio, non per la civiltà. Gli inglesi hanno bombardato non so quante città della Cina perché i cinesi non volevano saperne del loro oppio, altro che civiltà ! Ed i russi e i giapponesi si sono massacrati per avere il commercio della Corea e della Manciuria. Si dilapidano le sostanze dei soggetti, si toglie loro ogni personalità…….Se poi una voce di un onesto uomo si leva a rimproverare queste prepotenze, questi abusi, che la morale sociale e la civiltà sanamente intesa dovrebbero impedire, gli si ride in faccia, perché è un ingenuo, e non sa tutti i machiavellici cavilli che reggono la vita politica”[35].
Ed anche per quanto riguarda la conferma delle critiche al
pacifismo da parte di Gramsci, oltre a quelle indicate da Caprioglio, non
mancano citazioni. Scrivo io stesso nelle oltre 90 pagine di appunti preparati
per la mia relazione di Ghilarza: “C’è in Gramsci un continuo riferimento, in
negativo, verso il pacifismo. Egli arriva ad inventare il termine “ernestomonetomia”,
prendendo così in giro [come ha accennato anche Caprioglio] Ernesto Moneta,
giornalista italiano che nel 1907 aveva avuto il premio Nobel per la Pace, per
definire quello che Gramsci chiamava il “bel sogno” degli Stati Uniti di Europa
e del Mondo che, nel periodo in cui Gramsci scrive (1918), si concretizzava nel
progetto di Wilson di dar vita alla “Lega delle Nazioni”. Questa è, per
Gramsci, una concezione legata alle impostazioni vittorhughiane, umanitarie,
massoniche, ma che, scrive Gramsci: “E’ ancora una astrazione arbitraria,
antistorica, teneramente costruita con cemento di lacrime e con blocchi di
sospiri….che non sprofonda le sue radici in nessun ceto di classe, vivo
economicamente e socialmente' [36]. Questo interesse del mondo
anglosassone per la Lega delle Nazioni, secondo Gramsci: “significa questo:
necessità del capitalismo moderno, forma politica attuale di convivenza
internazionale, che sia meglio adeguata alle necessità della produzione e degli
scambi… E’ il grande stato borghese supernazionale che ha dissolto le barriere
doganali, che ha ampliato i mercati, che ha ampliato il respiro della libera
concorrenza e permette le grandi imprese, le grandi concentrazioni
capitalistiche internazionali”[37] "Secondo Gramsci - sono io che scrivo - il
pacifismo rischia di dare spazio a questi sviluppi, secondo lui la pratica
liberale 'crea l’ideologia pacifista di Norman Angell, ma si dimostra capace di
fare la guerra e di perdurarvi tenacemente non meno dei più agguerriti stati
militareschi' ”[38].
Ma a questo punto penso di esser obbligato a rispondere alle
tesi di Caprioglio ed a cercare di riconfermare le mie ipotesi anche sulla base
dei testi gramsciani citati qui sopra, ed altri che citerò in seguito. Lo farò
in tre paragrafi: 1) le opinioni di Gramsci su Stalin; 2) la violenza come
levatrice della storia, come sostenuto da Caprioglio; 3) le critiche di Gramsci
al pacifismo.
1) Gramsci e Stalin. Secondo Caprioglio Gramsci, pur criticando Stalin per i suoi processi, non era poi così contrario alle sue idee tanto che aveva approvato il suo piano quinquennale. A questo proposito una nota studiosa del pensiero di Gramsci come la Maciocchi scrive:
1) Gramsci e Stalin. Secondo Caprioglio Gramsci, pur criticando Stalin per i suoi processi, non era poi così contrario alle sue idee tanto che aveva approvato il suo piano quinquennale. A questo proposito una nota studiosa del pensiero di Gramsci come la Maciocchi scrive:
“Ripercorrendo l’itinerario del pensiero di Gramsci ci si rende conto di come, anche se contro di lui non si è levato mai alcun anatema, vi sia sempre stato intravisto un sospetto di eresia, in quanto tutta l’opera di Gramsci è una critica da sinistra a Stalin sul fondamentale nodo di problemi concernenti lo stato socialista, il rapporto partito-masse, la gerarchia politica e statale, la disciplina burocratica ed il consenso, l’egemonia ideologica del partito come 'intellettuale collettivo', il rapporto intellettuali-operai, e operai-contadini, così come il nesso tra lavoro manuale ed intellettuale, e la funzione incessante di una rivoluzione culturale nella sovra-struttura connessa intimamente con l’evolversi della struttura”[39].
E scrive la Maciocchi in rapporto ai clamorosi processi
staliniani ai leaders dell’opposizione: “In questi [Gramsci] intravede un
processo di nuovo assolutismo che 'teoricamente con il vecchio assolutismo
rovesciato dei regimi costituzionali non ha differenza sostanziale' ”[40].
Tanto che Gramsci, parlando di questi processi, dichiara, con una frase, secondo
la Maciocchi, carica di sarcasmo politico: “Abolendo il barometro non si
abolisce il cattivo tempo”[41]. Da quanto scrive la Maciocchi, perciò, le
divergenze e le critiche a Stalin da parte di Gramsci sono molto più profonde
di quanto sostenuto da Caprioglio.
2) La violenza come levatrice della storia?. Ho messo un punto interrogativo perché la posizione di Gramsci nei riguardi della violenza mi sembra molto più complessa ed articolata di quanto pensi Caprioglio. Anche dalle citazione riportate prima, emerge non tanto una accettazione della guerra come strumento di cambiamento sociale, o di politica internazionale, ma piuttosto l’idea che questa è resa indispensabile dal fatto di lasciare “le masse in stato di ignoranza ” e dal non aver fatto nulla per eliminare lo stato di ferocia nella quale sono state lasciate. E proprio per superare queste due condizioni che Gramsci dà tanta importanza all’educazione ed alla formazione delle masse ed ad una strategia rivoluzionaria dal basso. Sembra cioè che in Gramsci ci sia una grande sofferenza dinanzi alla violenza, e che la veda non come un desiderio del popolo ma piuttosto come dovuta allo stesso capitalismo ed all’incapacità dei gruppi dirigenti di comprendere le vere necessità delle masse. Quindi, per Gramsci la violenza è in un certo senso obbligata, causata da altri, non prescelta dalle masse stesse. Diversa sembra essere invece la posizione di Gramsci nei riguardi del Fascismo, contro questo effettivamente la scelta di una violenza rivoluzionaria sembrerebbe da lui giustificata (la conquista violenta del potere), ed anzi i soprusi e le ingiustizie di questo regime sembrerebbero renderla più possibile e probabile. Ma se si va ad approfondire questa tematica, se per lottare contro il Fascismo la violenza sembra da lui giustificata, lo stesso non vale per i sistemi a capitalismo avanzato e democratici. E’ notissima la sua distinzione tra Oriente ed Occidente, che gli serve a distinguere la rivoluzione che lui ritiene debba essere portata avanti nei paesi a capitalismo avanzato e democratici da quella avvenuta invece in Russia:“ In Oriente lo Stato era tutto, la società civile era primordiale e gelatinosa, nell’Occidente, tra Stato e società civile c’era un giusto rapporto e nel tremolio dello stato si scorgeva subito una robusta struttura della società civile. Lo Stato era solo una trincea avanzata dietro cui stava una robusta catena di fortezze e di casematte”[42]. Perciò, secondo Gramsci, la via della rivoluzione portata avanti da Lenin in Russia non era esportabile nei paesi occidentali democratici. In questi, secondo lui, era necessaria una rivoluzione diversa. Ma quali queste diversità? Marx e Lenin prevedevano, per l’avvento del socialismo, sia una via rivoluzionaria sia una via pacifica, ammettevano cioè che ci potesse essere una transizione pacifica al socialismo. Ed i partiti socialisti prima, poi quelli comunisti, questi ultimi solo dopo la crisi del comunismo d’oltre cortina, hanno sposato il riformismo come la via principale di transizione al socialismo nei paesi occidentali. Ma la posizione di Gramsci è diversa e molto più originale. Vediamola meglio. Parlando delle diverse posizioni dei politici socialisti e marxisti la Maciocchi individua due principali strategie: da una parte i riformisti, e dall’altra i massimalisti. Scrive questa studiosa:
2) La violenza come levatrice della storia?. Ho messo un punto interrogativo perché la posizione di Gramsci nei riguardi della violenza mi sembra molto più complessa ed articolata di quanto pensi Caprioglio. Anche dalle citazione riportate prima, emerge non tanto una accettazione della guerra come strumento di cambiamento sociale, o di politica internazionale, ma piuttosto l’idea che questa è resa indispensabile dal fatto di lasciare “le masse in stato di ignoranza ” e dal non aver fatto nulla per eliminare lo stato di ferocia nella quale sono state lasciate. E proprio per superare queste due condizioni che Gramsci dà tanta importanza all’educazione ed alla formazione delle masse ed ad una strategia rivoluzionaria dal basso. Sembra cioè che in Gramsci ci sia una grande sofferenza dinanzi alla violenza, e che la veda non come un desiderio del popolo ma piuttosto come dovuta allo stesso capitalismo ed all’incapacità dei gruppi dirigenti di comprendere le vere necessità delle masse. Quindi, per Gramsci la violenza è in un certo senso obbligata, causata da altri, non prescelta dalle masse stesse. Diversa sembra essere invece la posizione di Gramsci nei riguardi del Fascismo, contro questo effettivamente la scelta di una violenza rivoluzionaria sembrerebbe da lui giustificata (la conquista violenta del potere), ed anzi i soprusi e le ingiustizie di questo regime sembrerebbero renderla più possibile e probabile. Ma se si va ad approfondire questa tematica, se per lottare contro il Fascismo la violenza sembra da lui giustificata, lo stesso non vale per i sistemi a capitalismo avanzato e democratici. E’ notissima la sua distinzione tra Oriente ed Occidente, che gli serve a distinguere la rivoluzione che lui ritiene debba essere portata avanti nei paesi a capitalismo avanzato e democratici da quella avvenuta invece in Russia:“ In Oriente lo Stato era tutto, la società civile era primordiale e gelatinosa, nell’Occidente, tra Stato e società civile c’era un giusto rapporto e nel tremolio dello stato si scorgeva subito una robusta struttura della società civile. Lo Stato era solo una trincea avanzata dietro cui stava una robusta catena di fortezze e di casematte”[42]. Perciò, secondo Gramsci, la via della rivoluzione portata avanti da Lenin in Russia non era esportabile nei paesi occidentali democratici. In questi, secondo lui, era necessaria una rivoluzione diversa. Ma quali queste diversità? Marx e Lenin prevedevano, per l’avvento del socialismo, sia una via rivoluzionaria sia una via pacifica, ammettevano cioè che ci potesse essere una transizione pacifica al socialismo. Ed i partiti socialisti prima, poi quelli comunisti, questi ultimi solo dopo la crisi del comunismo d’oltre cortina, hanno sposato il riformismo come la via principale di transizione al socialismo nei paesi occidentali. Ma la posizione di Gramsci è diversa e molto più originale. Vediamola meglio. Parlando delle diverse posizioni dei politici socialisti e marxisti la Maciocchi individua due principali strategie: da una parte i riformisti, e dall’altra i massimalisti. Scrive questa studiosa:
“I riformisti sostenevano la necessità di un passaggio lento e graduale dal capitalismo al socialismo, passaggio che sarebbe avvenuto con le riforme, con il parlamentarismo, con la collaborazione con la borghesia democratica. I massimalisti invece dicevano di voler fare la rivoluzione, ma si limitavano alle parole. La loro visione del mondo meccanicistica e fatalistica faceva in modo che essi aspettassero messianicamente la rivoluzione, come prima o poi sarebbe arrivata, senza perciò far niente che accellerasse e desse un senso agli avvenimenti spontanei. Perciò economicismo, meccanicismo, 'attendismo' e spontaneismo erano caratteri propri del massimalismo”[43].
Ma Gramsci era lontano da ambedue queste posizioni. Per
quanto riguarda il parlamentarismo ed il riformismo, scrive Gramsci; “Aspettare
di essere diventati la metà più uno è il programma delle anime pavide che
aspettano il socialismo da un decreto regio controfirmato da due ministri”[44].
E questa impostazione viene confermata dalla frase di Gramsci che “bisogna
cambiare la macchina e non solo il personale al potere”. Ed infine Gramsci
sembra comprendere l’importanza data dalla teoria nonviolenta alla
disobbedienza civile come uno degli strumenti principali delle lotte per la
trasformazione sociale; scrive infatti Gramsci: “Quando una lotta può comporsi
legalmente, essa non è certo pericolosa; diventa tale appunto quando
l’equilibrio legale è riconosciuto impossibile”[45] Ma Gramsci è lontanissimo
anche dalla posizione qui indicata come massimalista. Sia per la sua concezione
dell’”homo faber”, l’uomo come costruttore della propria storia, e la sua idea
che la passività è complice degli andamenti distorti della storia, sia per le
sue acute critiche al meccanicismo ed all’economismo, visto come una illusione
ed un errore strategico gravissimo, sia infine per l’importanza da lui data al
momento costruttivo.
a) Per quanto riguarda il primo di questi aspetti, e cioè l’importanza dell’”homo faber” nella costruzione della propria storia scrive Gramsci in un saggio su gli “indifferenti”: “Ciò che avviene, non avviene tanto perché alcuni vogliono che avvenga, quanto perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia fare, lascia aggruppare”[46]. A questo proposito scrivevo io nei miei appunti. “E’ chiarissimo il ruolo delle persone passive per determinare gli sviluppi della storia, anche nel senso negativo di rendere, talvolta, indispensabile la violenza”.
b) E per quanto riguarda l’economicismo Gramsci polemizza contro la concezione che la crisi economica avrebbe portato alla rivoluzione: “Si può escludere –scrive – che, di per sé stesse, le crisi economiche immediate producano effetti fondamentali, solo possono creare un terreno più favorevole alla diffusione di certi modi di pensare, impostare e risolvere le questioni che coinvolgono tutto lo sviluppo della vita statale”[47]. E questa tesi di Gramsci trovò conferma nella mancata rivoluzione nel 1929 malgrado la grande crisi economica. Scrive la Macciocchi a proposito di queste tesi gramsciane, che egli critica molto la svolta del PCI nel’29:”l’orientamento per cui si reputava che dalla crisi economica nasceva immediatamente la rivoluzione….e che occorresse abbandonare la politica gramsciana della prospettiva di lotta di lunga durata e della complessità dei compiti che si pongono all’avanguardia operaia nell’Occidente capitalistica”[48]. Ma a questo proposito scrive Gramsci nel suo “La rivoluzione contro il capitale”, riferendosi al pensiero marxista ed al suo insegnamento perenne:
a) Per quanto riguarda il primo di questi aspetti, e cioè l’importanza dell’”homo faber” nella costruzione della propria storia scrive Gramsci in un saggio su gli “indifferenti”: “Ciò che avviene, non avviene tanto perché alcuni vogliono che avvenga, quanto perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia fare, lascia aggruppare”[46]. A questo proposito scrivevo io nei miei appunti. “E’ chiarissimo il ruolo delle persone passive per determinare gli sviluppi della storia, anche nel senso negativo di rendere, talvolta, indispensabile la violenza”.
b) E per quanto riguarda l’economicismo Gramsci polemizza contro la concezione che la crisi economica avrebbe portato alla rivoluzione: “Si può escludere –scrive – che, di per sé stesse, le crisi economiche immediate producano effetti fondamentali, solo possono creare un terreno più favorevole alla diffusione di certi modi di pensare, impostare e risolvere le questioni che coinvolgono tutto lo sviluppo della vita statale”[47]. E questa tesi di Gramsci trovò conferma nella mancata rivoluzione nel 1929 malgrado la grande crisi economica. Scrive la Macciocchi a proposito di queste tesi gramsciane, che egli critica molto la svolta del PCI nel’29:”l’orientamento per cui si reputava che dalla crisi economica nasceva immediatamente la rivoluzione….e che occorresse abbandonare la politica gramsciana della prospettiva di lotta di lunga durata e della complessità dei compiti che si pongono all’avanguardia operaia nell’Occidente capitalistica”[48]. Ma a questo proposito scrive Gramsci nel suo “La rivoluzione contro il capitale”, riferendosi al pensiero marxista ed al suo insegnamento perenne:
“Questo pensiero pone sempre come massimo fattore di storia non i fatti economici bruti, ma l’uomo, ma la società degli uomini….degli uomini che sviluppano una volontà sociale, collettiva e comprendono i fatti economici e li giudicano, e li adeguano alla loro volontà, finché questa diventa la motrice dell’economia, la plasmatrice della realtà oggettiva, che vive e si muove, ed acquista caratteri di materia tellurica in ebollizione, che può essere incanalata dove alla volontà piace, come alla volontà piace”[49].
E scrive la Macciocchi sempre a commento di queste tesi di
Gramsci “Le rivoluzioni non sono insomma colpi di mano, e Gramsci insiste che
esse sono lo sbocco dell’accumulazione di un enorme patrimonio politico,
intellettuale, che fa maturare una 'particolare volontà' connessa al fare
rivoluzionario”[50] Altre cose potrebbero essere dette su questo tema, che è
uno di quelli che a Gramsci sta più a cuore, ma mi limiterò ad accennare al
fatto che anche la tesi della Rosa Luxemburg, che pure Gramsci stimava molto,
dello sciopero generale come arma fondamentale per far crollare il capitalismo
e dar vita al socialismo, veniva criticata da Gramsci perché dava troppo peso
agli aspetti economici e sottovalutava altri aspetti, anche culturali, della
vita sociale.
c) Resta da vedere il terzo aspetto accennato e cioè l’importanza che Gramsci dà al momento ed al progetto costruttivo. Comincerò dalle riflessioni di Gramsci sulle disfatte subite dalla classe operaia in Germania, Austria, Baviera, Ucraina ed Ungheria, e cioè dove: “Non si era riusciti – scrive Gramsci – a far seguire alla 'rivoluzione di febbraio' la 'rivoluzione di ottobre', dove cioè alla rivoluzione come atto distruttivo non è seguita la rivoluzione come processo costruttivo in senso comunista”[51]. Da queste esperienze Gramsci trae l’insegnamento del fallimento delle rivoluzioni in due tempi, in cui la fase distruttiva e quella costruttiva non vadano insieme. “L’essenza del rivoluzionario - scrive la Maciocchi a commento di questi fatti – è insita nel binomio dialettico: distruttore-costruttore, egli deve unire al potere politico la sua capacità di gestione della società, perché la storia ha dimostrato che ogni rivoluzione in due tempi è fallita”[52]. Ed a proposito del progetto costruttivo è importante comprendere a fondo la concezione di Gramsci del ruolo della guerra di posizione nei paesi a capitalismo avanzato. Scrive Gramsci:
c) Resta da vedere il terzo aspetto accennato e cioè l’importanza che Gramsci dà al momento ed al progetto costruttivo. Comincerò dalle riflessioni di Gramsci sulle disfatte subite dalla classe operaia in Germania, Austria, Baviera, Ucraina ed Ungheria, e cioè dove: “Non si era riusciti – scrive Gramsci – a far seguire alla 'rivoluzione di febbraio' la 'rivoluzione di ottobre', dove cioè alla rivoluzione come atto distruttivo non è seguita la rivoluzione come processo costruttivo in senso comunista”[51]. Da queste esperienze Gramsci trae l’insegnamento del fallimento delle rivoluzioni in due tempi, in cui la fase distruttiva e quella costruttiva non vadano insieme. “L’essenza del rivoluzionario - scrive la Maciocchi a commento di questi fatti – è insita nel binomio dialettico: distruttore-costruttore, egli deve unire al potere politico la sua capacità di gestione della società, perché la storia ha dimostrato che ogni rivoluzione in due tempi è fallita”[52]. Ed a proposito del progetto costruttivo è importante comprendere a fondo la concezione di Gramsci del ruolo della guerra di posizione nei paesi a capitalismo avanzato. Scrive Gramsci:
“Avviene nell'arte politica ciò che avviene nell'arte militare: la guerra di movimento diventa sempre più guerra di posizione e si può dire che uno Stato vince la guerra in quanto la prepara minutamente e tecnicamente nel tempo di pace. La struttura massiccia delle democrazie moderne sia come organizzazioni statali sia nelle associazioni nella vita civile costituiscono per l'arte politica come le 'trincee' e le fortificazioni permanenti del fronte della guerra di posizione”[53].
E in un altro testo sullo stesso argomento Gramsci precisa
che la guerra di posizione, in politica, “è il concetto di egemonia, che può
nascere solo dopo l'avvento di certe premesse e cioè le grandi organizzazioni
popolari di tipo moderno che rappresentano come le 'trincee' e le
fortificazioni permanenti della guerra di posizione”[54]. Ed un ruolo
fondamentale in questo tipo di guerra – scrive la Maciocchi - lo hanno “ gli
stessi consigli di fabbrica, secondo Gramsci, [che] si imperniano sulla
concezione di un nuovo assetto politico produttivo della società, di un
processo rivoluzionaria a lunga scadenza, e non fatto di una sola fiammata
rivoluzionaria , o di un grande evento combattivo come lo sciopero 'generale'”[55].
Ma concluderò questo paragrafo con una citazione di un autorevole studioso di
Gramsci, Paolo Spriano, in rapporto all’importanza del momento costruttivo
nell’azione rivoluzionaria di Gramsci:
“Gramsci ritiene dal leninismo, in primo luogo, esaltandola enormemente, l'indicazione che non si tratterà soltanto di sostituire, con la presa del potere, una macchina nuova alla macchina dello stato borghese, ma che gli ingranaggi di questa nuova macchina debbano essere già costruiti prima della presa del potere. In altri termini – scrive sempre Spriano – il momento costruttivo dell’azione rivoluzionaria, che fa parte non secondaria della teoria del potere leniniana, è colto da Gramsci perfettamente e da lui solo nel movimento operaio italiano e forse europeo”[56].
Ma Spriano sottolinea poi l’importanza data da Gramsci alla
rivoluzione dal basso, all’organizzazione di base che è per lui un momento
fondamentale del processo rivoluzionario e che sarà al centro della sua teoria
dei consigli operai. Ma Spriano vede, con questa sua teoria, Gramsci staccarsi
da Lenin. Scrive Spriano:
“Pare possibile affermare che mentre in Lenin la coscienza del carattere decisivo che assumono ad un certo punto della crisi rivoluzionaria l’elemento della direzione dall’alto, la funzione del partito come massimo organizzatore e propulsore delle masse , è nettissima, prevalente [da lì il giusto avvicinamento........ di Lenin agli elitisti democratici] in Gramsci l’aspetto dell’ aggressione dal basso dello Stato nemico, del processo molecolare per cui si arriva a creare un dualismo di potere, la ricerca di nuovi istituti ed articolazioni delle masse, partendo dal luogo di lavoro, sono non meno prevalenti e costanti, almeno come punto di partenza , come procedimento non solo concettuale ma di azione”[57].
Ma secondo Spriano questo distacco da Lenin verrà sottolineato
da Gramsci non come allontanamento dal leninismo “ma come una sua applicazione
a società politiche e civili, quali quelle occidentali, che richiedono una più
complessa articolazione della strategia rivoluzionaria”[58].
In complesso, rispetto al tema di questo paragrafo e cioè la
presunta accettazione di Gramsci della violenza come levatrice della
storia, come sostenuto dal Dott. Caprioglio, mi sembra che le citazioni e gli
elementi raccolti facciano emergere un quadro di Gramsci sicuramente come rivoluzionario,
e non come riformista (come era al tempo del dibattito il Partito Comunista al
quale, molto probabilmente, il Dott. Caprioglio apparteneva), ma non necessariamente
violento. Accettava l'uso della violenza nel caso che la classe operaia si dovesse
difendere dalla reazione violenta delle forze conservatrici nei riguardi
dell'avanzamento della sua organizzazione, ed anche di fronte ad iniziative
anche non violente da parte di questa (scioperi, boicottaggi, azioni di
disobbedienza civile, o simili), ma sicuramente Gramsci non cercava la
violenza. Anzi, con tutto il suo lavoro, di istruzione, formazione,
organizzazione dal basso (consigli operai), la costruzione di contropoteri di
base, la conquista ed ampliamento di casematte interne al sistema capitalista
ma che prefiguravano il sistema alternativo, cercava di portare avanti una
rivoluzione ben diversa da quella realizzata in Russia da Lenin. E questo
avvicina Gramsci più ai teorici nonviolenti che a quelli violenti. Non per
niente personaggi importanti della nonviolenza italiana come Aldo Capitini,
Danilo Dolci[59], Lamberto Borghi[60], e lo stesso Norberto Bobbio, che pur
dichiarandosi “perplesso” e non “persuaso” della nonviolenza considerava questa
come l'unica speranza di un futuro migliore[61], hanno considerato Gramsci come
loro ispiratore e maestro. C'è da dire comunque, a scusante per il Dott.
Caprioglio, che forse l'ipotesi di Spriano, confermata anche dal Manifesto, che
il Gramsci degli ultimi di vita, forse anche a causa delle sofferenze della
vita carceraria, sia diverso e più maturo rispetto a quello precedente[62], può
giustificare questa incomprensione non solo di Caprioglio, ma di tutto il
Partito Comunista verso le tesi gramsciane. Da questo punto di vista tornano in
mente le argomentazioni di alcuni dei personaggi influenti di questo partito
che sono intervenuti ai convegni organizzati dal Movimento Nonviolento su
“Marxismo e Nonviolenza nella transizione al socialismo”. Questi tendevano a
confondere “nonviolenza” e “riformismo”, ritenendo che l'accettazione del
riformismo da parte del loro Partito fosse una scelta nonviolenta, e che la
rivoluzione non potesse che essere violenta[63]. E questo del tutto in
contrasto con le tesi capitiniane, riprese dal movimento da lui fondato, che ci
fosse una terza via (rivoluzionaria ma nonviolenta) che potesse portare il
nostro paese, ed anche altri, verso un tipo di socialismo diverso da quelli
finora conosciuti, non di tipo “cesariano” come definiva Capitini i regimi
comunisti dell'Est Europa, una via, cioè, non ancora sperimentata, ma che
potrebbe riaprire la strada a quel liberal-socialismo autogestito che Capitini
voleva promuovere.
3) Le critiche di Gramsci al pacifismo. Riprendendo e sviluppando alcune tesi da me sostenute anche nei miei appunti del 1992, risponderei così a queste critiche: a prima vista questo “sospetto” di Gramsci verso il pacifismo, e questa sua denigrazione di posizioni pacifiste viste come utopie astoriche in cerca della 'pace perpetua' potrebbe sembrare un giudizio negativo anche nei riguardi della nonviolenza. In realtà egli non fa che distinguere tra pace come “assenza di guerra”, la cosiddetta pace negativa, e “pace positiva”, che implica rapporti sociali ed internazionali non basati sulle ingiustizie, lo sfruttamento e le ineguaglianze (che sono quelle che Galtung ha definito come “violenza strutturale”[64]), come fanno anche i movimenti nonviolenti che contro questi due tipi di violenza stanno continuamente lottando. La posizione di Gramsci mostra infatti le incongruenze di un pacifismo che vede la pace solo come assenza di “violenza diretta”, e che non tiene in alcun conto, invece , della “violenza strutturale” che sta diventando sempre più forte, anche grazie al cosiddetto processo di “globalizzazione”, e che utilizza il pacifismo come “cortina fumogena” per non fare emergere le sue contraddizioni. In questo giudizio perciò, invece di un distacco, si può vedere una ulteriore conferma della mia ipotesi di partenza e cioè dell'affinità del pensiero di Gramsci con quello nonviolento. Questa affinità potrebbe emergere ancor più chiaramente con molte citazioni, che qui non faccio per non allungare troppo questo saggio, sia di Gandhi che di Capitini che cercano di distinguere in modo molto netto la nonviolenza dalla pace come assenza di conflitto, mostrando come la nonviolenza stessa non sia una assenza di conflitto ma un modo nuovo, e spesso anche più efficace[65], di combattere contro i soprusi e le ingiustizie , e come la nonviolenza non sia una “negazione della violenza”, ma un suo ”superamento”, un tentativo cioè di ottenere certi valori, come la verità, la giustizia, l'equità , l'autogestione, il socialismo, per i quali lottava anche Gramsci, anche senza l'uso della violenza diretta, ma con il coinvolgimento attivo di tutta la popolazione, specie di quella più emarginata e che ha perciò più interesse ad un cambiamento radicale, e dal basso, del nostro e di altri paesi europei e mondiali .
3) Le critiche di Gramsci al pacifismo. Riprendendo e sviluppando alcune tesi da me sostenute anche nei miei appunti del 1992, risponderei così a queste critiche: a prima vista questo “sospetto” di Gramsci verso il pacifismo, e questa sua denigrazione di posizioni pacifiste viste come utopie astoriche in cerca della 'pace perpetua' potrebbe sembrare un giudizio negativo anche nei riguardi della nonviolenza. In realtà egli non fa che distinguere tra pace come “assenza di guerra”, la cosiddetta pace negativa, e “pace positiva”, che implica rapporti sociali ed internazionali non basati sulle ingiustizie, lo sfruttamento e le ineguaglianze (che sono quelle che Galtung ha definito come “violenza strutturale”[64]), come fanno anche i movimenti nonviolenti che contro questi due tipi di violenza stanno continuamente lottando. La posizione di Gramsci mostra infatti le incongruenze di un pacifismo che vede la pace solo come assenza di “violenza diretta”, e che non tiene in alcun conto, invece , della “violenza strutturale” che sta diventando sempre più forte, anche grazie al cosiddetto processo di “globalizzazione”, e che utilizza il pacifismo come “cortina fumogena” per non fare emergere le sue contraddizioni. In questo giudizio perciò, invece di un distacco, si può vedere una ulteriore conferma della mia ipotesi di partenza e cioè dell'affinità del pensiero di Gramsci con quello nonviolento. Questa affinità potrebbe emergere ancor più chiaramente con molte citazioni, che qui non faccio per non allungare troppo questo saggio, sia di Gandhi che di Capitini che cercano di distinguere in modo molto netto la nonviolenza dalla pace come assenza di conflitto, mostrando come la nonviolenza stessa non sia una assenza di conflitto ma un modo nuovo, e spesso anche più efficace[65], di combattere contro i soprusi e le ingiustizie , e come la nonviolenza non sia una “negazione della violenza”, ma un suo ”superamento”, un tentativo cioè di ottenere certi valori, come la verità, la giustizia, l'equità , l'autogestione, il socialismo, per i quali lottava anche Gramsci, anche senza l'uso della violenza diretta, ma con il coinvolgimento attivo di tutta la popolazione, specie di quella più emarginata e che ha perciò più interesse ad un cambiamento radicale, e dal basso, del nostro e di altri paesi europei e mondiali .
In conclusione mi sembra che in Gramsci ci siano alcuni
elementi di quella che Capitini ha chiamata “la terza via al socialismo”[66],
che non è né una rivoluzione armata né il riformismo ma è la “rivoluzione
nonviolenta dal basso”: c’è infatti in Capitini la presa di coscienza della
importanza della base, delle organizzazioni di base nelle scuole, nelle
fabbriche, nelle campagne. Non per nulla Bobbio, parlando del sessantotto, ha
detto che tutte le tematiche del movimento, tranne quelle della violenza
portata avanti solo da una parte di questo, erano in Capitini stesso, e cioè:
l'importanza della partecipazione, il ruolo centrale dell’assemblea e del
potere di tutti nelle prese di decisione, la centralità delle organizzazioni di
base.
E' chiaro, comunque, che questo è proprio l’inizio di un
dibattito che dovrebbe continuare, non solo con gli interlocutori iniziali, ma
anche con altri relatori. Per esempio solo i rapporti tra Gramsci e Capitini
meriterebbero una relazione apposita perché Capitini dedica a Gramsci una
decina di pagine sull’educazione aperta, mentre ne dedica solo 3 a Salvemini ed
anche meno ad altri importanti educatori. Quindi Capitini, anche se, per vari
aspetti (come per la centralità del Partito che Capitini non accetta preferendo
i movimenti, e la pluralità di centri dal basso, come i COS, ai partiti) se ne
distacca e lo critica, considera però Gramsci come uno dei più importanti
educatori e maestri. Ed anche Dolci trova in Gramsci molti insegnamenti in
rapporto al concetto di “maieutica” da lui promosso e sviluppato.
Ma vorrei concludere con l’immagine di Gramsci sull’acqua,
che lui amava andare ad osservare nei ruscelli anche da bambino. Gramsci dice
che se l’acqua può disperdersi dappertutto non è una forza, ma se l’acqua è
incanalata in un ruscello assume una forza immensa. La regolazione,
l’incanalamento, la disciplina e l'autodisciplina sono, per Gramsci, un
elemento fondamentale della presa di forza. E questo, credo, sia un grosso
insegnamento anche per la nonviolenza: se questa resta una nonviolenza
generica, se discute tanto ma non agisce, non è affatto una forza, ma se studia
bene i suoi obbiettivi (sia di lotta che costruttivi-alternativi, ma insieme
gli uni con gli altri), se programma seriamente le sue azioni e le sue lotte,
se diventa una nonviolenza specifica (nel senso detto da Pontara), e prepara
bene i suoi militanti ad essere determinati e portare avanti azioni, talvolta
anche rischiose, ma nonviolente, può essere una forza rivoluzionaria notevole e
può realmente aiutarci a raggiungere una società diversa, più umana, più
giusta, più ecologica, e direi anche, più gramsciana.
1 F.
Fukuyama, La fine della storia e l'ultimo uomo, Rizzoli, Milano,
1992.
2 G. Pontara, “Esiste una
terza via al socialismo?”, in, Movimento Nonviolento, a cura di, Nonviolenza
e Marxismo, Libreria Feltrinelli, Milano, 1981. Di questo stesso studioso
si vedano anche la cura e l'introduzione a, M. K. Gandhi,Teoria e pratica della
nonviolenza, Einaudi, Torino, 1973, riedito con aggiornamenti nel 1996; la
voce “Nonviolenza”, in N. Bobbio, N. Matteucci, G. Pasquino, a cura di, Dizionario
di politica, Utet-Tea, Milano, 1990; Guerra, Disobbedienza
civile, Nonviolenza, Ediz. Gruppo Abele, Torino, 1996, L'antibarbarie: La
concezione etico-politica di Gandhi e il XXI secolo, Ediz. Gruppo Abele,
Torino, 2006, ripubblicato, nel 2008, come allegato al giornale L'Unità.
3 N.Bobbio, articolo su “Il
Ponte” riprodotto in, Movimento Nonviolento, a cura di, Marxismo e
Nonviolenza, Editr. Lanterna, Genova, 1977, p.14. Per un quadro
riepilogativo, con aggiornamenti, di questo e del successivo dibattito sullo
stesso tema organizzato dal Movimento Nonviolento, si veda: A.
L'Abate,”Marxismo e Nonviolenza nella transizione al Socialismo”, in , a cura
del giornale “Liberazione”, Agire la nonviolenza: prospettive di liberazione
nella globalizzazione, Ediz. Punto Rosso, Milano, 2004, ripubblicato in,
A. L'Abate, Per un futuro senza guerre, Liguori, Napoli, 2008.
4 Movimento Nonviolento, a
cura di, Marxismo e Nonviolenza, citato, pp.7-8.
5 Sui fatti della
Cecoslovacchia si vedano: Z. Ziynar, A. Dubcek, Che cosa fu la 'Primavera
di Praga' ?- Idee e progetto di una riforma politica e sociale, Lacaita
Edit., Manduria (Ta.), 1989; e R. Richta, Progresso tecnico e società
industriale, Jaka Book, Milano, 1977. Richta è un filosofo-sociologo
cecoslovacco che ha usato per primo il termine “socialismo dal volto umano” ed
ha diretto un gruppo di lavoro che ha elaborato un interessantissimo documento,
in appendice al suo libro prima citato, su: “Per un nuovo modello di
socialismo”.
6 Sulle lotte nonviolente
della popolazione di quel paese contro l'occupazione militare delle forze
armate russe si veda: G. Sharp, Politica dell'azione nonviolenta, Ediz.
Gruppo Abele, Torino, 1985/86, 3 voll.. Le pagine che riguardano questa
resistenza sono nel vol. I, pp.158-160.
7 Si vedano di G. Nardone, Il
pensiero di Gramsci, De Donato, Bari, 1971; e, L'umano in Gramsci, Dedalo
Libri, Bari, 1977.
8 Si vedano i testi di A.
Gramsci curati da S. Caprioglio, L'Ordine Nuovo: 1919-1920, Einaudi,
Torino, 2a Ediz. 1948; Cronache Torinesi: 1913-1917, Einaudi, Torino,
1980; La città futura, Einaudi, Torino, 1982.
9 Libri Siciliani, Palermo,
1970.
10 Einaudi, Torino, 1947,
riedito, in edizione più completa curata da S. Caprioglio e E. Fubini, dalla
stessa casa editrice nel 1975. Nel 1987 le “Lettere dal Carcere” sono
state ripubblicate e distribuite, in due volumi, dal giornale L'Unità, con due
prefazioni, al I volume di P. Spriano, al II di V. Gerrattana.
11 Ediz. Critica
dell'Istituto Gramsci, a cura di V. Gerrattana, Einaudi, Torino, 1975, 4 voll.
12 R. Rolland, Al di
sopra della mischia, Fabbri Edit., Milano, 1965.
13 R.
Rolland, Mahatma Gandhi, Librairie Stock, Paris, 2a ed., 1924.
14 A. Capitini, Educazione
aperta, La Nuova Italia, Firenze, 1967, 2 voll. Le citazioni di
Gramsci si trovano in varie pagine: I vol. p. 8, II vol. pp.61-62, 293-295, ed
altre. Ma in quasi tutti gli scritti di Capitini Gramsci viene citato almeno
una volta. Nel suo, Il potere di tutti, La Nuova Italia, Firenze, 1969,
ci dedica varie pagine (p.111 e segg.), ma oltre a vari apprezzamenti, in
particolare Capitini dice di aver preso da Gramsci l'idea del controllo dal
basso di coloro che stanno al potere, ci sono anche alcuni distinguo (sul ruolo
del partito, su quello della forza, ecc. ecc.).
15 Scrive V. Gerrattana
nell'introduzione al II volume delle Lettere dal carcere, edite
dall'Unità, citato: “” Io sono sempre stato dell'opinione che la verità abbia
in sè la propria medicina” così [scrive Gramsci] in una...lettera alla
moglie...(5 novembre 1936)... il contesto è dato dai rapporti privati,
sentimentali, ma è lo stesso principio che spinge Gramsci a sottolineare nei Quaderni,
che “nella politica di massa dire la verità è una necessità
politica”. Nel pubblico e nel privato, nella politica e nei rapporti personali,
non dire la verità quando si parla, e si può parlare, è sempre,
indipendentemente dalle situazioni, fonte di inganni e di conseguenze
disastrose” p.14. Questa importanza data da Gramsci alla verità in politica lo
avvicina di più ai nonviolenti (Gandhi, M.L. King, Capitini, ecc.) che a
Machiavelli, pur da Gramsci studiato a fondo, che subordina la verità al fine
da perseguire.
16 Don L. Milani, L'ubbidienza
non è più una virtù, Libreria Editr. Fiorentina, Firenze, 1983.
17 A. Gramsci, Quaderni
del carcere, citato, Vol. II, p.708.
18 M. Correggia, Manuale
pratico di ecologia quotidiana, Mondadori, Milano, 2000.
19 M. Yunus, Il
banchiere dei poveri, Feltrinelli, Milano, 5a ed., 2003.
20 Per un progetto di
sviluppo alternativo al capitalismo, che si basi su uno sviluppo sostenibile,
sulla solidarietà, sull'equità tra uomo e donna, sul rispetto dei diritti delle
generazion future, si veda: J.Friedmann, Empowerment, verso il potere di
tutti: una politica per lo sviluppo alternativo, Ediz. Quale Vita, Torre
dei Nolfi (Aq.), 2004; con una nuova introduzione, allegata, del 2005.
21 Gramsci non parla tanto
di consenso ma di decisioni prese all'unanimità. Parlando della mancanza di
questa egli scrive: “Da tutta l'esperienza della rivoluzione russa risulta che
l'assenza di unanimità nelle grandi votazioni pubbliche determina atteggiamenti
speciali in mezzo alle grandi masse; gli avversari politici si polarizzano
verso la minoranza, ne allargano e generalizzano la posizione....compiono tutto
un lavoro di agitazione che può divenire estremamente pericoloso in un momento
determinato” in “Scritti politici”, citato, p. XX. Sul metodo del consenso
nella azione nonviolenta si veda invece l' articolo di R.Tecchio, “Il metodo
del consenso nella teoria e nella pratica”, in A. L'Abate, a cura di, Giovani
e Pace, Pangea Ediz., Torino, 2001. C'è da dire comunque che tra decisioni
all'unanimità e metodo consensuale ci sono notevoli differenze, il primo si
presta talvolta all'intolleranza verso i devianti, quelli che non sono
d'accordo con la maggioranza, mentre il metodo del consenso prevede forme
decisionali che salvano la possibilità di quelli in disaccordo di esprimere,
anche per scritto, il loro dissenso ed eventualmente partecipare, con azioni
diverse ma strategicamente collegate, all'iniziativa intrapresa.
22 E' una tesi questa
confermata anche da P. Spriano, op.cit., e dalla R. Rossanda, de “Il
Manifesto”. Altri autori, come la Maciocchi, nel libro citato, e M. Salvadori
(in , Gramsci ed il problema storico della democrazia, Einaudi,
Torino, 2a ed. 1973, p. 140) sostengono invece l'unitarietà del pensiero
gramsciano.
23 Editrice Laterza, Bari,
1937. Il libro è stato ripubblicato da Cappelli, Bologna, nel 1990.
24 Su questi aspetti del
pensiero di Capitini si legga il suo: Il potere di tutti, La Nuova
Italia, Firenze, 1969; altra ediz., Guerra Edit., Perugia, 1999.
25 La teoria del potere
della nonviolenza è illustrata nel modo molto chiaro ed esaustivo nel primo
volume della trilogia di Gene Sharp, su “La politica della azione
nonviolenta”, già citato. La validità di questa teoria è stata confermata da
molte delle rivoluzioni a-violente avvenute nell'ultimo secolo (Sud Africa,
Polonia, Cecoslovacchia, Germania dell'Est, ecc.) nelle quali la forza per il
cambiamento del regime è venuta dalla grande partecipazione di base.
26 Capitini a pag 111, del
suo testo, Educazione aperta, citato
27 Ibid. Il testo di Bobbio
citato viene dalla sua relazione.”Gramsci e la concezione della società civile”
presentata al Congresso sardo di studi gramsciani del 1964.
28 Sul marxismo
terzomondista si veda soprattutto S. Amin, Imperialismo e rivoluzione
socialista nel Terzo Mondo, Angeli, Milano, 1979.
29 Caprioglio non cita la
fonte di questa frase che viene probabilmente da uno dei saggi da lui curati
sugli scritti torinesi di Gramsci.
30 Un comunista molto
vicino alla nonviolenza, non citato da Caprioglio, che ha insegnato
all'Università di Palermo, e che, anche con sua moglie Adele, ha dato un grosso
contributo al lavoro di Danilo Dolci e dei suoi collaboratori a Cortile Cascino
di quella città, è Lucio Lombardo Radice. Nella sua relazione, intitolata
“Aggiunta nonviolenta alla rivoluzione socialista” al II convegno su Marxismo e
Nonviolenza organizzato a Perugia dal Movimento Nonviolento fondato da Aldo
Capitini, ha detto tra l'altro:”Il marxista aperto, non dogmatico – cioè il
marxista! - deve oggi fare sue le 'tecniche della nonviolenza' che
costituiscono, l'aggiunta nonviolenta alla rivoluzione socialista”. Si veda,Nonviolenza
e Marxismo, citato, pp. 90-93.
31 Devo dire comunque che,
malgrado la mia risposta fosse molto più breve e molto meno argomentata che in
questo testo, la mia gioia più grande è stata il fatto che i parenti di Gramsci
che vivono in Sardegna e che erano venuti all'incontro venissero, alla fine del
dibattito, ad abbracciarmi ed a ringraziarmi per il mio intervento e per la mia
interpretazione del pensiero del loro amato Antonio.
32 A.
Gramsci,”Oppressi ed oppressori”, in, Scritti politici, a cura di P.
Spriano, citato, p. 5.
33 Questa citazione di
Gramsci, è riportata a p. 131 dalla Maciocchi nel suo testo citato, che non dà
però la fonte del testo né la sua data. Sembra comunque che sia stato scritto
nel 1929.
34 A. Gramsci, “Tre
principi, tre ordini “, in, Scritti politici, a cura di P. Spriano,
citato, pp.45-46.
35 A.
Gramsci, “Oppressi ed oppressori”, in, Scritti politici, a cura di P.
Spriano, citato, p. 4
36 A.
Gramsci, “La Lega delle Nazioni”, in, Scritti politici, a cura di P.
Spriano, citato. p. 97.
37 Ibid.
pp. 98-99.
38 Ibid.,
p. 98.
39 M.
A. Maciocchi, Per Gramsci, Il Mulino, Bologna, 1974, p. 59.
40 Ibid.
p. 61.
41 Ibid.
p. 61.
42 In, Quaderni
del Carcere, citato, Vol. II, p. 866.
43 M.A.
Maciocchi, Per Gramsci, cit., p. 103.
44 A.
Gramsci, “Margini” in, Scritti politici, a cura di P. Spriano,
citato, p. 55. .
45 A. Gramsci,
“L'autocritica e l'ipocrisia dell'autocritica”, riprodotto nel libro di M.A.
Maciocchi, citato, il testo è a p. 98. Questo tema mette in luce la divergenza
tra i nonviolenti, che ritengono la disobbedienza civile come una delle armi
fondamentali della loro azione (da usare, come indica Pontara, solo dopo aver
utilizzato altre armi meno radicali) e N. Bobbio che, identificando la
nonviolenza con la democrazia non riusciva ad accettare questo strumento di
lotta. Su questo si veda: G. Pontara, Guerra, Disobbedienza civile,
Nonviolenza, citato, e A. L'Abate, “In memoria di Norberto Bobbio, 'perplesso'
della nonviolenza, maestro della democrazia civile”, in, Azione
Nonviolenta, Maggio, 2004.
46 A. Gramsci, “Gli
indifferenti”, (apparso su, La città futura) nel libro curato da Spriano
citato, p. 47.
47 La citazione gramsciana
è riportata in M.A.Maiocchi., op. cit. p. 114; ma manca una indicazione
puntuale da dove il testo è ripreso, forse dalla continuazione del testo
riportato prima, e cioè il rapporto di Gramsci al Comitato Centrale del PCI del
2/8/1926 (Archivio del PCI, 1926,393/43-48).
48 M.
A.Maciocchi, Per Gramsci, op.cit., p. 62
49 A.
Gramsci, Scritti giovanili, Einaudi, Torino, 1956, pp.149-150.
50 M. A.Maciocchi, Per
Gramsci, op.cit., p. 114.
51 A. Gramsci, “Due
rivoluzioni”, 5 luglio 1920, in , Ordine Nuovo, pp. 134-140, citato
in M.A. Maciocchi. op.cit. p.110.
52 M.A. Maciocchi, Per
Gramsci, op.cit., p.110.
53 A.Gramsci, Quaderni
del carcere, citato, vol. III, pp.1566-67. Ed in una altra annotazione,
sempre nei “Quaderni” (Vol.II , p. 860) dopo aver sostenuto come anche
nell’arte militare, nei paesi avanzati industrialmente e civilmente, le guerre
manovrate hanno solo una funziona tattica e non più strategica, sostituite in
gran parte dalla guerra di posizione, scrive: “La stessa riduzione deve
avvenire nell’arte e nella scienza della politica, almeno per ciò che riguarda
gli Stati più avanzati, dove la 'società civile' è diventata una struttura
molto complessa e resistente alle 'irruzioni' catastrofiche dell'elemento
economico immediato (crisi, depressioni,ecc.) le superstrutture della società
civile sono come il sistema delle trincee nella guerra moderna”.
54 A.Gramsci, Quaderni
del carcere, citato, vol. II, p. 973.
55 Maciocchi, op.cit. p.
126.
56 P.
Spriano, introduzione a A. Gramsci, Scritti Politici, citato, p. XIV.
57 Ibid. p. XVI.
58 Ibid. p. XVII.
59 Importanti le pagine
dedicate da Dolci a Gramsci come maestro di maieutica, l'arte che lo stesso
Dolci cercava di promuovere. Si veda: D. Dolci, La struttura maieutica e
l'evolversi, La Nuova Italia, Scandicci (Firenze), 1996,pp.108-117.
60 Di questo noto
pedagogista fiorentino si veda la relazione”Educazione e scuola in Gramsci”
presentata al Congresso Internazionale di Studi Gramsciani, Cagliari, 23-27
aprile 1967.
61 Si veda su questo: A.
L'Abate, “In memoria di Norberto Bobbio, perplesso della nonviolenza, maestro
della democrazia civile”, già citato.
62 Questa ipotesi è
adombrata da Spriano nella sua introduzione al libro di scritti politici di
Gramsci da lui curata, già citata. La Rossana Rossanda, in un articolo su il
Manifesto, citato dalla Maciocchi a p. 85 del suo volume, vede, nel pensiero
gramsciano, tre fasi distinte che corrispondono a tre fasi storiche: 1) Il
Gramsci .dei consigli che egli tende ad identificare addirittura nella rete del
partito, senza alcuna dialettica tra politico e sociale; 2) il Gramsci che,
fallita la rivoluzione italiana, 'scopre' l'URSS, vede che è ben diversa da
quella che lui credeva nella “Rivoluzione contro il Capitale”, e che cerca di
elaborare una real-politica per l'Europa; 3) il Gramsci dal carcere che
riflette ex-novo: sul tipo di società europee, sulla guerra di posizione e di movimento,
distaccandosi dall'impostazione dell'Internazionale di quel periodo, vale a
dire quella di 'classe contro classe'”.
63 Questa è la tesi
sostenuta da A. Minucci, allora direttore di “Rinascita”, ed appoggiata, in
quello stesso convegno, anche da Badaloni, un noto filosofo che è stato sindaco
comunista del Comune di Livorno. Al contrario Lelio Basso, altro marxista ma
non legato a quel partito, che pure aveva partecipato a quel convegno, ha
sostenuto la tesi esattamente contraria, e cioè che nei paesi del terzo mondo,
non democratici e dittatoriali, l'unica strada possibile era quella della
rivoluzione armata, mentre nei paesi democratici a capitalismo avanzato la
strada principale era quella della rivoluzione nonviolenta, una tesi molto più
in sintonia con le idee gramsciane di cui abbiamo parlato.
64 Sulla violenza
strutturale si veda: J. Galtung, T. Hoivic, “Structural and direct violence: a
note on operationalization”, Journal of Peace Research,1, 1971.
65 Sulla efficacia delle
lotte nonviolente che stanno cambiando la storia contemporanea si vedano: P.
Ackerman, J., Duval, A force more powerful: a century of nonviolent conflict, Palgrave,
New York, 2000, ed anche i documentari che corredano questo volume (Una forza
più potente), tradotti anche in italiano e distribuiti dalla rivista “ Azione
Nonviolenta”, che illustrano le lotte nonviolente vincenti dell'India, Sud
Africa, Stati Uniti, Cile, Danimarca, Polonia. Si vedano anche i volumi: J.
Galtung, Pace con nezzi pacifici, Esperia Ediz., Milano, 2000, e, A.
L'Abate, Per un futuro senza guerre, Liguori, Napoli, 2008.
66 Si veda di A. Capitini,
soprattutto il saggio. “Il posto dell'Europa nel mondo” in A. Capitini, Educazione
Aperta, La Nuova Italia, Firenze, 1967, Vol. I. Si veda anche, a
proposito dei limiti del riformismo, quanto scrive Capitini : ”come può un
riformismo soddisfare le esigenze così profonde di rinnovare le stesse
strutture, quanto ingiuste, inadeguate, vecchie, della civiltà attuale? Si
tratta ben altro che di correzione di particolari, c'è tutto un mondo guasto, e
bisogna riconoscerlo anzitutto per tale” in, Italia Nonviolenta,Libreria
Internazionale d'Avanguardia, 1949, pp. 99-103. Si veda anche di A. L'Abate
“L'aggiunta nonviolenta di Aldo Capitini alla transizione al socialismo”, in, Testimonianze,n.
212, marzo, 1979.