- “Sai che io, molto prima di Adriano Tilgher, ho scoperto e contribuito a popolarizzare il teatro di Pirandello? Ho scritto sul Pirandello, dal 1915 al 1920, tanto da mettere insieme un volumetto di 200 pagine e allora le mie affermazioni erano originali e senza esempio: il Pirandello era o sopportato amabilmente o apertamente deriso” / Gramsci alla cognata Tatiana, 19 marzo 1927
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Luigi Pirandello ✆ David Levine |
“Pensaci Giacomino”
Questa commedia di Luigi Pirandello è tutta uno sfogo di
virtuosismo, di abilità letteraria, di luccichii discorsivi. I tre atti corrono
tu un solo binario. I personaggi sono oggetto di fotografia piuttosto che di
approfondimento psicologico: sono ritratti nella loro esteriorità più che
in una intima ricreazione del loro essere morale. É questa del resto la
caratteristica dell’arte di Luigi Pirandello, che coglie della vita la smorfia
più che il sorriso, il ridicolo più che il comico: che osserva la vita con
l’occhio fisico del letterato, più che con l’occhio simpatico dell’uomo artista
e la deforma per un’abitudine ironica che è l’abitudine professionale più che
visione sincera e spontanea.
I personaggi sono di una povertà interiore spaventosa in
questa commedia, come del resto nelle novelle, nei romanzi e nelle altre
commedie dello stesso autore. Hanno solo delle qualità pittoriche, o meglio pittoresche:
un pittoresco caricaturale, con qualche velatura di melanconia, che è anch’essa
smorfia fisica più che passione. Il protagonista della commedia è un vecchio
professore di storia naturale, incartapecoritosi in 34 anni d’insegnamento: un
rudere d’umanità, un detrito, senza più alcuna caratteristica d’uomo
all’infuori del profilo fisico. Il movente dell’azione, l’unico che si può
sorprendere, è questo: il prof. Toti, che per tanti anni ha servito lo Stato,
essendone ricompensato così miseramente che non ha potuto crearsi una famiglia,
vuole ora vendicarsi del governo. Prima di morire vuole prendere moglie, una
moglie giovanissima, per lasciarle in eredità il diritto alla pensione, per far
pagare al governo in tanti anni di pensione alla giovane vedova tutti quei
quattrini che egli non ha potuto avere, tutti quei quattrini che a lui sono
mancati sempre per poter vivere veramente, per essere uomo e non macchina
d’insegnamento. Giocare al governo questo tiro birbone diventa per il prof.
Toti l’unica ragione dei pochi anni di esistenza che gli rimangono. Ma siccome
non è un malvagio, non vuole che la moglie soffra, e perciò le consente le più
ampie libertà; aiuta il suo sostituto nel còmpito maritale, lo ama come un
figlio, e incurante di tutto, delle chiacchiere del paese, dei rimbrotti del
direttore del ginnasio, del ridicolo di cui egli stesso è oggetto, va innanzi
verso la mèta. Giacomino, l’amante di sua moglie, vorrebbe sciogliersi dalla
situazione in cui è impigliato; il prof. Toti si reca a casa sua, gli conduce a
casa sua il figlioletto, si sbarazza di ogni intralcio, di parenti sbigottiti,
di sacerdoti moralisti, e perora la causa di sua moglie e finalmente riesce a
condurre Giacomino nella via del dovere, a continuare il suo còmpito di marito
della giovane moglie dell’impiegato che vuol vendicarsi del governo senza
perciò creare altre vittime.
La commedia ha avuto molto successo, Angelo Musco ha fatto
della figura del prof. Toti una creazione scenica ammirevole per sincerità, per
misura, per efficacia rappresentativa.
24 marzo 1917
“Liolà”
I tre atti
nuovi di Luigi Pirandello non hanno avuto successo all’Alfieri. Non
hanno avuto almeno quel successo che è necessario perché una commedia diventi
redditizia. Ma Liolà ciò nonostante rimane una bella commedia, forse la
migliore delle commedie che il teatro dialettale siciliano sia riuscito a
creare. L’insuccesso del terzo atto, che ha determinato il ritiro momentaneo
del lavoro dalle scene, è dovuto a ragioni estrinseche: Liolà non finisce
secondo gli schemi tradizionali, con una buona coltellata, o con un matrimonio,
e perciò non è stata accolta con entusiasmo; ma non poteva finire che così come
è,. e pertanto finirà con l’imporsi.
Liolà è il prodotto migliore dell’energia letteraria di
Luigi Pirandello. In esso il Pirandello è riuscito a spogliarsi delle sue
abitudini retoriche. Il Pirandello è un umorista per partito preso, ciò che
vuol dire che troppo spesso la prima intuizione dei suoi lavori viene a
sommergersi in una palude retorica di moralità inconsciamente
predicatoria, e di molta verbosità inutile. Anche Liolà è passato per questo
stadio, e allora esso si chiamava Mattia Pascal, ed era il protagonista di un
lungo romanzo ironico intitolato appunto: Il fu Mattia Pascal, pubblicato verso
il 1906 dalla Nuova Antologia e poi ristampato dal Treves. In seguito il
Pirandello ha ripensato alla sua creazione, e ne è venuto fuori Liolà;
l’intreccio rimane lo stesso, ma il fantasma artistico è stato completamente
rinnovato: esso è diventato omogeneo, è diventato pura rappresentazione, libero
completamente di tutto quel bagaglio moraleggiante e artatamente umoristico che
lo aduggiava. Liolà è una farsa, ma nel senso migliore della parola, una farsa
che si riattacca ai drammi satireschi della Grecia antica, e che ha il suo
corrispondente pittorico nell’arte figurativa vascolare del mondo ellenistico.
C’è da pensare che l’arte dialettale così come è espressa in questi tre atti
del Pirandello, si riallacci con l’antica tradizione artistica popolare della
Magna Grecia, coi suoi fliaci, coi suoi idilli pastorali, con la sua vita dei
campi piena di furore dionisiaco, di cui tanta parte è pure rimasta nella tradizione
paesana della Sicilia odierna, là dove questa tradizione si è conservata più
viva e più sincera. È una vita ingenua, rudemente sincera, in cui pare
palpitino ancora i cortici delle querce e le acque delle fontane: è una
efflorescenza di paganesimo naturalistico, per il quale la vita, tutta la vita
è bella, il lavoro è un’opera lieta, e la fecondità irresistibile prorompe da
tutta la materia organica.
Mattia Pascal, il melanconico essere moderno, dall’occhio
strabico, l’osservatore della vita volta a volta cinico, amaro, melanconico,
sentimentale, vi diventa Liolà, l’uomo della vita pagana, pieno di robustezza
morale e fisica, perché uomo, perché se stesso, semplice umanità vigorosa. E la
trama si rinnova, diventa vita, diventa verità; diventa anche semplice, mentre
nella prima parte del romanzo primitivo era contorta e inefficace. Zio Simone
smania perché vuole avere un erede, che giustifichi il tenace lavoro suo che ha
accumulato una ricchezza: è vecchio, e incolpa la sterilità della moglie, che
non ha capito che Simone vuole un erede purchessia, vuole un bambino a tutti i
costi, ed è disposto a fingere di essere egli il padre. Una sua nipote, che ha
capito gli umori del vecchio, ed è stata resa madre da Liolà, propone a Simone
di diventare egli il padre del nascituro, gli propone di farsi credere egli il
padre, e il vecchio accetta. La moglie legittima viene percossa, viene
umiliata, perché non ha fatto altrettanto. Per diventare la padrona, fa
altrettanto. Zio Simone ha un figlio legale. Ma è Liolà che dà vita a queste
nuove vite, e dà vita alla commedia; Liolà che ha sempre la gola piena di
canti, che entra sempre nella scena accompagnato da un coro bacchico di donne,
accompagnato dai suoi tre altri figlioletti naturali che sono come dei
satiretti che ubbidiscono all’impulso della danza e del canto, che sono
impastati di suono e di danza come le creature primitive dei drammi
satireschi. Liolà voleva sposare Tuzza, la nipote di Simone, prima che fosse
imbastito il trucco dell’erede, ora che l’erede legale c’è Tuzza vorrebbe
essere sposata, ma Liolà non vuole, non vuole rinunziare ai suoi canti, alla
danza dei suoi figlioli, alla vita dionisiaca del lavoro lieto: e il pugnale di
Tuzza è stroncato dalle sue mani che però non sanno l’odio e la vendetta. Ma
per il pubblico ci voleva il sangue o il matrimonio, e perciò il pubblico non
ha applaudito.
(4 aprile 1917).
“Casi è (se vi pare)”
La verità in sé non esiste, la verità non è altro che
l’impressione personalissima che ciascun uomo ritrae da un certo fatto. Questa
affermazione può essere (anzi è certamente) una sciocchezza, un pseudogiudizio
emesso da un facilone spiritoso, per ottenere con gli incompetenti un successo
di superficiale ilarità. Ma ciò non importa. L’affermazione può dare luogo a un
dramma lo stesso: non è detto che i drammi succedano per ragioni logicissime.
Ma Luigi Pirandello non ha saputo trarre dramma da questa affermazione
filosofica. Essa rimane esteriorità, essa rimane giudizio superficiale. Dei
fatti si svolgono, delle scene si susseguono. Non hanno altra ragion d’essere
che questa: la curiosità pettegola di un piccolo mondo provinciale. Ma neppure
essa è una vera ragione, una ragione necessaria e sufficiente di dramma; e non
è neppure motivo a rappresentazione viva e artistica di caratteri, di persone
vive che abbiano un significato fantastico, se non logico. I tre atti di L. Pirandello
sono un semplice fatto di letteratura, privo di ogni connessione drammatica,
privo di ogni connessione filosofica: sono un puro e semplice aggregato
meccanico di parole che non creano né una verità, né una immagine. L’autore li
ha chiamati parabola: l’espressione è esatta. La parabola è un qualcosa di
misto tra la dimostrazione e la presentazione drammatica, tra la logica e la
fantasia. Può esser e mezzo efficace di persuasione nella vita pratica, è un
mostro nel teatro, perché nel teatro non bastano gli accenni, perché nel teatro
la dimostrazione è impersonata in uomini vivi, e gli accenni non bastano più, e
le sospensioni metaforiche devono scendere al concreto della vita, perché nel
teatro non bastano le virtù dello stile per creare bellezza, ma è necessaria la
complessa rievocazione di intuizioni interiori profonde di sentimento che
conducano a uno scontro, a una lotta, che si snodino in una azione.
La dimostrazione è fallita nella parabola di Pirandello. La
verità in sé non esiste, esiste l’interpretazione che essa dànno gli uomini.
L’interpretazione è vera, quando di un fatto rimangono tali documenti da
permettere agli uomini di buona volontà la vera interpretazione. Del fatto che
dà luogo alla parabola esistono solo due testimoni-documenti: e i due sono
interessati al fatto, e non appaiono che esteriormente, nell’apparenza sensibile
che si sviluppa da motivi che rimangono inesplorati. In un paese di provincia
arrivano tre personaggi superstiti del terremoto della Marsica. marito, moglie
e una vecchia. La loro vita è circondata di mistero. Il mistero solletica tutte
le curiosità pettegole del paese: si ricerca, si indaga, si fa intervenire
l’autorità. Nessun risultato. Il marito sostiene una cosa, la vecchia un’altra,
uno lascia credere che l’altra sia pazza: chi ha ragione? Il signor Ponza
sostiene d’essere vedovo di una figlia della signora Frola, d’essersi
riammogliato e di tenere con sé (nello stesso paese, ma in diversa casa) la
Frola solo per un sentimento di pietà, perché la poveretta, impazzita alla
morte della figliola, crede che la seconda signora Ponza sia sua figlia, sempre
viva. La signora Frola sostiene che il Ponza abbia avuto in un certo momento
della sua vita un oscuramento della ragione: che in quel periodo gli sia stata
sottratta la moglie e che egli l’abbia creduta morta, e non si sia voluto
ricongiungere con lei che in seguito a un nuovo matrimonio simulato, dandole un
altro nome, credendola un’altra persona. I due separatamente sembrano
saggissimi, messi a confronto, devono risultare in contraddizione, sebbene
reciprocamente operino come se veramente uno faccia la commedia per pietà
dell’altro. Quale è la verità? Chi dei due è il pazzo? Mancano i documenti: il
paese loro d’origine è distrutto dal terremoto, chi potrebbe informare è morto.
La moglie del Ponza fa una breve apparizione, ma l’autore preso nell’incanto della
sua dimostrazione, ne fa un simbolo: la verità che appare velata, e dice: io
sono l’una e l’altra cosa, io sono ciò che si crede io sia. Uno sgambetto
logico semplicemente. Il vero dramma l’autore l’ha solo adombrato, l’ha
accennato: è nei due pseudopazzi che non rappresentano però la loro vera vita,
l’intima necessità dei loro atteggiamenti esteriori, ma sono presentati come
pedine della dimostrazione logica. Un mostro pertanto, non una dimostrazione,
non un dramma, e come residuo, del facile spirito e molta abilità scenografica.
Hanno interpretato i tre atti la Melato, il Betrone, il
Paoli, il Lamberti con molta vivacità e abilità dialogica. Pochi applausi a
ogni chiusura di velario.
(5 ottobre 1917)
“Il piacere
dell’onestà”
Luigi Pirandello è un « ardito» del teatro. Le sue commedie
,sono tante bombe a mano che scoppiano nei cervelli degli spettatori e
producono crolli di banalità, rovine di sentimenti, di pensiero. Luigi
Pirandello ha il merito grande di far, per lo meno, balenare delle immagini di
vita che escono fuori dagli schemi soliti della tradizione, e che però non
possono iniziare una nuova tradizione, non possono essere imitate, non possono
determinare il cliché di moda. C’è nelle sue commedie uno sforzo di pensiero
astratto che tende a concretarsi sempre in rappresentazione, e quando riesce,
dà frutti insoliti nel teatro italiano, d’una plasticità e d’una evidenza
fantastica, mirabile. Così avviene nei tre atti del Piacere dell’onestà. Il
Pirandello vi rappresenta un uomo che vive la vita pensata, la vita come
programma, la vita come « pura forma ». Non è un uomo comune questo Angelo
Baldovino. È stato un briccone, è un relitto, secondo le apparenze. Non è, in
verità, che un uomo verso il quale la società ha avuto il torto di essere tale
per cui la « pura forma » è in realtà adeguata al resto della realtà. Il
Baldovino si innesta nella commedia in un ambiente favorevole e vive la sua
vita. Diventa il marito legale di una nobile signorina che è stata resa madre
da un uomo ammogliato. Accetta la parte, ponendosi degli obblighi di onestà, e
ponendone agli altri, e sviluppa il suo pensiero. Diventa subito ingombrante:
il suo pensiero si realizza per sé, ma scombussola tutto l’ambiente e
arriva a questo punto morto preveduto dal Baldovino, ma paradossale per gli
altri; è necessario che il marchese Fabio, il seduttore, diventi ladro, perché
la « pura forma » si sviluppi in tutta la sua logica, e Baldovino appaia essere
il ladro, pur rimanendo accertato per tutti gli interessati che il vero ladro è
il marchese, e che non impunemente si accettano dei contratti in cui la logica
e la volontà uno deciso a rispettarla, sono elementi essenziali. Arrivati a
questo punto di scomposizione e di dissoluzione psicologica, la commedia ha uno
svolto pericoloso, e un po’ confuso. Le reazioni sentimentali hanno il
sopravvento: la bricconeria effettiva del marchese Fabio prende un risalto di
una evidenza umoristica catastrofica, e la moglie putativa diventa moglie
effettiva e appassionata del Baldovino, che non è un briccone un galantuomo, ma
solo un uomo che vuole essere l’uno e l’altro, e sa essere effettivamente
galantuomo, lavoratore, perché queste parole non sono che attributi contingenti
di un assoluto che solo il pensiero e la volontà creano e alimentano.
La commedia di Pirandello ha avuto un crescendo di applausi,
dovuto alla virtù di persuasione insita nel processo fantastico dell’intreccio.
Ruggero Ruggeri sosteneva la parte del Baldovino, la Vergani quella della
signorina, poi signora Agata Baldovino, il Martelli quella del marchese Fabio.
Col Pettinello e la Mosso presentarono un insieme interpretativo ottimo, ciò
che contribuì a far rilevare meglio il dialogo serrato e pieno di scorci della
commedia.
(29 novembre 1917)
“A’ berritta ccu li
ciancianeddi”
È una parentesi nel teatro di Luigi Pirandello, un episodio,
un abbozzo. Rientra nel suo genere, è prodotto autentico del temperamento
personalissimo dell’autore, ma non è stata elaborata, e rifinita come le altre
commedie. Lo spunto stesso ridiventa comune. Nelle altre commedie il motivo non
esce certo dalle esperienze del passato, siano esse intellettuali, siano
sentimentali, ma l’autore svecchia il motivo antico, lo presenta rivestito di peculiarità
caratteristiche, i personaggi sono suoi, della sua fantasia, le parole che
dicono hanno una vita nuova, di stile e di passione. In questi due atti c’è
poca intensità: la dimostrazione soverchia l’azione, la diluisce, la svanisce. A’
berritta ccu li ciancianeddi continua la serie delle altre commedie, è un
residuo delle altre commedie: continua la rappresentazione esemplificata delle
contraddizioni tra l’essere e il voler essere, tra l’apparenza e la realtà, tra
l’immagine e il vero, che hanno avuto due momenti drammatici nel Così è (se vi
pare) e nel Piacere dell’onestà. Ma in questi due atti il sofisma, il paradosso
non acquista pregio nel dialogo, non suscita dramma originale: qualche battuta,
qualche piccola scena, la vita è solo nell’interprete in Angelo Museo, che
riesce a far superare il tedio delle lunghe parlate non più interessanti spesso
di quelle del più melenso scrittore di teatro.
C’è qui il marito tradito, marito vecchio, brutto e
innamorato, che non vuole diventare lo zimbello del paese, che non vuole sul
suo capo la berretta coi sonagli della beffa, dello scherno. Egli sopporta il
tradimento per conservare la donna, poiché è sicuro del segreto. Teorizza lo
sdoppiamento dell’uomo in quanto intimità e in quanto termine di relazione
sociale: vuole il rispetto umano, vuole la tranquillità. Il segreto viene
propalato con uno scandalo clamoroso. La moglie viene colta in flagrante
adulterio. Un tranello è stato teso dalla moglie gelosa dell’adultero, e
l’arresto dei due colpevoli rovinerà l’esistenza di don Nuccio, se egli non
riesce a far credere che si tratta di una pazzia, che l’accusatrice è stata una
pazza. Così si chiudono i due atti: il marito becco pone un dilemma: o la
strage dei due colpevoli sua, moglie e l’amante, o la finzione della pazzia
nell’accusatrice nella donna gelosa che non ha pensato che a se stessa e ha
rovinato un quarto innocente. E don Nuccio ottiene questa finzione
indirettamente, facendo esasperare la donna, traendola a urlare, a inveire
incompostamente goffamente contro di lui, facendosi chiamare becco dalla
signora che diventa una furia, che perde la sua apparenza civile e lascia senza
freni la vena di follia che esiste in ogni umano.
La commedia si impernia tutta su Angelo Museo, che riesce
colla sua comicità misurata, fluida nel lungo discorso, ossessionata,
irresistibilmente trascinatrice nel momento culminante a destare l’interesse
degli spettatori, che si raccoglie nei due atti per dilatarsi ed
espandersi nella risata finale.
(27 febbraio 1918)
“Il giuoco delle
parti”
Nel primo atto del Giuoco delle parti, Luigi Pirandello
inizia la presentazione della « moglie » come personificante la visione che
della fisica della vita hanno gli scultori e i pittori del futurismo
postcubistico: l’inferiorità spirituale è una scomposizione di volumi e di
piani che si continuano nello spazio, non una limitazione rigidamente definita
in linee e superfici. Il « marito » invece è fortemente accentrato in un io
ragionante, ben levigato e ravviato come un Concetto puro, che gira intorno a
un pernio, trottola silenziosa che la volontà, resa libera da ogni contingenza
condizionatrice, fa roteare sopra un piano di vetro. Evidentemente le due
creature non possono sistemare un ordine di rapporti di convivenza affettuosa:
il marito è impenetrabile ai piani e volumi vibratili della moglie, e questa,
non riuscendo a continuarsi nel marito, se ne sente limitata, ella che per
natura deve continuarsi in tutte le vite spirituali e in tutti i territori del
mondo, e soffre e smania e aspira alla liberazione del suo io, inevitabilmente
aspirando alla distruzione del suo incoercibile contraddittorio. Il concetto
puro trionfa del protoplasma vibratile: la filosofia classica trionfa di
Bergson; le contingenze si sottomettono alla volontà della trottola socratica.
C’è un « amante ». perché la commedia rientra nella serie dei terzetti
teatrali, ma l’amante non impersona alcuna idea; è sorda materia, è oggettività
opaca, è il « fesso » della vita, che logicamente è condotto a rimetterci la
pelle, perché la dialettica dei contrari giunga a uno svolgimento che potrebbe
essere la lacrima del concetto puro e l’urlo belluino del protoplasma in
movimento: la umanità, insomma, che sbalordisce ritrovare ancora in tanta orgia
di girandole filosofiche da insegnante in un liceo di provincia. Banalmente
esprimendosi: la moglie vuol disfarsi del marito; insultata come moglie, vuole
che il marito si batta in duello. Il marito non la intende così e costruisce,
sulle contingenze che la natura esteriore al suo io gli getta tra i piedi, il
trionfo della ragione logica: accetta il duello all’ultimo sangue e poi non si
batte, costringendo a battersi e a farsi uccidere, l’amante che è il vero
marito. La vita è per lui, concetto puro, un giuoco meccanico, di cui prevede e
dispone a priori le parti, facendo sempre scacco matto.
La commedia del Pirandello non è delle migliori del genere
Pirandello: il giuoco vi è diventato meccanismo esteriore di dialogo, puro
sforzo letterario di verbalismo pseudofilosofico. L’incomprensione reciproca
delle marionette sceniche si è proiettata nel teatro: pieno dominio di rnonadi
senza porte e senza finestre, incomunicabili e incoercibili. l’autore, i
personaggi e il pubblico.
(6 febbraio 1919)
“L’innesto”
Esiste nell’arte del giardinaggio una forma di innesto che
si pratica nel mese d’agosto e si chiama innesto a occhi chiusi. La pianta
accoglie « amorosamente » il tallo, col quale la mano rude ma esperta del
villano la violenta, lo assimila al suo amore, al suo desiderio di frutto, lo
accoglie a «occhi chiusi », nutrendolo della sua follia, di tutta la sua vita
che aspira alla maternità, alla creazione di nuove vite. Chi domanderà alla
innocente pianta l’origine legittima della sua fecondità? Anche la signora
Laura Banti è una sterile pianta, violentemente aggredita da uno sconosciuto
villano, la quale ha ricevuto a «occhi chiusi » il germe vitale che la renderà
madre, e lo ha assimilato alla sua vita, al suo amore, e lo ha nutrito di tutto
il suo spirito, del quale è essenziale parte lo spirito, l’amore e il corpo
fisico del consorte legittimo. Solo che questo legittimo e ben individuato
consorte ha i suoi scrupoli e la sua suscettibilItà e la sua volontà che sono
due con quelli della moglie e non solo uno come nello stesso fiore sterile il
pistillo e il gineceo che compiono il rito fecondatore senza nulla generare.
Come venga superato lo stato d’animo di Giorgio Banti, come Giorgio Banti
finisca col dividere la follia amorosa di sua moglie e accettare per suo (credere
suo) il figlio nascituro, dovrebbe essere argomento di questi tre atti del
Pirandello.
Il quale non ha voluto e non ha osato affrontare apertamente
la concezione elementare della commedia: un figlio è solo fisica generazione,
mero prodotto di un accoppiamento casuale, oppure è amore essenzialmente, nuova
vita che scocca dalla fusione intima permanente di due vite? e ha irrigidito
un’azione, ricca di umanità e di liricità, intorno a una fredda metafora da
giardinaggio, e ha finito col credere un po’ anch’eg1i, all’accostamento
artificiale tra gli uomini e le piante e ha presentato questo problema
sessuale, che poi fondamentale nella vita degli uomini, avvolgendolo . una artificiosa
bambagia di dialogo a mezzi termini, ad accenni, a furtività sentimentali,
accatastando tre gradi di vita in cui il problema si presenta (la pianta, una
rozza villanella e la spirituale signora Banti), quasi non sapesse come
esprimere al pubblico e come organare in atto la concezione che pure era chiara
nella sua fantasia.
Sono stentati i tre atti, prolissi nella loro secchezza e
congestione. L’argomento è posto, ma non vivificato, la passione e la follia
sono presupposte, ma non rappresentate. Il Pirandello non ha neppure realizzato
una di quelle sue « conversazioni » drammatiche, che se non conteranno molto
nella storia dell’arte, avranno invece molta parte nella storia della cultura
italiana.
(29 marzo 1919)
“La ragione degli
altri”
La casa è dove sono i figli. La convivenza familiare non può
essere fondata su meri rapporti sessuali, non può essere fondata sul codice,
non può essere fondata sulle idee convenzionali di dovere, non può essere
fondata su motivi sentimentali di pietà; un solo legame esiste, elementare e
perciò costante e incoercibile, i figli e solo dove sono i figli esiste la
casa...
La logica di questo principio (condotta fino all’assurdo: i
figli anche se di un’altra donna, la maternità anche se... presa a prestito)
sostanzia questi atti del Pirandello. Pirandello abbandona i motivi letterari i
motivi… filosofici di intrigo e di conversazione drammatica e poggia lo
svolgimento dell’azione su un motivo primordiale di umanità, la più profonda e
istintiva. Il dramma si rivela atroce e scheletrico nel terzo atto: sono di
fronte due donne che si contendono una bambina, l’una per difendere la sua
maternità, non per conservare un amante: l’altra per avere in casa una figlia
di suo marito, apparire a suo marito come madre, e con questa illusione di
maternità ricostruire o costruire la famiglia, dare all’amore una moralità
Lotta atroce, crudele perché la madre dovrà rinunziare alla sua bambina per
assicurarle un avvenire, il nome del padre, una ricchezza una casa; dramma
rappresentato senza lenocini oratori, senza sdilinquimenti senza scene
grandiloquenti e perciò direttamente rivolto a colpire tutte le abitudini
sentimentali del pubblico, che reagisce con irti tutti i pregiudizi
piccolo-borghesi. Ma il Pirandello è poi riuscito a esprimere il dramma
in tutta la sua pienezza? Si ha l’impressione penosa, nei primi due atti, dello
stento, del tormento senza uscita, che si adagia nella direzione nella prolissa
insistenza su particolari inutili: il motivo fondamentale è accennato vagamente
non conduce e non indica lo sviluppo dell’azione: il terzo atto appare come una
rivelazione troppo cruda troppo offensiva del… buon gusto e delle buone
maniere. Il dramma non si replica.
13 gennaio 1920
“Tutto per bene”
Nei tre atti di Tutto per bene, Luigi Pirandello dipana
questa matassa: un tale Martino Lori ha sposato 1a figlia di un illustre
scienziato che lascia, morendo, un pacco di appunti sulle sue ricerche rimaste
incompiute. Salvo Manfroni, discepolo dello scienziato, manomette e gli appunti
e la figlia del suo maestro, moglie del Lori. Manfroni diventa una
illustrazione della scienza, è deputato, diventa ministro, diventa senatore; il
Lori è da lui trascinato nella carriera politica e giunge fino al posto di
consigliere di Stato. Questo tale Martino Lori non sospetta di nulla; non sospetta
che sua moglie l’abbia tradito, non sospetta che sua figlia Palma sia invece
figlia del Manfroni, non sospetta di nulla, sebbene il Manfroni si sostituisca
a lui nel curare la fanciullina, divenuta orfana della madre, e la tiri su per
conto suo e le costituisca una dote e le trovi un marito aristocratico; non
sospetta di nulla, sebbene tutti gli intimi di casa sappiano e Palma sappia, e
il fidanzato di Palma sappia. Non sospetta di nulla e per sedici anni si
costruisce una vita sua particolare, che a tutti pare la commedia di un
miserabile, contento dei benefizi ricavati dal consenso dato alla
moglie per le tresca col grande uomo politico. Non sospetta nulla e un bel
giorno, dopo tanto tempo, dopo tanta illusione sull’onestà e sulla bontà degli
uomini, la verità gli è rivelata. La commedia si impernia su questa
rivelazione: dovrebbe essere la rappresentazione di questo dramma fulmineo: il
dramma di un uomo che si è costruita tutta la vita interiore ed esteriore
sull’ignoranza di un fatto essenziale della sua vita stessa, e d’un tratto si
trova sperduto, perché il suo « io » intimo è svanito e il panorama
circostante, veduto sempre in un modo per tanti e tanti anni, è mutato
radicalmente, è un panorama di rovine e di macerie. Bisogna subito dire che il Pirandello
si limita a dipanare la matassa, a condurre l’intrigo; il lavoro è affrettato,
e la figura di Martino Lori non riesce a dominare lo svolgimento e a
organizzarlo per giustificarlo; è smorto, non reagisce altro che a sospiri e
gemiti; non diventa un carattere, rimane una vittima senza energia né
sentimentale, né dialettica (come avviene nelle creazioni del Pirandello), che
si affloscia e scompare, rientrando nel buio della nullaggine drammatica.
17-07-1920