
- Recensione di: Peter D. Thomas, ‘The Gramscian Moment. Philosophy, Hegemony and Marxism. Historical Materialism’ Book Series, Vol. 24, Brill, Leiden-Boston, 2009.
che ha, per così dire, costruito l’experientia crucis nella transizione atlantica di Gramsci.

Molto più convincenti sono invece l’approccio di Peter
Thomas alla lettura del Gramsci di Anderson e la conseguente critica. Anderson,
nel suo importante scritto “The Antinomies of Antonio Gramsci” del 1976,
sosteneva che “le ricerche di Gramsci in carcere fossero caratterizzate da una
seria di ambiguità che avrebbero originato una progressiva trasformazione e
deformazione delle sue tesi, in particolare di quelle riguardanti lo Stato e
del suo centrale concetto di egemonia”. Secondo Anderson l’errore dunque sta
nel manico ed originaria è la conseguente ambigua molteplicità degli usi del
pensiero gramsciano. Il concetto di “rivoluzione passiva” rappresenterebbe, in
particolare, uno scivolamento di Gramsci verso Kautsky; il concetto di
egemonia, in secondo luogo, esprimerebbe una soverchia insistenza sulla potenza
della società civile contro il potere statale (tesi che anche Bobbio aveva hegelianamente
sottoscritto), ecc. Non sarà difficile (anche se laborioso) per Thomas
rintuzzare queste interpretazioni che pur sono divenute opinioni ferme e
diffuse nel pensiero anglosassone.
Ora, Thomas contesta sia filologicamente (essenzialmente
sulla base dell’ottimo contributo di Gianni Francioni) che politicamente la
lettura critica che Anderson fa di questi concetti fondamentali e ne ricompone,
invece, una figura sostanzialmente nuova e forte. Lo fa in maniera efficace
(val la pena, incidentalmente, di ricordare che questo libro riproduce, per
l’intensità e l’acribia del suo incedere, la grande tradizione marxologica
tedesca e russa – cosa che ne conferma la validità scientifica). Dunque,
selezionando alcuni motivi di questa opera, a me sembra ottima la discussione
del concetto di “rivoluzione passiva” che ci è offerta, con risonanze che
superano la semplice ricostruzione e che ci trasferiscono su un terreno ormai
“biopolitico”. Vale a dire che qui la “rivoluzione passiva” della borghesia è
mostrata attraverso passaggi molecolari, fissati e riconfigurati nella durata
– passaggi che incidono egualmente (e reciprocamente, cioè
dialetticamente) sulle strutture e sulle soggettività del processo storico.
Sono particolarmente sensibile a questa definizione di “rivoluzione passiva”
– uno strumento concettuale del quale fui, più o meno consapevolmente, un
utilizzatore nel mio sforzo di descrivere, fra Descartes e Spinoza, la genesi
dell’ideologia borghese, fra accumulazione primitiva del capitale, configurazione
dello Stato assoluto ed alternative repubblicane.
Altrettanto forte e completa è l’analisi che Thomas conduce
del concetto di “egemonia”, quando ne costruisce l’originalità sia a fronte
della storia prerivoluzionaria della Russia sia a fronte delle esperienze del
bolscevismo costituente e fino alla Nep. Questa originalità consiste nel
rifiuto radicale di considerare l’egemonia come una teoria generica del potere
sociale e nel collegarla invece alla definizione della “forma-Stato”, così come
essa è venuta configurandosi nel mondo occidentale, e nelle sue rivoluzioni.
Rinata nella figura della dittatura del proletariato, l’egemonia è un’arma da
conquistare e da applicare nel processo di lotta per la realizzazione del
socialismo. Anche qui l’analisi gramsciana integra momenti di estrema
preveggenza nel considerare l’egemonia proletaria come radicamento su un
contesto biopolitico (quello dovuto all’esperienza rivoluzionaria di classe
operaia) ovvero – di contro – come espressione della dittatura della borghesia,
del fascismo, egemonia che dallo Stato investe la società, configurando
quest’ultima come “biopotere”. Me è solo il primo concetto di egemonia, quello
di classe, che contiene quella potenza costitutiva che lo rende un dispositivo
ontologico. In questo mio uso di categorie foucaultiane, non mi sembra di
strapazzare le categorie gramsciane. Credo il contrario di dare, con questi
riferimenti, ancor più attualità alle innovazioni interpretative di Thomas
(sarebbe davvero tempo che qualche studioso ripercorresse il pensiero di
Gramsci dal punto di vista foucaultiano).
Bon, una volta condotto a termine questo lavoro di
ridefinizione dei concetti, andando oltre le tradizioni interpretative fin qui
consolidate, Thomas cerca di comporre una definitiva figura del pensiero
gramsciano. Mi permetto di riprendere a questo proposito un brano conclusivo di
Thomas: “storicismo assoluto, immanenza assoluta e umanesimo assoluto. Questi
concetti dovrebbero essere guardati come tre ‘attributi’ di un progetto
(costitutivamente incompleto) di sviluppo di marxismo come filosofia della
prassi. Presi in una dinamica in fertile interazione, questi tre attributi
possono essere considerati come brevi dispositivi per l’elaborazione di un
programma di ricerca autonomo per una filosofia marxista dell’oggi, come un
intervento nel Kampfplatz di una filosofia contemporanea che tenti di
aderire e di rinnovare l’originale gesto critico e costruttivo di Marx”. È
dunque sul terreno di un’assoluta riduzione dei concetti alla storia che
diviene possibile una grammatica aperta e traducibile per l’organizzazione
egemonica delle relazioni sociali. È sul terreno dell’immanenza, del rifiuto di
ogni forma di trascendenza che una pratica sociale può costruirsi come teoria,
meglio, stabilire la costituzione di mutua e produttiva correlazione fra teoria
e pratica. Ed infine, è solo un assoluto umanesimo che può porre le basi della
realizzazione di una opera dialettico-pedagogica di egemonia – “in altre
parole, la nozione di una nuova forma di filosofia come elemento nello sviluppo
di un apparato egemonico alternativo di democrazia proletaria”.
Una sola osservazione, per finire. Perché mai questo
pensiero gramsciano, così ricostruito, dovrà ancora rappresentarsi come una
“filosofia”? Meglio, la praxis, il pensiero che la configura dentro i
parametri dello storicismo, dell’immanenza e dell’umanesimo, possono ancora
essere definiti come “filosofia”? La filosofia non diviene invece un’illusione
insostenibile, uno strumento inutilizzabile una volta che quei criteri – storicismo,
immanenza ed umanesimo – siano stati assunti come categorie della
riflessione nella praxis? Che cos’è più infatti la filosofia quando siano
stati distrutti i suoi riferimenti alla trascendenza del teologico-politico ed
alle residue tematiche della secolarizzazione? La filosofia ormai costituisce
– questo è il mio parere, confermato da un gramscismo alla Thomas
– un relitto, buono o cattivo, una variante più o meno reazionaria del
tentativo della borghesia di comprensione del suo proprio destino. Ma allora,
una volta ricollocato il pensiero laddove Thomas lo colloca, perché voler
conclusivamente considerare Gramsci un filosofo? Sarebbe mai interessata questa
qualificazione a Gramsci stesso? L’oggetto dellapraxis non è filosofico ma
storico, immanente, umano – dunque rivoluzionario. Il Gramsci di
“Americanismo e fordismo” sottolinea: “in America, la razionalizzazione ha
determinato la necessità di elaborare un nuovo tipo umano, conforme al nuovo
tipo di lavoro e di processo produttivo.” È il continuo rivoluzionamento
dell’uomo che la praxis addita.