
Questo intervento è stato fatto in francese al Congresso
Marx Internazionale IV, nel settembre 2004 a Parigi. Questa è la prima
traduzione italiana. Ho ripreso questo intervento perché mi sembra utile
nel discutere contro le tentazioni “nazionaliste” (in realtà solo “populiste”)
che cominciano a nascere e a presentarsi nel dibattito delle sinistre
riformiste in questa fase di crisi. Quanta nostalgia piccolo-borghese per un
nulla di possibilità e di scopo! Abbasso l’ideologia!
La mia impressione, quando sono emerse le prime polemiche
attorno al concetto di “Empire”, è stata che il rifiuto teorico di
questo concetto (in quanto nuova figura della sovranità all’interno e al
di sopra della mondializzazione dei mercati) non fosse pertinente. Il
concetto di Impero, in sé, come ordine nella e sulla globalizzazione dei
mercati, è infatti in qualche modo evidente. Quelli che rigettano il
concetto di Impero in nome dell’importanza delle antiche categorie
dell’imperialismo lo fanno piuttosto perché rifiutano – politicamente –
quel primo concetto: essi vedono infatti nella figura e nella presenza dello
Stato-nazione la condizione essenziale dell’agire politico. Essi rifiutano, per
così dire, il concetto di Impero per sé, considerandolo insufficiente a
fronte dell’urgenza della lotta e dell’organizzazione, che essi non possono
concepire al di fuori del terreno costituzionale dello Stato moderno. Il
problema, dunque, appare quando noi sosteniamo che è proprio su un terreno
politico ed organizzativo che oggi è necessario andare al di là dello
Stato-nazione.
[Per procedere sul terreno teorico, vorrei tuttavia
sottolineare che una delle rare critiche che siano state sviluppate sul tema
dell’Impero in sé (quelle di Jacques Bidet, che sostiene che questo
concetto oltrepasserebbe e mistificherebbe quella tradizione dell’analisi
marxista che stabilisce, da una parte, la struttura del potere e dello
sfruttamento capitalista e, dall’altra parte, il sistema-mondo, articolato
nella gerarchia della dipendenza), è stata successivamente presa in conto in “Multitude”.
Presa in considerazione ma anche trasformata per non appiattirla sulle vecchie
figure dell’imperialismo: comunque le conclusioni di Jacques Bidet, quando non
tendano a sopravalutare la mediazione statale, sono in realità accettabili sul
terreno politico, vale a dire sul terreno dell’Impero per sé, come vedremo in
seguito.
Devo dunque difendere il concetto di Impero e rilanciare le
tematiche politiche (che riprendono e sussumono le tematiche
teoriche) qui presentate. Per farlo vorrei qui riprendere l’analisi a
partire dall’identificazione della crisi dello Stato-nazione, non
semplicemente per insistere su essa ma soprattutto per illustrare i problemi
che essa pone per la costituzione del mercato mondiale e della sovranità
imperiale.
1.
Il primo momento di critica lo si può affermare sul terreno
della critica dell’economia politica. In realtà, è a partire dalla crisi
dell’organizzazione internazionale del lavoro che si comincia a cogliere il
superamento del concetto (e della realtà) dello Stato-nazione. Non penso
naturalmente ai soli effetti, o meglio alla sola effettività politica, del
regime mondiale degli scambi, alla crisi dei parametri monetari, economici e
culturali che permettevano il controllo dello Stato-nazione sullo sviluppo:
parlo di una dimensione più profonda, essenziale, vale a dire del mutamento
radicale della forma della valorizzazione e dei dispositivi di sfruttamento.
Oggi, la forma della valorizzazione è modificata dall’egemonia
– tendenziale ma sempre più effettiva – del lavoro immateriale
(intellettuale, razionale, linguistico, affettivo, ecc.) sopra e dentro il
processo produttivo. Il nuovo processo di valorizzazione non può più essere
contenuto dentro spazi territorialmente chiusi. È dominato dalla mobilità dei
fattori produttivi e delle forze di produzione. Esige inoltre un’universale
libertà di comunicazione. Appare così un nuovo tableau économique. Esso rappresenta
una nuova figura di relazioni e di scambi fra settori produttivi; esso
assicura la preminenza dei fattori sociali sui fattori imprenditoriali (o
puramente industriali); mostra che i processi finanziari occupano una funzione
predominante in rapporto all’investimento diretto; esprime l’enorme potenza
dell’industria della comunicazione; manifesta la mobilità ormai irresistibile
delle multinazionali produttrici di merci e di servizi, ecc.. Insomma, il tableau
économique è nuovo ed è dominato dalle forze che hanno saputo interpretare
il General Intellect produttivo. Il tableau économique del General
Intellect ci fa saltare al di là dello Stato-nazione.
- [Ed è del tutto irrilevante che la nostra concezione sia accusata, dal punto di vista doxografico, di essere un’interprezione troppo estensiva delle tematiche marxiane: quel che ci importa è che questo nostro discorso (e questo momento critico) siano politicamente efficaci nella tradizione del metodo marxista, cioè storicamente incisivi e determinati.]
In secondo luogo, anche i dispositivi dello sfruttamento
sono completamente modificati. La legge del valore (e dunque del plusvalore),
considerata secondo la definizione elementare che ne dà Marx, è divenuta
inefficace salvo, forse, in settori marginali dello sviluppo. Lo sfruttamento
si configura come espropriazione dei valori della cooperazione e della
circolazione produttiva, come appropriazione capitalista dell’eccedenza innovatrice
del lavoro immateriale nell’organizzazione sociale del lavoro, come captazione
del comune.
- [Invito il lettore a ripercorrere, a proposito di questi concetti, l’analisi marxiana della rendita fondiaria e le pagine sull’estrazione di plusvalore nell’industria dei trasporti: qui si trovano anticipazioni fondamentali delle nostre ipotesi.]
I dispositivi dello sfruttamento sociale si presentano ormai
secondo l’estensione e la comprensione dello spazio globale. Lo Stato-nazione è
assolutamente inefficace a fronte di quella forma cellulare fondamentale, ed
alle metastasi, dello sfruttamento che si sviluppano immediatamente su scala
mondiale. Questo significa che ogni forma dell’insubordinazione, di lotta
contro il lavoro salariato, che ogni ribellione – quand’essa si rivolge
contro lo sfruttamento, riconoscendone la nuova natura – deve essere capace di
riconoscersi come moltitudine. Ecco in effetti che cos’è la moltitudine:
il riconoscimento della singolarità delle nuove forme di produzione di valore,
e quindi dello sfruttamento sociale che ne deriva, così come il superamento
della dimensione ristretta del concetto di classe operaia nell’organizzazione
della rivoluzione. Lo Stato moderno è la forma politica specifica dello
sfruttamento capitalistico nello spazio-nazione. Questa determinazione statuale
non tiene più a fronte dell’insubordinazione che si dà nelle condizioni attuali
della valorizzazione e dello sfruttamento. Parlare di Stato-nazione e di
imperialismo senza periodizzarne la figura e la durata diviene molto pericoloso
– quasi reazionario.
2.
Il secondo elemento della crisi dello Stato-nazione può
essere identificato a livello della teoria marxiana della crisi. Anche a questo
proposito, lo spazio-tempo dello Stato-nazione manifesta la sua insufficienza
per la spiegazione critica della figura attuale della crisi
economico-politica. È in realtà evidente che, dei tre tipi di crisi capitalista
studiate da Marx – crisi legata ad una sproporzione nel seno della produzione
(sotto-produzione, sovrapproduzione); crisi di circolazione; crisi legata
all’abbassamento tendenziale del tasso di profitto –, le due prime certamente,
ma molto probabilmente anche la terza, rappresentano il tipo di crisi al quale
rispondevano misure efficaci di controllo keynesiano e post-keynesiano: tutto
ciò si è progressivamente sviluppato fuori dal terreno dello Stato-nazione, a
livello mondiale (dagli accordi di Bretton Woods in poi). Inoltre, le ultime
gradi crisi hanno definitivamente fatto saltare i vecchi modelli della dipendenza imperialista
(e/o coloniale), ed hanno costantemente riqualificato l’integrazione globale,
talvolta presentandola come interdipendenza. Dagli anni trenta, dal New
Deal, la crisi è divenuta una crisi controllata (e/o provocata dentro
un’articolazione di intervento economico e di comando politico poste fra
struttura dello sfruttamento e sistema gerarchico mondiale – per
riprendere lo schema di Bidet). Ma è qui che interviene la modificazione
qualitativa. Se, in realtà, il processo di regolazione economica della crisi è
stato condotto con tecniche sempre più efficaci e sofisticate (dalla disciplina
al controllo, dal keynesismo al monetarismo, ecc.), esso è stato, per ciò
stesso, portato ed istallato sempre di più sulterreno biopolitico. Ed è
dunque sul terreno del biopolitico che la crisi deve essere oggi identificata e
definita. Se è vero che le sproporzioni e i blocchi della circolazione non
potevano più determinare degli effetti disastrosi e che si trovano ora
controllati in anticipo, se la caduta del tasso di profitto è continuamente
controbilanciata e/o compensata da un aumento della produttività del lavoro,
allora gli altri temi dell’identificazione della crisi e le proposte di lotta
dentro la crisi debbono essere essi stessi rapportati a queste nuove
dimensioni. Ritroviamo qui la tematica proposta più sopra a proposito della
riconfigurazione dell’organizzazione del lavoro e della riformulazione della
teoria dello sfruttamento.
La crisi, oggi, si presenta essenzialmente come difficoltà di
controllare le nuove forze sociali della produzione, tanto per quanto riguarda
la loro potenza che si estende alla vita sociale, quanto perché la loro
espressione è quella dell’eccedenza produttiva, della ricerca della libertà
politica e culturale, dell’identificazione di valori comuni. Quando la
produzione diviene biopolitica, che vuol dire che essa investe tutti gli
aspetti della vita; quando il potere diviene biopolitico e cioè quando esso
attraverso imperativamente (e tenta di configurare così) tutti i movimenti
sociali – e le forme di vita – che producono valore, allora la crisi si
definisce, dal punto di vista capitalistico, non solamente come difficoltà e
ostacoli, più o meno marginali, della produzione e/o della circolazione, ma
come il prodotto di un insieme di resistenze che nascono dall’attività
produttiva, sempre eccedente, delle moltitudini. Ed è precisamente su questo
terreno che il neoliberalismo è fallito, quando esso ha mantenuto (meglio,
accentuato) il vecchio modello di controllo, senza rendersi conto che la
composizione della forza-lavoro si era completamente modificata. L’eccedenza
produttiva (che ha come base tecnica il lavoro immateriale e come sbocco
politico l’attività costituente delle moltitudini) non può più essere racchiusa
nelle forme e nei processi di controllo che i metodi “scientifici” di
organizzazione del capitalismo moderno avevano costruito sulla base del lavoro
massificato e fordista.
È a fronte di questa realtà che deve essere posto il
problema dello Stato nazionale moderno. L’imperialismo è stato l’espansione dei
capitalismi nazionali, dei capitalismi nazionali strutturati da sistemi di
produzione, di controllo e di sovranità assolutamente tradizionali. Quando la
mobilità e la flessibilità dei lavoratori, le immigrazioni interne ed
internazionali e la produzione eccedente di valore da parte delle moltitudini
entrano in gioco, se lo Stato-nazione si trova in difficoltà, quelle proiezioni
imperialiste lo conducono al disastro. La polemica di “Empire” è rivolta contro
lo Stato-nazione, nella misura in cui essa fa risaltare un tessuto
politico-economico nel quale la lotta di classe ha introdotto elementi
irriducibili (eccedenza, mobilità, nuova gestione operaia del tempo e
dell’innovazione produttiva) dentro la vecchia forma dello Stato. La crisi
dunque concerne il contesto sociale nel suo insieme. La crisi si presenta come
una mancanza di controllo sugli eventi produttivi e politici, perché questi non
possono più essere controllati: nel contesto biopolitico, gli eventi sono in
realtà imprevedibili, crisi inattese, genesi radicali… Lenin ci ha offerto, dal
punto di vista dell’analisi della crisi, delle anticipazioni teoriche
infinitamente più utili (oggi, nel postmoderno) di quanto non abbiano mai
potuto fare gli “economisti della cattedra”, fossero austriaci o sovietici. Lo
Stato-nazione e l’imperialismo sono del tutto disarmati a fronte di quella
potenza e di quell’imprevedibilità dei movimenti moltitudinari. Sviluppare oggi
una teoria della crisi è inserire l’analisi e agire all’interno stesso dei
parametri del nuovotableau économique. Tutte le grandi esperienze di crisi
economica nell’ultimo mezzo secolo si sono sviluppare secondo una complessità
biopolitica di riferimento che le hanno rese ogni volta sempre più
massicciamente offensive. Se noi consideriamo le cose dal punto di vista
tradizionale sull’imperialismo, noi dovremmo ridurre le crisi ad un processo di
produzione della “dipendenza”. Ora, si può certamente ancora “produrre della
dipendenza”, ma questa dipendenza presenterà una figura di resistenza,
immediatamente interna alle strutture ed alle dinamiche del biopotere, contro i
tentativi imperialisti per neutralizzare le lotte e di ricostruire a questo
scopo, “gabbie” adeguate (“nuove nazioni”, ad esempio, e non è certo un caso).
La teoria dell’imperialismo (e della sovranità dello Stato-nazione) non
fallisce dunque solamente attorno alla complessità delle relazioni e delle
connessioni mondiali che non riesce a comprendere, ma anche attorno a fenomeni
strutturali profondi e sul rifiuto inflessibile dello sfruttamento da parte
delle moltitudini (o piuttosto da parte dellesingolarità divenute
comune).
Del resto, ci sono, legate al concetto dell’imperialismo (ed
ancor più a quello di colonialismo), delle produzioni di immaginario che si
collegano ad una specie di darwinismo economico o politico costruito e nutrito
dallo Stato-nazione. L’idea avanzata da Bush dination building costituisce
(dopo l’apogeo nazista della costellazione nazionalista) l’ultimo esempio di
questa concezione. Che il ricorso ad elementi di identità locale – e
talvolta fino a sindromi nazionaliste – permetta di resistere ai progetti
dell’imperialismo non autorizza ad assimilare tale resistenza ai vecchi modelli
di lotta anticoloniale ed antimperialista. Di fatto, nella struttura attuale
biopolitica della resistenza, è l’idea stessa di modernità (oltre a quella di
Stato-nazione) che viene messa in discussione. Che “un altro mondo sia
possibile”, significa che le dimensioni nazionali ed imperialiste del progetto
di dominazione sono in crisi. Il progetto moderno, come dispositivo di dominio
e di razionalità strumentale del capitalismo nello spazio-nazione, residua
piuttosto uno spazio al sabotaggio della modernità e per un disegno di
costruzione globale del comune (dopo, oltre il moderno).
3.
Da questa fragilità della struttura capitalistica del
potere, dall’inseparabilità delle dimensioni superficiali e strutturali,
economiche e politiche dello Stato-nazione (e della conseguente categoria
dell’imperialismo) deriva la crisi più importante e più determinante per la
definizione dello Stato-nazione e dell’imperialismo: la crisi della
sovranità. Come abbiamo visto, la teoria della sovranità rinvia ad un principio
logico che vede l’anima dellasovranità nella riduzione all’unità e la
sua costruzione adeguata nella costruzione dell’idea di un popolo. Non
sarà difficile riconoscere che, in questo quadro, la sovranità non poteva
presentarsi altrimenti che come un elemento mistico, irrazionale, frutto di una
logica di decisione autoritaria: lo è nella storia del pensiero politico
occidentale fin dall’inizio. Questa influenza è estremamente profonda. Nella
stessa opera di Marx, il concetto di sovranità, benché sia ricollocato
all’interno dell’analisi dei modi di produzione, non riesce tuttavia ad essere
analizzato secondo quella nuova logica: anche in Marx (ed in generale in tutte
le teoria che considerano la sovranità in termini di monopolio del potere, in
termini di dittatura) c’è una sottovalutazione dell’operazione metafisica
di riduzione all’uno della moltitudine e/o dell’universo globale
delle singolarità. Ora, quello che appare evidente a questo punto della nostra
esposizione, è che questa reductio ad unum della sovranità non è più
possibile. Quando il biopotere sussume il mondo globale come sua categoria, o
come prodotto di immaginazione trascendentale; quando esso penetra il globo con
dispositivi più o meno immanenti ed ordinativi, allora contraddizione e crisi
si aprono sull’interno tessuto biopolitico. Attraverso le politiche di
controllo della crisi, fossero esse anche solo budgetarie o welfariste, la
sussunzione della società nel capitale è data, ma nello stesso tempo vi si
trovano– dentro questa sussunzione – la presenza e la trasformazione adeguate
del rifiuto e della resistenza.
Non è dunque un caso se la guerra oggi non è più la
continuazione della politica con altri mezzi. La guerra oggi, nel postmoderno,
è divenuta la base stessa della politica e di ogni governance possibile. Questa
centralità della guerra dipende tanto dalla crisi della legge di valore (dunque
dalla dismisura dello sfruttamento) quanto dalla nuova capacità che possiede la
forza lavoro di produrre valore, in una maniera che eccede il sapere
strumentale e il controllo politico capitalista. Il concetto di sovranità (come
fissazione e ipostasi dell’uno) non arriva più a racchiudere nella sua sfera di
controllo le dinamiche moltitudinarie della produzione. L’eccedenza del
lavoro, ovvero la produzione di sé che il lavoro vivo ha già
cominciato ad affermare in forme moltitudinarie (solo modo, d’altra parte, di
creazione di ricchezza), riqualificando il concetto di crisi (introducendolo
all’interno della relazione biopolitica), aprono immediatamente il problema
(cioè ad una nuova definizione) del concetto di sovranità. La sovranità non è
più capace di presentarsi come uno. Meglio: solo la guerra può imporre
distruttivamente il dispositivo unitario. Già nelle teorie politiche degli
epigoni della modernità (Schmitt, Benjamin, Derrida, Agamben) la guerra
funziona come ultimo dispositivo unitario della sovranità e dunque come
essenziale fondamento del potere politico (e, nella prospettiva biopolitica,
della legalità stessa). L’eccezione è divenuta la regola.
Oltre alla crisi dell’idea di sovranità nello Stato-nazione,
alla crisi per cosi dire esterna alla sua struttura – vale a
dire riferita all’impossibilità di fissare in maniera unilaterale il valore
degli scambi e quindi la moneta, la misura della forza e dunque il dispositivo
imperialista, la forma della comunicazione e dunque l’autonomia ideologica –,
si assiste oggi ad una crisi assolutamente nuova, interna e
consustanziale allo Stato-nazione: una crisi di legittimazione che può essere
solo risolta da una sovradeterminazione bellica. La sovranità si presenta come
una vittoria distruttrice. Ma quando sia così, è l’idea stessa della sovranità
che scompare, meglio, essa si presenta come una dualità sempre irrisolta, come
una tensione sempre esplosiva. Virtualmente, l’uno si è diviso in due.
Sarà utile, a questo punto, riprendere il discorso dal punto
di vista dell’analisi di classe, vale a dire a partire dai temi
dell’organizzazione, del programma, e dunque dal progetto di rivoluzione. Non è
qui il luogo per introdurre questi temi. Sia sufficiente insistere sul fatto
che l’imperialismo (in qualsiasi forma si presenti, quale espressione ed
estensione del potere dello Stato-nazione) non solo non resiste come concetto
quando sia confrontato all’insieme dei rapporti politici e geopolitici, non
solamente non si sostiene nel confronto con le nuove regole che il sistema di
biopotere propone sull’orizzonte imperiale, ma va in crisi nelle sue stesse
fondamenta. Quando esso assume la guerra come sola forza (e solo concetto) che
condiziona e sovradetermina l’insieme dei rapporti di cittadinanza, l’Impero
non rappresenta semplicemente un nuovo ordine esteso quanto il mercato mondiale
– rappresenta una forza distruttrice, destituente i rapporti interni allo
Stato-nazione. L’alternativa tra imperialismi e Impero non è cosa che concerne
solo questioni relative al mercato globale: essa concerne soprattutto, e prima
di tutto, i rapporti interni agli Stati-nazione, e dunque le regole stesse
della cittadinanza.
Oggi noi viviamo certo un interregno, fra la fine della
modernità e l’apertura della postmodernità, fra l’estinzione dello
Stato-nazione e la fondazione dell’Impero. Mille contraddizioni attraversano
questo periodo e nessuno può opporre Stato-nazione e Impero come se si
trattasse di figure opposte per natura. Nell’interregno, il capitale gioca
piuttosto la compenetrazione di queste due figure e talora si illude
sull’evoluzione dell’una nell’altra: la dialettica per il capitale funziona
sempre, e così all’affermazione dello Stato-nazione segue la negazione
dell’interregno, poi la sua necessaria sublimazione nell’Impero. Ma la
dialettica è una cosa che riguarda solo il capitale. Noi dobbiamo di contro
giocare la tendenza materiale della lotta di classe, quella che organizza
nell’egemonia del lavoro vivo, nell’interregno, nel tempo che resta, le
condizioni per lo scontro a livello di Impero. È qui che il concetto di
moltitudine diviene la matrice fondamentale di nuove figure della lotta di
classe.