1. Cento anni dopo
A piu’ di un secolo dalla morte, Marx viene trattato, tanto
nell’opinione quanto nell’accademia, come ”un cane morto”. La situazione
e’ quindi ottima per riprendere lo studio dei suoi testi, per rifare i conti
con lui. Procedere su questa strada, comporta, in primo luogo, sgombrare il
terreno dall’ovvio, rifiutare la relazione di causalità tra l’attuale
discredito di cui gode il Nostro ed il crollo del socialismo di stato
nell’Europa dell’Est. L’inconsistenza logica della dottrina marxista, cosi’
come la cattiva astrazione sulla quale si fondava la legittimità dei regimi
socialistici, erano nascoste solo agli occhi di chi non voleva vedere.
Tutto era chiaro già da prima, da molto prima.
A testimonianza che il senso comune non ha atteso il crollo del muro di Berlino per formulare un giudizio– sulla teoria del socialismo scientifico e sulla natura del socialismo di stato– riproponiamo, qui di seguito, un breve commento a riguardo, scritto nel 1983, in occasione del centenario della morte di Marx, quando il Paese dei Soviet esisteva ancora (1).
Tutto era chiaro già da prima, da molto prima.
A testimonianza che il senso comune non ha atteso il crollo del muro di Berlino per formulare un giudizio– sulla teoria del socialismo scientifico e sulla natura del socialismo di stato– riproponiamo, qui di seguito, un breve commento a riguardo, scritto nel 1983, in occasione del centenario della morte di Marx, quando il Paese dei Soviet esisteva ancora (1).
La celebrazione di K.Marx, nel centenario della morte,
costituisce quel piccolo dettaglio piu’ illuminante che un intero discorso.
Innanzi, tutto chi celebra chi? Giacche’ bisognera’ bene augurarsi che esista
qualche differenza tra il Marx celebrato dal compagno Andropov, attuale primo
ministro sovietico ed ex-capo del K.G.B.; e quello di cui si ricorda il
militante dell’Autonomia nelle prigioni italiane.
Non che ci siano celebrazioni illegittime; e’ solo che,
forse, Marx, il nostro Marx, non merita d’essere celebrato (2) ne’ dagli agenti
segreti, ne’ dai professori universitari e nemmeno dai militanti di Autonomia.
La celebrazione fissa una data, e come tale e’ un rito
proprio agli abitanti del tempo, a coloro che perseguono opere senza fine; in
effetti, si celebra solo cio’ che non si e’ ancora compiuto (3).
E che l’opera di Marx non sia ancora conclusa, il marxismo
lo testimonia con la sua mera esistenza. Cent’anni dopo Marx, dirsi marxisti
equivale a definirsi con un giudizio sul passato, con un criterio su cio’ che
non esiste (4).
Va da se’ che un tale criterio non ha alcuna potenza di
individuazione, se si esclude quella trivialmente linguistica; e di conseguenza
non ha alcuna efficacia pratica.
Le due qualita’ che fanno la forza e la seduzione del
discorso filosofico – l’interrogazione sulla azione e sulla comprensione – non
frequentano ne’ l’una ne’ l’altra il marxismo.
Al giorno d’oggi, si potrebbe caratterizzare, graziosamente,
i marxisti come quelli che sono piu’ delusi dal mondo, dalla abitudine che il
mondo ha di reagire ai loro sforzi per cambiarlo, in meglio beninteso.
In effetti, se una volta o due il vino spunta ad aceto,
diciamo in Ungheria o in Polonia, si potrebbe concludere, con il buon senso,
che questo puo’ capitare.
Ma le cose continuano ad andare cosi’ male e questo accade
talmente spesso che un sospetto affiora: non v’e’,per caso, qualcosa
d’irragionevole, una sorta d’errore sistematico nel modo come il marxismo si
rappresenta il mondo? Con ogni evidenza, il marxismo non riesce a cambiare il
mondo, il nostro mondo almeno; ma essendo il mutamento, per il marxista,una
condizione ”sine qua non” della comprensione, il mondo resta, per cosi’ dire,
incompreso, il nostro mondo almeno. Il marxista s’e’ smarrito; noi marxisti
abbiamo perduto la capacita’ di orientarci nel nostro stesso mondo.
Tutto questo e’ particolarmente patetico se si pensa che
Marx, l’idea di Marx, ha gia’ cambiato il mondo, la sola cosa al mondo che puo’
essere cambiata, l’idea che ci facciamo del mondo (5). Di conseguenza, il
marxismo e’ divenuto un ostacolo cognitivo; come l’impalcatura che era servita
a tirar su la casa ne ostacola l’uso, una volta terminata la costruzione.
Se noi, i marxisti, ci siamo perduti la salvezza, la
possibilita’ di salvezza viene dalla divisione: e’ saggio dividersi per cercare
la buona strada. Altrimenti detto, cent’anni dopo la morte, Marx e’ per noi un
maestro del quale bisognera’ imparare a fare a meno ”.
2. Il lavoro perduto
La confusione nella quale versa il nostro presente ci
riporta, per diversi sentieri, al pensiero di Marx. Consideriamo uno dei temi
centrali, tanto nell’opera del rivoluzionario tedesco quanto nella nostra vita
quotidiana: la questione del lavoro necessario e di quello eccedente.
Una molteplicita’ di fenomeni sociali rinvia a questo tema;
in particolare la disoccupazione intellettuale, la precarieta’ del lavoro,
l’attivita’ di cura svolta in prevalenza dalle donne.
Poniamoci la domanda: come il marxismo reale —istituzioni di
solidarieta’, sindacati, partiti— gestisce questa questione del lavoro
necessario e di quello eccedente? Di fatto non solo non riesce a gestirla ma
non se la pone neanche in termini consapevoli. Il criterio marxista, per
riconoscere il lavoro e valutarlo, non arriva a comprendere pratiche lavorative
osservabili ad occhio nudo; sicche’ possiamo concludere che questo criterio
occulta del lavoro reale (6).
Quel criterio trova la sua costituzione legittima nel
pensiero di Marx; per lui,il lavoro non ha uno statuto epistemologico
indipendente, ma e’ piuttosto una categoria derivata. Nel ”Capitale”, il
concetto di lavoro e’ articolato sulle nozioni, considerate primarie, di
”valore” e di ”tempo”. Per Marx,infatti, il lavoro propriamente detto e’ il
lavoro produttivo, il lavoro che accresce il valore della merce.
Tuttavia, questo processo non e’ certo gratuito; infatti,
esso comporta dispendio d’energia umana; dispendio che ha per misura il tempo
di lavoro, la durata dello sforzo lavorativo.
Scrive Marx: “La quantita’ di lavoro stessa ha per misura
la sua durata nel tempo, ed il tempo di lavoro possiede di nuovo la sua misura
nelle parti del tempo come l’ora, il giorno, etc.” (7).
Il pensatore tedesco riduce qui il lavoro produttivo al
tempo – famosa riduzione di gia’ accreditata dall’economia politica inglese –
ma riconduce anche il valore al lavoro produttivo. Cosi’ ,per Marx, la sostanza
del valore, in senso lato, e’ il tempo, la durata temporale (8).
Le implicazioni economico-politiche di questa riduzione sono
numerose: plus-valore come plus-tempo, sfruttamento come furto del tempo
altrui, ideologia e pratica della pianificazione temporale nelle economie
socialistiche.
A livello della fenomenologia sociale, questo comporta che i
movimenti che fanno riferimento al marxismo tendono a produrre e riprodurre
delle condotte collettive focalizzate sulla rivendicazione del valore della
durata del lavoro; mentre, i partiti marxisti, una volta al potere, erigono la
durata del lavoro a regola regina della politica economica (9).
Ma la riduzione comporta ugualmente una implicazione
d’ordine ontologico che mette conto esplicitare.
Se la sostanza del valore e’ la durata cronologica del
lavoro, l’attivita’ sociale di produzione e di scambio e’ scandita dal tempo
uniforme, attribuito alla natura dalla filosofia di Newton (10).
E questa riduzione del tempo sociale a quello cronologico
non ha luogo senza comportare mutilazioni semantiche: essa sacrifica, per cosi’
dire, degli eventi; e limita, dunque, inutilmente, le descrizioni possibili del
mondo (11).
Paradossalmente, e’ proprio in questa mutilazione che
risiede quell’ ottimismo glaciale, segno inconfondibile dell’educazione
sentimentale dei marxisti; ottimismo che confonde la storia con il tempo
cronologico; e vede quest’ultimo come un fronte che avanza in un verso solo;
sicche’ la rivoluzione e’ solo ”la mossa che anticipa” cio’ che comunque
avverra’, cio’ che e’ un inevitabile risultato dello scorrere del tempo ( 12 ).
Ed e’ ancora questa menomazione della temporalita’ che
conferisce al marxismo quella tonalita’ svalutativa della comune esperienza,
l’idea che la verita’ sia celata dall’apparenza, che il reale non si mostri ma
abbia una sua cifra segreta, una struttura nascosta alla quale si puo’ risalire
solo tramite la teoria – in effetti, per il pensiero marxista, l’apparenza e’
falsa (13). Ora non v’e’ scienza che non salvi le apparenze, perche’ ritenere
illusoria l’apparenza inibisce ogni criterio di realta’, ogni interrogazione su
cio’ che esiste e cio’ che non esiste. L’azione collettiva non e’ piu’
sottoposta al criterio del ”vero e del falso”; ma, posseduta dal tempo-valore,
si risolve nella instaurazione di una nuova tradizione, la ossessiva creazione
del nuovo, cioe’ la sistematica svalorizzazione di tutto cio’ esiste; che, come
tale, e’ degno d’andare in rovina (14).
III. La riduzione
Molte sono le implicazioni etico-politiche che la
definizione del ” valore del lavoro” come durata temporale misurabile comporta;
molte e per lo piu’ perverse. Dal mito tecnocratico della economia pianificata
alla prassi rivendicativa incentrata sulle valorizzazione monetaria del tempo
di lavoro.
Infatti, e’ la riduzione del lavoro alla sua durata
temporale che genera la reificazione del tempo in tutte, o quasi, le teorie
marxiste.
A ben vedere, la reificazione era avvenuta, all’origine, nel
pensiero stesso di Marx , laddove aveva cercato di svelare la natura del tempo
attraverso la critica dell’economia politica (15).
Ecco perche’, senza alcun dubbio, questa riduzione era stata
male accolta dal principio; le si rimproverava di presupporre, surretiziamente
per dirla nel gergo dell’epoca, cio’ che voleva dimostrare (16 ); rimprovero
del tutto pertinente, purtroppo (17).
Ad oltre un secolo dalla morte di Marx, la riduzione del
valore al tempo di lavoro cerca ancora la sua legittimazione teorica. Anche se,
nel frattempo, gli intellettuali marxisti hanno rimosso l’ostacolo
epistemologico (18).
Questa difficolta’, e’,a ben vedere, di natura logica; e,
come tale, definitivamente insormontabile, a nostro avviso.
Bisogna dunque esaminarla in dettaglio, per rilevarne
l’intrinseca debolezza. La riduzione del lavoro al tempo, cosi’ come Marx la
delinea, e’ un caso particolare di un operazione concettuale piu’ generale,
denominata precisamente, nella letteratura epistemologica, ”riduzione”. Si
tratta di un termine, in qualche sorta, tecnico, il cui uso non e’ ”cut and
dried”. Qui, per concisione, possiamo ragionevolmente affermare che il concetto
di riduzione, nel discorso filosofico, descive la sostituzione di un modo di dire
con un altro, in modo tale che il secondo non contenga tutti i termini o
espressioni utilizzate dal primo.
Tuttavia, questa definizione non assicura certo che la
riduzione abbia effettivamente luogo; perche’, ad esempio, un filosofo non
ritiene certo che l’affermazione ”il presidente Ciampi e’ onesto” possa essere
ridotta a ” il presidente Belusconi e’ uno statista” , malgrado che ne’
”Ciampi” ne’ ”onesto” siano presenti nel secondo enunciato.
Occorrono, dunque, dei criteri aggiuntivi per caratterizzare
la riduzione. Tradizionalmente, nella letteratura epistemologica sono presenti
quattro tipi di riduzione: analitica, esplicativa, ontologica e teoretica (19).
Il primo tipo rileva della semantica dell’enunciato che deve
essere ridotto tramite la relazione di sinonimia—ad esempio, ”Vattimo e’
celibe” puo’ essere correttamente ridotto a ”Vattimo si puo’ sposare ma non lo
ha ancora fatto”. La riduzione analitica e’, normalmente, banale; salvo nel cso
in cui la relazione di sinonimia non e’ evidente a prima vista e richiede degli
argomenti esplicativi.
Cosi’, la riduzione del lavoro alla durata del lavoro in
Smith e’ una riduzione analitica; si tratta infatti solo di una definizione
convenzionale dei costi di produzione; la’ dove, in Marx, la riduzione opera tra
” il valore del lavoro” e il ”tempo di lavoro”, cioe’ tra due termini non
connessi per sinonimia.
Il secondo tipo di riduzione esplicita cio’ che l’enuncito
da ridurre semplicemente sottintende. Simili riduzioni permettono, di solito,
la ricostruzione esplicita di tutto cio’ che nel termine da ridurre e’
implicito.
Ma anche questa volta, la riduzione marxiana risulta
impropria; essa, infatti, non e’ di tipo esplicativo poiche’ le implicazioni
economico-politiche del concetto di valore-lavoro non sono ne’ facilmente ne’
completamente derivabili dal concetto di tempo di lavoro (20).
Il terzo tipo di riduzione, come peraltro il quarto, ha un
carattere prescrittivo. La riduzione ontologica, infatti, elimina le
implicazioni dell’enunciato da ridurre che si riferiscono a degli enti la cui
esistenza, pur essendo implicitamente presupposte dall’enunciato stesso, non e’
per nulla provata. La riduzione ontologica svolge, in genere, un’opera buona
perche’ mira a ridurre gli ”enti inutili”, quelle presupposizioni d’esistenza,
quei feticci che popolano le comuni certezze (21). Ma, di nuovo, la riduzione
del valore al tempo non e’ di tipo ontologico; in effetti, se e’ vero, come
Marx stesso sottolinea, che essa elimina la presupposizione dell’esistenza del
valore, tuttavia viene introdotto un nuovo ente materiale – il tempo
assolutamente uniforme—la cui esistenza si fonda su una illusione cognitiva
altrettanto infondata che quella eliminata (22).
Infine, la riduzione teoretica comporta che il termine da
ridurre e’, per accidente, identico al termine ridotto, senza alcuna necessita’
logica. Cosi’, nel ragionamento formale, la riduzione teoretica appare sotto la
forma di ”ipotesi ad hoc”.
La riduzione marxiana e’ di questo tipo, come abbiamo gia’
mostrto in altra sede (23). L’ipotesi ad hoc che riconduce il valore al tempo
serve a Marx per dare una fondazione scientifica alla categoria morale che
avverte il lavoro di fabbrica come sfruttamento del corpo umano, nel senso di
appropriazione del valore creato dalla disponibilita’ del tempo altrui;
purtroppo questa ipotesi ad hoc serve male la sua causa dal momento che rende
autocontraddittoria l’intera teoria.
Nel paragrafo che segue, riprenderemo lo stesso argomento,
gia’ adoperato nel saggio citato, nel caso particolare della riduzione del
lavoro qualificato o complesso al lavoro semplice o indifferenziato.
IV. Lavoro complesso
e lavoro semplice
Scrive Marx:
“Ora, allo stesso modo che nella societa’ civile un generale o un
banchiere gioca un ruolo importante mentre l’uomo comune fa una parte
insignificante, lo stesso accade al lavoro umano. Si tratta di un dispendio di
forze semplici che ogni uomo ordinario, senza alcuna formazione particolare,
possiede nell’organismo del suo corpo. Il lavoro semplice medio cambia, e’
vero, di carattere nei differenti paesi e secondo le epoche, ma e’ sempre
determinato all’interno di una societa’ data. Il lavoro complesso—skilled
labour—e’ solo una potenza del lavoro semplice, o piuttosto non e’ che lavoro
semplice moltiplicato, di sorta che una quantita’ data di lavoro complesso
corrisponde ad una quantita’ piu’ grande di lavoro semplice. L’esperienza
mostra che questa riduzione opera costantemente. Allorquando una merce e’ un
prodotto di un lavoro piu’ complesso, il suo valore la riconduce, in una
proporzione opportuna, al prodotto del lavoro semplice, di cui essa rappresenta
solo una quantita’ determinata. Le proporzioni diverse, secondo le quali
differenti specie di lavoro sono ridotte a lavorosemplice come alla loro unita’
di misura, si stabiliscono nella societa’ all’insaputa dei produttori e
appaiono loro come consuetudini tradizionali. Di conseguenza, nell’analisi del
valore, ogni varieta’ di forza-lavoro va trattata comeforza-lavoro semplice”
(24).
Marx riviene piu’ volte su questo tema; e nelle ”Teorie sul
pluslavoro”, mentre riprende una obiezione di Baley a Ricardo a proposito della
giornata di lavoro semplice come misura di quella comlessa, articola in modo
definitivo il suo pensiero:
“Ricardo ha mostrato che questo non impedisce di misurare il valore
della merce secondo la durata del lavoro, a condizione che sia data la
proporzione tra lavoro semplice e lavoro complesso. Egli ha, senza dubbio,
trascurato di spiegare come la proporzione si sviluppa e viene determinata.
Tutto questo riconduce alla rappresentazione del salario e puo’ essere ridotto
in ultima analisi ai differenti valori della forza-lavoro, cioe’ ai loro
differenti costi di produzione (che sono determinati dal tempo di lavoro) ” (25).
Il lettore e’ qui confrontato con un punto delicato e
difficile; anzi propriamente singolare. L’ostacolo si annida nel dispiegarsi
del ragionamento; e il testo, gia’ alla prima lettura, ci avverte che v’e’
qualcosa che stona. L’analisi minuziosa conferma ed esplicita la difficolta’.
Esaminiano,dunque, il problema nei suoi dettagli.
Per Marx, il lavoro umano e’ composto da lavoro qualificato
(skilled labour) e lavoro semplice (unskilled labour). Il primo e’ definito in
contrapposizione al secondo, nel senso che il lavoro qualificato presuppone un
processo d’apprendimento o, almeno, una formazione aggiuntiva. Secondo la
supposizione marxiana, la proporzione—secondo la quale il valore del lavoro
complesso e’ ridotto a quello del lavoro semplice come alla sua unita’ di
misura— e’ determinata dal rapporto in valore dei costi rispettivi di
formazione professionale. In altri termini, il costo sociale di formazione di
un ingegnere e’ ben piu’ alto che quello di un manovale; sicche’, la differenza
in valore tra le merci nelle quali si realizza la giornata lavorativa rispetiva
dell’uno e dell’altro traduce la differenza in valore tra le forze-lavoro (26).
Questa supposizione di Marx puo’ essere criticata e
rigettata empiricamente sulla base della costatazione statistica che, nelle
societa’ capitalistiche, la distribuzione dei salari monetari non e’ isomorfa
ai costi di formazione professionale (27).
V’e’ , pero’, di piu’: l’argomentazione usata da Marx ,per
giustificare la riduzione del lavoro complesso a semplice, e’ viziata
logicamente (28).
L’origine dell’inconsistenza logica risiede, peraltro, meno
nella soluzione data da Marx che nella questione stessa della riduzione. In
altri termini, il programma di ricerca di Marx– l’obiettivo di smascherare il
segreto della valorizzazione capitalistica della merce riconducendola al
plus-lavoro, al tempo di lavoro aggiuntivo rispetto a quello necessario per la
riproduzione del lavoratore– si scontra irreparabilmente con la premessa
maggiore del suo ragionamento. Infatti, se il lavoro qualificato e’ solo una
potenza moltiplicativa del lavoro semplice, ne segue che la merce prodotta dal
lavoro qualificato possiede una quantita’ di valore che e’ poporzionale,
secondo un determinato rapporto, al valore del lavoro semplice; e non al tempo
di lavoro qualificato necessario per produrla, contrariamente a quel che impone
la legge del valore-lavoro, cioe’ la premessa maggiore di tutto il
ragionamento.
Cosi’, la riduzione del lavoro complesso al tempo di lavoro
semplice e’ solo una supposizione e per di piu’ erronea. E’ un peccato perche’
molte strategie del movimento operaio sono state costruite su questa
supposizione: dalle attese rivendicative di un salario piu’ elevato per tempi
di lavoro piu’ lunghi al misconoscimento dell’autonomia produttiva del lavoro
tecnico-scientifico fino alla totale rimozione della funzione del ”General
Intellect” nella produzione capitalistica (29).
V. Misura reale e
misura convenzionale
Riassumiamo la critica sviluppata nel precedente paragrafo
esaminando un contro-esempio rispetto alla teoria del valore-tempo di lavoro.
Consideriamo tre merci: una sedia impagliata costruita in una mezza giornata da
un falegname nelle Serre calabresi; un quadro dipinto in una mezzora da Mario
Schifano; un dimante, di grande caratura, ritrovato, accidentalmente, da un
no-global romano a via Condotti.
Secondo la legge del valore-lavoro, i loro prezzi sono
proporzionali ai rispettivi valori di scambio e questi ultimi ai tempi di
lavoro necessari per riprodurre quelle merci. Ora, i tempi empirici di lavoro,
le durate della prestazione concreta del falegname, del pittore e del no-global
sono, con buona evidenza, inversamente proporzionali ai valori monetari
rispettivi della sedia, del quadro e del diamante.
Vero e’ che Marx trascura volutamente i tempi empirici per riferirsi
unicamente ai tempi socialmente necessari—o tempi medi necessari– per produrre
le merci all’interno di un mercato libero e concorrenziale; perche’, a suo
avviso, una volta date le condizioni tecniche della produzione, la durata del
lavoro socialmente necessario e’ una variabile determinata dalle leggi
economiche e non dalla capacita’ particolare dei produttori concreti.
Cosi’, nel nostro caso, per calcolare il valore di scambio
della sedia ci limitiamo a valutare il tempo di lavoro che il falegname
calabrese impiega per produrla, considerando questo come un caso di lavoro
semplice; ma per stabilire il valore del quadro, bisognera’ tener conto della
durata dell’apprendistato di Schifano; perche’ solamente l’apprendimento
conseguito prima gli permette di realizzare, oggi, un quadro in qualche decina
di minuti. Allo stesso modo , il valore del diamnte non e’ dato dal tempo
trascorso nel ritrovamento accidentale della pietra, ma dal tempo medio
necessario per effettuare una ricerca sistematica di una pietra perduta in via
Condotti. Ma a questo punto il metodo perde la sua efficacia esplicativa
perche’ si aggroviglia su se stesso. In effetti, anche se si riuscisse a
precisare i concetti di ”apprendistato” e di ”ricerca sistematica” e a
calcolare la loro durata media, impresa per nulla semplice (30), l’ostacolo
persiste: tutti i pittori che hanno seguito una formazione della stessa durata
di quella di Schifano non dipingono certo in una mezzora deiquadri di ugual
valore; e tutte le pietre ritrovate lungo via Condotti grazia ad una ricerca
sistematica non hanno certo lo stesso valore. Bisogna concludere che ben altri
fattori, oltre il tempo necessario per riprodurle, intervengono nella
determinazione del valore monetario dielle merci (31).
A ben vedere, la concezione marxiana del valore-lavoro si
rovescia irrimediabilmente in una rappresentazione sostanzialista del valore
monetario delle merci; essa pretende, infatti, di fondare il valore sulla base
di processi materiali—al limite, fatti fisici—e non sugli usi e le convenzioni
umane.
Il valore monetario e’ , per Marx, una funzione dipendente
dallo sforzo energetico umano necessario per produrre la merce che quel valore
racchiude. Questo sforzo e’ puro dispendio d’enegia, lavoro semplice, capacita’
generica di lavoro comune agli esseri umani in quanto tali.
Vi e’ qui, come avrebbe osservato Whitehead, ”a fallacy of
misplaced concreteness”, la fallacia della concretezza fuori posto.
Infatti, il valore non e’ una cosa concreta che possa essere
mostrata; piuttosto, esso e’ costituito da una ”definizione di congruenza” che
coordina una molteplicita’ di concetti e che riposa su una convenzione
semantica ineludibile (32).
Il valore di una merce non e’, dunque, un problema di
conoscenza – nel senso che si possa indicare un qualunque stato delle cose che
mostri la durata, o altro, come il vero valore. Essendo il valore una
definizione socialmente condivisa, esso non e’ vero o falso, ma solo
appropriato o non appropriato.
Quando si tenta di mostrare il ”vero” valore, di svelarne la
materialita’ , di mettere in corrispondenza la moneta con una cosa o un
processo sensibile, si cade in un ”circulus in probando”.
In altri termini, la scelta della definizione e della misura
del valore delle merci e’ materia di conflitto e condivisione sociale; in modo
che differenti definizioni possono essere date senza contaddire i fatti
empirici. I vincoli ai quali deve conformarsi la definizione di valore scelta
sono di natura logica—come accade a tutte le relazioni di congruenza—e non di
natura empirica, come avviene per le definizioni ostensibili (33).
Per analogia con lo spazio fisico, si potrebbe dire che lo
spazio economico e’ amorfo, non possiede alcuna metrica intrinseca o esoterica
propriamente detta; e se e’ dotato di una struttura interna, questa non
determina certo la relazione tra i punti; e, quindi, per analogia, la relazione
tra i beni economici o la relazione di valore.
In effetti, questa relazione, in quanto relazione di
congruenza, coincide con la scelta dell’osservatore di assegnare un sistema di
coordinate; o con il modo come l’agente economico valuta i valori delle merci.
L’obiettivita’ della misura non risiede, dunque,
nell’identita’ dei risultati ma sull’invarianza della sua espressione formale
(34).
Dobbiamo quindi concludere questa esposizione critica della
teoria marxiana affermando che la la natura del valore della merce,cosi’ come
Marx la descrive, non e’ certo la scoperta del vero valore ma solo una
definizione arbitraria di esso.
Come abbiamo gia’ sottolineato altrove (35), in opposizione
alla scelta sostanzialista del rivoluzionario tedesco, la durata del lavoro
umano preso a misura del valore della merce, trae origine dal senso comune,
dalle comuni idee di tempo assoluto, ricchezza astratta e progresso (36)..
Ma le difficolta’ teoriche non provengono certo
dall’arbitrarieta’ della scelta, bensi’ dalla contraddizione che l’attraversa,
insomma dalla sua inadeguatezza specifica.
L’estrema debolezza nella quale versa la prassi del marxismo
ci sembra che possa bene essere riassunta da questa inconsistenza logica.
VI. Il lavoro
ritrovato
Questa nostra critica al concetto di lavoro e di tempo in
Marx tenta di aprire una breccia attraverso la quale gli eredi della ”
concezione marxista del mondo” (37) possano ritrovare un rapporto con la
realta’ del mondo. Si tratta, per il marxista, di riuscire a pensare quel
presente che risulta celato proprio da quella concezione.
Le nozioni fondamentali di lavoro e di tempo quali si
ritrovano in Marx son divenuti,ormai, degli ostacoli epistemologici che
ostruiscono la comprensione del reale; ed impediscono al pensiero critico di
appropriarsi di quella invarianza, indifferente al tempo, che caratterizza il
mondo dell’esperienza umana.
Del resto, il superamento di quelle nozioni, e’ per paradosso,
una esigenza dello stesso sforzo di pensiero di Marx, ove si comprenda l’intera
sua opera e non semplicemente gli scritti d’economia politica.
Si pensi,ad esempio, alla figura marxiana della ”coscienza
enorme” (38), la coscienza adeguata al genere. Questa figura abbisogna di una
temporalita’ diversa da quella cronologica; e la sua attivita’ di
appropriazione conoscitiva del mondo che si materializza nell’individuo sociale
non puo’ certo lasciarsi scandire dallo scorrere del tempo; pena il precipizio
e l’annichilimento nella falsa coscienza, nella coscienza del particolare (39).
Bisogna insistere su questo punto: la riduzione del lavoro a
lavoro semplice e la misura del valore del lavoro tramite il tempo di lavoro
non e’ la sola rappresentazione della diade lavoro-tempo nell’opera di Marx.
Prima del 1847, prima della polemica con Proudhon, lo sforzo
di pensiero di Marx era indirizzato in ben altra direzione. Nelle opere
giovanili cosi’ come in quelle che precedono di pochi anni la sua morte, la
riflessione sul lavoro si situa dal punto di vista dell’universale e non del
generale, dal punto di vista dell’individuo e non della societa’.
Cosi’, nei “Manoscritti del 1844”, Marx rifiuta di fondare
la civilta’ umana sulla necessita’ di produrre ricchezza astratta. La vita
sociale degli umani, il loro naturale legame politico, il loro abitare insieme
nelle citta’ non si fonda certo sul lavoro produttivo, sulla valorizzazione
della merce, sulla funesta passione di arricchirsi in fretta; piuttosto e’ la
passione dell’autorealizzazione, l’essenza stessa del genere, a spingere gli
umani a darsi l’uno per l’altro; e in questo uso l’uno dell’altro si forma
naturalmente, cioe’ spontaneamente, l’individuo sociale con la sua coscienza
enorme.
L’attivita’ specificamente umana non e’ il lavoro necessario
alla riproduzione sociale, semplice o allargata che sia—questo semmai e’ il
sacrificio che si consuma perche’ la polis possa sopravvivere ed il legame
politico persistere. L’attivita’ che singolarizza l’essere umano, quella che
e’a fondamento positivo della polis, e’ il lavoro che realizza l’idea, il
lavoro come atto libero ed inventivo dell’individuo, in una parola antica:
l’opus.
Forse, bisognerebbe leggere l’apologia dell’ ”ape e
l’architetto” meno come una figura di stile che come una definizione
antropologica dell’attivita’ propriamente umana.
Peraltro, Marx non ha mai davvero scordato questa sua idea
giovanile di lavoro (40); perfino nella laboriosa Prima Sezione del Libro I del
“Capitale”, proprio la’ dove definisce il tempo come misura del valore, si
affretta a precisare i limiti di validita’ di questa definizione introducendo
la categoria di ”forza produttiva del lavoro” (41). Per la verita’, il Nostro
non presenta da nessuna parte dei suoi scritti una trattazione sistematica di
questo concetto economico-politico; anche se, nel ”Capitale” riviene piu’ volte
su questa categoria ma solo per impiegarla, in quanto tale, in passaggi teorici
di dubbia consistenza (42).
Al contrario, nei ”Grundrisse” si tova un passo decisivo, la’
dove Marx esplicita tutte le implicazioni del concetto di forza produttiva del
lavoro (43). Si tratta del passo, assai noto, nel quale il pensatore tedesco,
dopo aver costatato la miseria di una civilta’ la cui ricchezza e’ misurata
dallo durata dello sforzo penoso dell’uomo, intravede, in latenza, una altra
civilta’ la cui ricchezza e’ valutata in ragione del grado d’estinzione del
lavoro ripetitivo e penoso, cioe’ del lavoro salariato; una civilta’ che ha,
come suo presupposto materiale, l’appropriazione tecnico-scientifica della
natura; il che vuol dire minimizzazione del tempo di lavoro necessario e, per
cio’ stesso, liberazione dal tempo uniforme.
Questa ”fine del tempo” e’ resa possibile dalla conoscenza
della natura che permette l’uso naturale della natura, cioe’ la capacita’ di
ritornare consapevolmente nella natura, integrarsi in essa, e vivere di nuovo
naturalmente. L’individuo sociale confida allora la necessita’ alla natura, che
e’ ben in grado, come per tutti gli esseri viventi, di provvedere
automaticamente. Una volta svelata la dimensione reale della necessita’
sociale, la poverta’ o meglio la paura della poverta’ si dilegua; e l’individuo
si sottrae,finalmente, al ”serpente delle sue pene”.
Si badi: questa civilta’ alternativa non e’ il regno piatto
del tempo libero, delle vacanze evasive e divertenti modulate dalle agenzie di
viaggio; piuttosto e’ il mondo dell’individuo finalmente scoperto, un mondo che
promuove la passione per lo sviluppo delle capacita’, e fa di questo
sentimento, cioe’ del piacere, il fondamento positivo dell’etica sociale. Si
tratta, quindi, di una civilta’ che produce, in primoluogo, occasioni per
l’individuo di svilupparsi come arte e come scienza; e di realizzare cosi’, o
almeno tentare, la sua idea del mondo, cioe’ di autorealizzarsi.
Questa civilta’ alternativa e’, secondo Marx, possibile
perche’ essa dimora gia’ nel nostro presente— e’ una potenzialita’ che dorme,
latente, nel seno del modo di produzione capitalistico, nella civilta’ del
capitale.
L’azione politica, intesa come apocalisse stricto sensu,
puo’ svegliarla; e mettere fine cosi’ alla storia concepita come progresso.
L’azione politica,dunque, puo’ provocare un salto d’epoca, il salto dentro una
epoca atemporale dove la coscienza enorme autorizza l’individuo sociale
all’ebbrezza della volonta’.
VII. La regola di
vita
Bisogna avvertire: non si tratta di ritornare al giovane
Marx quanto riprendere i fili della sua ricerca giovanile sull’individuo
sociale. Come si vede, la posta in gioco non e’ piu’ il programma per la
costruzione di qualche uomo nuovo all’interno di una societa’ giusta, il tutto
in un tempo differito, nell’avvenire; al contrario, la questione e’ di scoprire
quelle regole di vita che permettono l’autorealizzazione, che autorizzano a
vivere come individui sociali; e tutto questo nel presente, ne’ subito ne’ nel
futuro.
Si noti che qui il soggetto storico dal quale parte la
ricerca ne e’anche il punto d’arrivo—infatti, l’individuo e’ il solo soggetto
per il quale la questione della realizzazione si ponga concretamente ed abbia
anche una verifica empirica (44).
Si tratta quindi di ricominciare con l’individuo; e,per
prima cosa, guardare il lavoro con i suoi occhi, dal suo punto di vista; si
scopre allora che l’attivita’ umana non si esaurisce nella bipartizione tra
lavoro produttivo ed improduttivo, come pretende l’economia politica nonche’ la
critica marxista della stessa.
Piuttosto, dal punto di vista dell’individuo, la questione
e’: come autorealizzarsi nel lavoro?
E la natura di senso comune di questa interrogazione
richiede, come al solito, che la risposta sia tecnicamente perfetta. Uno sforzo
di pensiero e’ gia’ stato fatto in questa direzione (45 ); e tuttavia, qui ci
preme notare come la pertinenza dell’interrogazione comporti un orientamento
preciso della ricerca, determina la via da seguire. Cosi’, per l’individuo
sociale, il lavoro, questa grande condotta umana, non gode di una comune
misura, e’ privo d’unita’.
Dal punto di vista dell’individuo la parola ”lavoro” designa
due tipi d’attivita’ irriducibili l’una all’altra: l’agire libero o originale e
l’agire servile o imitativo (46). La prima e’ la realizzazione di una idea, la
potenza universale-concreta dell’individuo sociale che appare nella sua unita’
assoluta, senza divisione tra mezzo e fine, produzione e consumo, desiderio e
sforzo per realizzarlo.
Il lavoro servile, al contrario, e’ un agire senza unita’
interiore, un mezzo che ha il suo fine all’esterno, un servizio che ”un
particolare” rende ad ”un altro particolare” sotto la costrizione della
necessita’ sociale. La ripetizione regolare e’ il segreto dell’efficacia di
questo tipo di lavoro. Qui, l’essere umano non ha alcuna occasione di
manifestare la sua autonomia, di realizzarsi come individuo. L’agire servile e’
come un atto mancato che produce e riproduce la necessita’ sociale che l’aveva
determinato.
Il lavoro, in tanto che atto desiderabile o libero, realizza
le facolta’ naturali dell’individuo; esso e’ una prova, nel doppio senso del
termine, delle sue capacita’. Questo modo d’agire non comporta nessuna
conformita’ alle leggi economiche, non ha bisogno di alcuna legittimazione
perche’ e’ definitivamente auto-referenziale, dunque auto-fondativo.
Il lavoro servile, viceversa, fa dell’obbedienza una virtu’
sociale, eccita nell’individuo la paura dell’avvenire, ovvero alimenta la sua
anima da schiavo. Trovandosi la ragione costitutiva al di fuori, e’ necessario
che il principio etico-politico che lo fonda sia, malgrado la sua
arbitrarieta’, pubblicamente condiviso dai membri della polis, perche’ la sua
legittimazione deve essere evidente (47).
Non abbiamo difficolta’ ad amettere che queste
considerazioni non definiscono ne’ mostrano la regola di vita che ci autorizzi
a vivere come individui sociali. Certo ne siamo ancora ben lontani; e tuttavia
la circostanza che esse siano capaci d’interloquire con il senso comune ci
aiuta a scrutare meglio nel nostro presente e a slargare la nostra memoria.
Osserviamo,ad esempio, il fenomeno, comune a tutte le
societa’ tardo-capitalistiche, del lavoro precario.Se ci togliamo gli spessi
occhiali dell’ideologia lavorista, che riconduce ogni cosa al buco nero dello
sfruttamento economico; ecco allora che la devalorizzazione del lavoro
salariato, intrinseca al fenomeno stesso, ci appare come un esodo di massa
dalla condizione operaia, una astuta potenza liberatrice dal tempo di lavoro,
uniforme e tedioso.
L’analisi, anche sommaria, dei movimenti sociali che
popolano il nostro presente conferma questa tendenza all’esodo dalla civilta’
del lavoro e dalla sua temporalita’, lineare e progressiva. Si pensi alle lotte
in difesa del genius loci, impropriamente chiamate ecologiche; qui il progresso
apportatore di ricchezza astratta, aggiuntiva, si scontra con un comune sentire
che vede le relazioni sociali fondate sulla conservazione del paesaggio; in
altri termini, qui v’e’ la difesa di una ricchezza concreta, gia’ esistente,
fatta di valore d’uso, non certo disposta a sacrificarsi in nome del futuro,
cioe’ del valore di scambio, della ricchezza astratta.
Analogamente, se proviamo a fare un bilancio dei movimenti
femministi, ci accvorgiamo che i risultati significativi sono stati conseguiti
non dove e’ stata balbettata una loro rispettabilita’ nel linguaggio
dell’economia politica (48); bensi’ dove essi sono riusciti a divenire
esperienza, ad irrompere nella vita quotidiana, introducendo ”de facto” una
pratica di condivisione, tra donne e uomini, del lavoro servile, propriamente
non-produttivo; perche’ questa condivisione ha comportato l’emergere, a livello
di senso comune, della ”finitezza”, ovvero del corpo come condizione organica
della coscienza.
Fuori dall’ideologia lavorista, la memoria si allarga; e i
movimenti di oggi si continuano in quelli di ieri. Cosi’, i grandi cicli di
lotte, tra gli anni ”60 e ”70, ci appaiano come la ripresa del pensiero critico
in Occidente, dopo ”il sonno dogmatico” seguito all’ultima guerra mondiale.
Le comuni Hippies in California, come quelle di Berlino,
sono degli eventi ironici nel senso stretto del termine; degli episodi d’ interrogazione
collettiva –radicale,ingenua ed innocente—sulla poverta’ sensuale di un mondo
sommerso dalla ricchezza astratta; e, ad un tempo, dei suggerimenti, sussurati
con ”homour” a ritrovare nel modo di vivere l’energia del legame collettivo, a
ricostruire la polis attraverso le comunita’ elettive (49).
Allo stesso scenario converge il ricordo delle lotte
autonome degli operai italiani, vera crtica operaia all’operaismo istituzionale
di sindacati e partiti: assenteismo e sabotaggio praticati come esodo dalla
fabbrica, rifiuto pratico della riduzione del valore al tempo (50).
Infine, ricordando, senza vergogna, la violenza esperita
dalla nostra generazione, restiamo attenti alle forme radicali di lotta
politica; e, in primis, alle organizzazioni che praticano la lotta armata. Si
badi: si tratta di una attenzione che spartisce crudelmente l’ammirazione
dall’orrore.
Ammirazione, perche’ il mettere a rischio la propria vita
permette di ritrovare la propria finitezza, la sola che possa curare quella
astratta paura della morte, quell’angoscia che diminuisce le nostre vite.
Orrore perche’ la’ dove si mette a rischio non solo la vita
propria ma anche quella degli altri, l’angoscia contro cui s’intende lottare,
riappare di nuovo; e, per di piu’, moltiplicata.
Note
1. F. Piperno, “Au-delà de Marx: Zénon” dans Corten, Sandria
e Tahon , Les autres marxismes réels, Burgois, Paris, 1983.
2. Mayakovsky ha già scritto: “Temo / gli elogi
della celebrazione / linea su linea / come un adolescente teme
/ menzogne e delusioni”.
3. Un contro-esempio fattuale illustra la qualità di senso
comune dell’affermazione: la memoria di Marx potrebbe essere celebrata con una
festa di tipo rabelesiano, dove si festeggia, appunto, la pienezza del
presente, il suo continuo compiersi. Così, l’opera del rivoluzionario tedesco
verrebbe ricordata come l’uscita consapevole dall’epoca della fame, dalla paura
collettiva della fame, dell’invenzione dello stato sociale. In questo modo,
Marx diverrebbe una memoria senza data e farebbe parte del nostro presente; o
meglio, noi avremmo un presente allargato, più ricco.
4. Questa malinconia, questa pigrizia dell’anima genera nei
marxisti una bizzarria logica che permette loro di riscoprire, periodicamente,
chi è il vero Marx; come se potesse esser vera una descrizione che ha come
condizione che l’autore descritto non esista più.
5. Si può ragionevolmente ritenere che la parola di Marx sia
stata il rimedio per curare quella malattia mentale occidentale che consiste
nella paura della fame. In altri termini, l’idea di Marx ha contribuito
grandemente alla realizzazione dello stato sociale, diffuso, in misura più o
meno significativa, in tutte le società industriali.
6. Come è noto, secondo Marx, la sostanza del valore è il
lavoro produttivo mentre la misura della sua quantità è la durata della
prestazione lavorativa. Di conseguenza, quei lavori dalla durata indefinibile
non sono riconosciuti come tali, o meglio vengono classificati come lavori
senza valore.
La pietra dello scandalo, a questo proposito, si è rivelato
il lavoro domestico; ma, per la verità, una simile concezione rimuove anche il
lavoro artistico, quello tecnico-scientifico e, più in generale, l’attività
non-uniforme nel tempo, come il lavoro flessibile e intermittente. Il rifiuto
dei sindacati di riconoscere e rappresentare questi lavori atipici è del tutto
coerente con la concezione sostanzialista del valore.
7. K.Marx, Le Capital, Livre I, p.54, Paris,
ed.Sociales,1976.
8. Per Marx, una volta eliminato il modo di produzione
capitalistico, l’economia resta pur sempre economia del tempo, perché la durata
temporale è una sorta di valore economico assoluto. Vedi, K.Marx, Grundrisse, I, p.89, Dietz
Verlag, Berlin, 1953; Das Kapital, III, p.197, 859, 883, Dietz Verlag, Berlin,
1956; Theorien, III, p.253, MEW-Dietz Verlag, Berlin, 1956.
9. Se la ricchezza sociale è proporzionale alla durata
complessiva del lavoro, si può accrescere la ricchezza semplicemente aumentando
il monte ore globale del lavoro.
10. Per Marx, il tempo è la misura del lavoro come del
riposo. Si tratta di una misura immanente, materiale e razionale insieme. La
costituzione del tempo assoluto è la “scoperta” di Newton; e il Nostro la
impiega come un paradigma scientifico implicito. Per altro, è assai probabile
che Marx condividesse l’interpretazione materialista del tempo assoluto
elaborata da Engels, interpretazione che riconduce il tempo all’inerzia, cioè
ad una proprietà osservabile della materia. Vedi, F.Engels, La dialectique de
la nature, ed. Sociales, Paris, 1958; Anti-Duhring, ed. Sociales, Paris, 1955.
11. Il tempo sociale e quello fisico sono tra di loro
incommensurabili. Questa affermazione, malgrado il carattere di senso comune,
va dimostrata; ma, poiché è impossibile in questa nota, ci limitiamo ad
indicare, a grandi linee, lo sviluppo del ragionamento.
La definizione operazionale del tempo in fisica decompone il
concetto in tre nozioni considerate fondamentali: simultaneità, successione,
durata. Al contrario, il tempo sociale, che regola la comunicazione e lo
scambio interumano, possiede altri concetti costitutivi, riposa su un’altra
triade: presente, passato e futuro. La dimostrazione stabilisce l’impossibilità
epistemologica di sovrapporre le due triadi.
Altrimenti detto, il tempo fisico è l’ordine immutabile che
l’osservatore vede tra gli eventi; mentre il tempo sociale è l’ordine che
l’agire collettivo istituisce tra gli avvenimenti significativi; ed i due
ordini sono tra di loro irriducibili. Vedi, A.Grunbaum, Philosofical Problems of Space and Time, A.Kopf, N.Y.
1963; J.Kolaja, Social System and Time and Space, Duquesne University Press,
Pittsburg, 1969.
12. Si pensi a Lenin ed al ruolo da lui assegnato alla
”linea politica” come una serie convergente di anticipazioni del ”processo
storico”. I.Babel coglie questo aspetto della vita e dell’azione di Lenin; e la
traduce in una immagine enigmatica, scrivendo nell’ ”Armata a cavallo”, della
”misteriosa curva della retta di Lenin”. Altro è l’indiretto giudizio di W.
Benjamin su questo modo di concepire l’azione rivoluzionaria, espresso con
collera calma nelle ”Dieci Tesi sulla Filosofia della Storia”.
13. L’intellettuale marxista è portato spontaneamente a
pensare che l’apparenza va o rovesciata o trascurata, come un’illusione.
14. Val la pena ricordare che è possibile rintracciare
nell’opera di Marx una altra temporalità, reciproca, per così dire, della
valorizzazione della merce, e cioè il tempo come autorealizzazione. Notevoli,
sull’argomento, i contributi di M.Tronti e T.Negri. Tuttavia si deve constatare
che, in Marx, la ricostruzione della relazione tra tempo e autorealizzazione è
rimasto al primo stadio, l’enunciazione di un programma di ricerca.
15. E’ attorno al 1947, con ”La Miseria della Filosofia”,
che la teoria del plus-lavoro come plus-tempo prende forma. Infatti, è proprio
in occasione di questa celebre polemica di Marx contro il socialismo
anarchicheggiante che ha luogo la biforcazione del suo originario programma di
ricerca, quello sull’autorealizzazione.
16. Tutto il dibattito nella socialdemocrazia tedesca, alla
fine dell’ ottocento, è generato dall’equivoco della riduzione. La fragilità
della teoria non viene dal fatto che essa non abbia trovato soluzioni adeguate
alle difficoltà poste dalla riduzione; piuttosto dalla circostanza che abbia
formulato risposte coerenti ad una domanda sbagliata.
In effetti, nella storia del pensiero politico, una cattiva
questione è, spesso, un vaso di Pandora di falsi problemi teorici. In questo
caso, l’ipostasi fittizia della riduzione si riferisce a Bernstein come a
Hilferding, a Kautsky come alla Luxembourg, a Plechanov come a Lenin. Le sole
eccezioni notevoli hanno i nomi di Bogdanov e Pannekoek.
17. E.von Bohm-Bawerk, Zum Abschluss des Marxschen System,
in Staatswissenschaftliche Arbeiten, Festgaben fur K.Knies, Berlin, 1896.
Bohm rimprovera a Marx la petizione di principio a proposito
della riduzione del lavoro qualificato a lavoro semplice, caso particolare
della più generale riduzione del lavoro concreto a lavoro astratto ovvero del
lavoro al tempo di lavoro.
Sull’argomento vedi anche la difesa intelligente della
posizione di Marx in R.Rosdolsky, The Making of Marx’s Capital, chap.XXXI,
Pluto Press, New York, 1977.
18. P. Sweezy riprende di nuovo la questione della riduzione
agli inizi degli anni ”40 del secolo scorso, nel tentativo d’importare nel
marxismo il rigore epistemologico. Tuttavia, le sue argomentazioni concludono
nella accettazione della riduzione in nome della presunta potenza esplicativa. Vedi, P.Sweezy, Rampant, New York,
1967.
19. G.
Ryle, Systematically Misleading Expressions, in Logic and Language, Basil
Blackwell, Oxford, 1973; M. Deutscher, The Identity Theory of Mind, Univ. Queensland,
Brisbane, 1972.
20. Si tratta del rapporto tra prezzi delle merci e loro
valori di scambio secondo la teoria del valore-lavoro.
In generale, l’inefficacia esplicativa della riduzione del
lavoro concreto al tempo di lavoro proviene dal fatto che non si realizza così
un passaggio dal complesso al semplice, poichè il concetto di tempo risulta a
sua volta scomponibili in nozioni più semplici e fondamentali (confronta nota
10). Per altro, il tempo, al contrario del lavoro, non sopporta nè una
definizione analitica nè ostensiva.
Marx stesso impiega il termine in tre accezioni diverse:
durata, frequenza e simultaneità; queste tre accezioni di tempo risultano dalla
”riduzione” di tre grandezze economiche chiamate rispettivamente plus-valore
assoluto, plus-valore relativo e massa di plus-valore. Vedi, K.Marx, Le Capital, Livre I, chap. I, X,
XII; Livre III, chap.XIV, ed.cit.
21. La riduzione ontologica va sotto il nome di ”rasoio di
Occam”, per via che il filosofo medievale la usava per ridurre drasticamente
gli enti di cui bisogna presupporre l’esistenza.
22. La credenza nella materialità del tempo era oggetto di
critica ben prima di Mach ed Einstein. Basta pensare a Lucrezio, Spinoza e,
soprattutto, Leibniz. Questa credenza prerelativistica non ha, oggi, alcun
serio fondamento scientifico.
23. Cfr. F.
Piperno, art. cit.
24. K.Marx, Le Capital, Livre I, pp.47-48, p.132, op.cit.
25. K.Marx, Theorien, III, pp.164-165, op.cit.
26. Come sottolinea lo stesso Marx, non si tratta qui del
salario o del valore monetario che riceve un operaio, sia egli qualificato o
meno, per una giornata di lavoro; infatti il valore più o meno grande della
merce prodotta non comporta automaticamente una retribuzione proporzionale
giacchè, in generale, nelle società capitalistiche, i costi della formazione
professionale sono, parzialmente o totalmente, a carico degli individui o delle
loro famiglie. Vedi, K. Marx,
Le Capital, Livre I, chap.I, note 15, op.cit.; F. Engels, Anti-During, p.187,
op. cit.
27. Stricto sensu, non è possibile verificare o falsificare
empiricamente la riduzione del lavoro comlesso a quello semplice perchè
l’operazione si riferisce ai valori e non ai prezzi. Ma quando Marx pretende
che l’esperienza dimostra la verità della riduzione, vuol dire che fa
riferimento ai prezzi, giacchè i valori sono , a lui come a tutti noi,
empiricamente inaccessibili.
28. E. Von
Bohm-Bawerk, pp.81-86, op. cit. Questo passo di Bohm è una vera gemma,
logica e letteraria insieme; in esso ci appare, in forma sintetica, il rigore
epistemologico della Scuola Austriaca. La parte centrale dell’argomentazione
suona così nella traduzione
“… la riduzione del lavoro qualificato a lavoro semplice medio sarebbe
dimostrata, secondo Marx, dall’esperienza, malgrado il processo si sviluppi
dietro le spalle dei produttori. Segue, nel testo di Marx, una osservazione
tanto banale quanto compromettente per l’intera teoria: il fattore di riduzione
è determinato dal, e solamente dal, rapporto reale di scambio. Il calcolo, in
termini di lavoro semplice, dei valori delle merci prodotte dal lavoro
qualificato non è determinato, nè è determinabile, attraverso una quantità
pertinente di quello stesso lavoro; piuttosto è il successo che decide, cioè il
rapporto di scambio effettivo. Scrive Marx che il valore della merce prodotta
dal lavoro qualificato si stabilisce in riferimento al lavoro semplice e rinvia
così al processo sociale per il quale ” le differenti proporzioni nelle quali
differenti generi di lavoro sono ridotti a lavoro semplice come alla loro unità
di misura si stabiliscono alle spalle dei produttori concreti; e dunque
appaiono loro come dati dalla tradizione”.
Ma cosa significa che, in simili circostanze, l’indicazione
del valore e del processo sociale come fattori determinanti il fattore di
riduzione? Prima di tutto, significa che siamo in presenza di un circolo
vizioso nel ragionamento, una petizione di principio. Qui il problema è
spiegare la proporzione secondo la quale avviene lo scambio di merci; per
esempio, perchè una statua, il cui costo è una giornata di lavoro di uno
scultore, si scambia con un sacco di pietre che costa cinquanta giornate di
lavoro al tagliatore di pietre, e non con dieci o con tre? Quale è la
spiegazione di Marx ? Il rapporto di scambio è questo e non un altro perchè la
giornata di lavoro di uno scultore va ridotta, giustamente, a cinquanta
giornate di lavoro semplice. Pechè precisamente cinquanta? Perchè l’esperienza
mostra che questo è il rapporto di riduzione determinato dal processo sociale.
Che cos’è questo processo sociale ? Ciò, appunto, che la teoria si proponeva di
spiegare, ciò che fa sì che il prodotto di una giornata di lavoro di uno
scultore, equivale, in valore, al prodotto di cinquanta giornate del
tagliapietre. Se, empiricamente, il prodotto di una giornata di lavoro dello
scultore fosse scambiata contro tre giornate di lavoro semplice, Marx avrebbe
affermato che l’esperienza indica il rapporto di uno a tre; ed avrebbe spiegato
allo stesso modo che la statua va scambiata contro il prodotto di tre giorni di
lavoro del taglia pietre, nè più nè meno. In breve, questo ragionamento non ci
dice niente sulla causa per la quale dei prodotti di lavori di genere diverso
si scambiano tra di loro secondo uno specifico rapporto; essi si scambiano
così, ci dice Marx, perchè così si scambiano.
29. Vedi
V.I.Lenin, L’Etat et la Révolution, p.51, ed. Sociales, Paris, 1975. Va
da sè che la riduzione di ogni tipo di lavoro al lavoro semplice medio è
all’origine di molte concezioni caricaturali della produzione capitalistica;
come, per esempio, quella che identifica lavoro semplice con il lavoro manuale
e fa del manovale il paradigma del produttore; insomma una teoria economica che
privilegia le ”mani callose” come, con sarcasmo, osservava Labriola.
30. Per esempio, per calcolare la durata dell’apprendistato,
bisognerà distinguere tra periodo di formazione professionale in senso tecnico
e periodo di disciplinamento ideologico. Detto in altri termini, si tratta di
calcolare i costi in tempi d’istruzione necessaria e solamente in questi; il
che rinvia ad una iterazione senza fine.
31. E’ una bella impresa tentare di calcolare i valori delle
merci tramite il tempo di lavoro in settori merceologici come, ad esempio,
quello della moda. E poi, i quadri di Schifano sono “sostanzialmente” superiori
a quelli dipinti da migliaia di suoi contemporanei ?
32. Questo tipo di definizioni è del tutto familiare ai
filosofi della natura. Si pensi al circolo logico tra la definizione di
”simultaneità” e quella di velocità nella relatività speciale di Einstein.
33. L’impiego del termine ”congruenza” rinvia qui alla
epistemologia dei saperi fisico-matematici. Vedi A. Grunbaum. op. cit.
34. Contrariamente all’opinione diffusa tra gli economisti
marxisti, l’origine del valore di scambio di una merce può essere ricostruita,
e la misura di questo valore avere un carattere obiettivo, anche senza
ricorrere alle misteriose virtù creatrici del plus-lavoro, inteso come
plus-tempo, tempo eccedente, della prestazione operaia. Infatti, si può mettere
in relazione il valore economico di una merce con il concetto d’informazione
come viene delineato nella cibernetica, cioè nel duplice senso di recepire le forme
e di produrre forme. Il valore di una merce è misurato dal numero totale delle
”forme” che racchiude, dal suo contenuto d’informazione. D’altro canto, il
lavoro salariato dà forma agli oggetti o comunque costruisce comportamenti
formali; e quindi il lavoro produce ”forme” ed è misurato dalle forme che
produce.
Anche il materiale grezzo, che il lavoro appunto trasforma,
è esso stesso una molteplicità di forme, in modo tale che il suo valore
coincida con l’ordine di questa molteplicità.
Una simile misura del valore si applica solo ai beni che
soddisfano una domanda tramite prestazione di lavoro umano, ovvero ai beni per
i quali il lavoro umano, e come acquisizione di conoscenza e come potenza che
dà forma, sia parte costitutiva del loro valore.
Così, la misura dell’informazione contenuta in un bene
economico ne determina il ”prezzo teorico”, il prezzo che prescinde, in prima
approssimazione, dal gioco accidentale della domanda e dell’offerta; e questo
prezzo coincide senza residui con il valore.
Secondo questo criterio, la moneta, in quanto segno del
valore, è proprio una misura dell’informazione; e l’universalità della moneta
non è che un aspetto dell’universalità dell’informazione. Al contrario, la
moneta come denaro non è riferita alla sua potenza d’informare ma a quella di
dominare, cioè ad una condizione extra-economica.
La messa a punto di una teoria informatica del valore
richiede l’elaborazione fine del concetto d’informazione in relazione al lavoro
umano; e non è questo il luogo dove tentare l’impresa.
Qui ci limitiamo a sottolineare come rigettare una
concezione sostanzialista del tempo di lavoro non comporti necessariamente il
precipitare nell’arbitrio del solipsismo.
Ci corre l’obbligo di ricordare che queste nostre
schematiche considerazioni sulla natura informatica del valore economico devono
molto alle conversazioni, frammentarie ed illuminanti, con Ferruccio Gambino,
tenute ai margini delle riunioni degli studenti con gli operai, nella Torino
immersa nella cattiveria sognante dei primi anni settanta del secolo appena
trascorso.
35. F.Piperno, art.cit.
36. Il nucleo razionale della teoria del valore-lavoro
riposa sull’ipotesi che sia l’energia umana la vera sorgente della
valorizzazione delle merci, o, se si vuole, della crescita della ricchezza. Il
lavoro umano entra nel processo solo come energia semplice, meccanica; e, come
tale, può essere sostituita dalla macchina. Questa concezione è il riflesso
ideologico di una epoca nella quale il lavoro umano funziona come sostituto
della macchina; e gli uomini sono spinti a divenire lavoratori salariati nella
misura in cui il mercato opera la distruzione sistematica delle relazioni ed
usi tradizionali. Si tratta dell’epoca dell’industrializzazione, che meglio
sarebbe chiamare epoca della “paura della fame”.
37. Il termine “concezione del mondo” è qui usato
nell’accezione gramsciana, ovvero come calco della parola tedesca
”Weltanschaung”.
38. Questo concetto di straordinaria densità è impiegato
originariamente da Marx.
39. ” Cos’è il particolare? / Un milione di casi
/ Cos’è l’universale? / Il caso individuale.” J.W.Goethe
40. La riflessione sul lavoro come manifestazione
dell’autorealizzazione dell’individuo riviene, negli interstizi e per lampi,
negli ultimi scitti di Marx, come “La critica del programma di Gotha” e le
”Note su A. Wagner”.
41. K.Marx, Le Capital, Livre I, pp.44-45, op.cit. La “forza
produttiva del lavoro” è, a livello epistemologico, una categoria diversa e reciproca,
per così dire, della “forza-lavoro”. Quella, al contrario di questa, è inversamente
proporzionale alla durata del lavoro socialmente necessario per produrre una
merce.
In altri termini, la forza produttiva del lavoro è misurato
dal grado di meccanizzazione automatica della produzione; essa è, quindi, una
funzione del sapere scientifico, del grado di sviluppo della intelligenza
tecnico-scientifica, ovvero, per dirla con Marx, del “General Intellect”.
42. Vedi, in particolare, la 2° e la 3° sezione del III
libro del Capitale, op. cit.
43. K. Marx, Grundrisse, pp.592-596, op.cit.
44. Per conoscere occorre riconoscersi. Il limite di ogni
discorso che si voglia vero è che deve essere valutato come tale almeno da un
individuo. In questo senso, pensare il vero vuol dire prender atto della
finitezza del pensare; e perciò rientrare in se stessi.
45. Gli scritti frammentari J.K.Krahl come, per altri versi,
quelli della coppia angelica Deleuze-Guattari, pullulano di considerazioni
significative su questo argomento.
46. Viene qui riproposta l’antica distinzione greco-latina
tra ”opus” e ”labor”, tra lavoro come potenza dell’individuo e lavoro come
violenza subita dall’individuo.
47. Il lavoro servile è una sorta di sacrificio che la
società chiede all’individuo. Perchè questo sacrificio si consumi nella
condivisione, le ragioni devono apparire evidenti.
48. Le dottrine femministe sulla miseria femminile, come
conseguenza dello sfruttamento delle donne da parte degli uomini, ci dicono
meno della miseria femminile che della miseria femminista nell’attività
teoretica. Vedi la critica dell’ideologia marxista-femminista nel saggio di
M.B. Tahon, ”Femmes en classe” nel volume collettaneo Les autres Marxismes
réels, op. cit.
49. Nella comunità elettiva, la natura del lavoro
socialmente necessario, nonchè la sua distribuzione tra gli individui che la compongono,
deriva, in forma chiara e distinta, dalla ragione costitutiva della comunità
stessa.
50. Il riferimento è qui, in primo luogo, all’insorgenza
operaia sulla piattaforma degli aumenti salariali uguaglitari, nel periodo
1968-73. Più in generale, si tratta delle condotte operaie che riducono la
prestazione lavorativa a condizione a tempo parziale, immettendovi il
sabotaggio anonimo della produzione e l’assenteismo di massa come esodo
inconsapevole dalla fabbrica. Si tratta di condotte post-socialiste in senso
proprio.