
Nel recente volume sul pensiero di Antonio Gramsci, curato
da Gaspare Polizzi, particolare risalto, per la sua radicalità, riveste la tesi
di Bartolo Anglani, secondo cui se Gramsci non si fosse fatto trascinare dal
bolscevismo a subordinare l’interesse culturale a quello politico, estenuandolo
nel riduzionismo classistico, avrebbe fornito un contributo più importante allo
studio della letteratura, così come lasciavano prefigurare una serie di
articoli degli anni dieci e così come appare anche dai “Quaderni”, in cui
sarebbe stata recuperata una prospettiva “universale”. Nota Anglani che
Gramsci, fino a poco oltre la prima metà degli anni dieci, mostra una propensione
per i grandi classici “istituzionali”, fondatori di identità nazionali, a
prescindere dal loro colore politico, come Shakespeare,
Kipling e Wagner. In Italia la polemica contro una civiltà stagnante e l’assenza di grandi figure che rispecchiassero lo spirito della nazione, avrebbe fatto ripiegare il sardo su autori trasgressivi come i futuristi, Serra, Michaelstaedter, Slataper, Gozzano, ma ciò – secondo Anglani -, non era allora segno di propensioni rivoluzionarie, dato che fuori dall’Italia lo sguardo si allarga ai classici.
Kipling e Wagner. In Italia la polemica contro una civiltà stagnante e l’assenza di grandi figure che rispecchiassero lo spirito della nazione, avrebbe fatto ripiegare il sardo su autori trasgressivi come i futuristi, Serra, Michaelstaedter, Slataper, Gozzano, ma ciò – secondo Anglani -, non era allora segno di propensioni rivoluzionarie, dato che fuori dall’Italia lo sguardo si allarga ai classici.

Quanto detto sinora mi sembra confermato dalla puntuale e
illuminante ricostruzione recentemente effettuata da Leonardo Rapone dell'itinerario
gramsciano fra il 1914 e il 1919. Rapone insiste infatti su come la formazione
idealistico-umanistica del sardo non sia affatto in discontinuità con lo sfocio
“boscevico” del dopoguerra, nella misura in cui la scelta di “classe” era
operata per realizzare, attraverso quel particolarismo, una universalizzazione
del patrimonio di valori classici a tutta la base sociale. Un universalismo in
chiave non solo sociale, ma, anche, internazionale, nella misura in cui il
proletariato rifiutava l'identità patriottica, che non rappresentava più il
patrimonio storico dell'umanesimo, ma lo mutilava negandone la vocazione a
esprimere l'essenza e i bisogni dell'umanità nel suo complesso.
Non credo del resto che – come fa Anglani - si possa
liquidare come un “pistolotto” ed esempio del carattere politicamente
strumentale che avrebbe assunto la lettura gramsciana delle opere letterarie,
l’intervento su Casa di bambola di Ibsen nell’interpretazione di Emma
Grammatica, con tutta la sua tematizzazione sociologica dell’indifferenza del
pubblico torinese per il dramma di Nora, quale specchio dell’arretratezza
morale della borghesia italiana. Ma il tema era cruciale proprio in un’ottica
pre-politica: l’incapacità degli italiani di comprendere non solo il senso
della parità di genere, ma il valore stesso dell’autonomia del soggetto chiama
in causa un’estraneità delle classi dirigenti italiane alla modernità, che è
ben al di qua della polemica classista. Lo stesso Croce, teorico principe
dell’autonomia del momento estetico, aveva centralizzato la questione
occupandosi degli scandinavi, passando da un’iniziale attenzione “liberale” per
le nuove tendenze, negli anni novanta dell’Ottocento, alla difesa, all’opposto
di Gramsci, del conservatorismo della borghesia italiana e alla denuncia di chi
inoculava semi di critica nelle sue pratiche esistenziali.