
L'articolo intende ricostruire nelle sue ragioni di fondo
l'interpretazione del Capitale che Jacques Bidet, nel corso degli
ultimi vent'anni, ha proposto alla nostra attenzione. Questa lettura
interpretativa si caratterizza in senso fortemente anti-dialettico, poiché si
ritiene che, con la costruzione del meccanismo epistemologico
del Capitale, Marx abbia rotto in profondità con le precedenti
presupposizioni dialettiche dei Grundrisse. Nel corso dell'articolo si
passano in rassegna i principali argomenti di Bidet, per poi approdare
all'analisi delle sue affinità con il pensiero di Louis Althusser
I
Interpretazione
struttural-costruttivistica del passaggio marxiano dal mercato al capitale -
Confronto con Bidet sulle funzioni logiche della tesaurizzazione e della
formula D - M - D - I concetti di “forma” e “formula” si
distinguono?

Sottoponendo, in particolare, ad indagine il rapporto
istituito da Marx fra mercato e capitale nella fase matura della sua produzione
teorica, quella che va dai Grundrisse al Capitale, Bidet ha
segnato uno scarto rispetto alla ricerca teorica marxista egemonica in Francia
dal finire degli anni ’60 agli inizi degli anni ’80: quella ispirata da Louis
Althusser. Il meritevole impegno programmatico assunto, infatti, dalla scuola
althusseriana a scavare nel corpus marxiano al fine di portare alla
luce le grandi architetture epistemologiche che avevano reso possibile la
novità della scienza marxiana aveva, tuttavia, tenuto in ombra il concreto
dispiegarsi entro il Capitale delle catene logiche di mediazione fra
una categoria ed un’altra, fra un livello espositivo e un altro. Certo, la
distinzione che Althusser, memore della disposizione spinoziana in parallelo
fra ordo idearum e ordo rerum, aveva operato fra oggetto teorico
e oggetto reale, ciascuno dei due con il proprio particolare
meccanismo di produzione ed esposizione, promuoveva di fatto le condizioni
adeguate per una rinnovata attenzione alle modalità di esposizione logica
adottate nel Capitale. In forza di questo chorismós fra oggetto
teorico e oggetto reale, Althusser si era, quindi, predisposto ad intendere il
senso e la funzione del concetto marxiano di Darstellung.
Vedeva, infatti, bene che non se ne poteva fornire un resoconto adeguato se non
accoppiandolo in via oppositiva con quello di Vorstellung[3]. Ma vedeva meno bene allorché lo
inscriveva esclusivamente nel quadro della causalità metonimica o strutturale,
mettendo da canto le sue risonanze idealistiche, che pur fecondano in
profondità la scienza marxiana. E così in Marx non è solo rilevabile un
concetto di Darstellung come causalità immanente, esemplato sul
rapporto spinoziano fra Dio e modi, ma anche, e forse più, un concetto
di Darstellung come esposizione all’interno della quale ogni
categoria od ogni livello prendono senso solo in virtù della sede e della
posizione detenute nel corso dello sviluppo concettuale e del modo logico
attraverso il quale guadagnano il passo dalle categorie precedenti e lo cedono
a quelle successive. È il concetto diDarstellung che si sedimenta
nell’idealismo tedesco dalla Dottrina della scienza del 1794 di
Fichte fino alla Scienza della logica hegeliana. Ma di fronte a ciò
Althusser si mostrò sempre assai poco sensibile. Un tale concetto
di Darstellung doveva parergli troppo a rischio di storicismo, e cioè
troppo esposto al pericolo di imprimere una direzione finalistica al processo
logico. A venirne fuori non sarebbe che quella che egli chiama, con un misto di
ironia e disprezzo, la storia dell’Origine e della Fine. I suoi imbarazzi
a rendere ragione della esibita tessitura, per così dire, “speculativa” della
deduzione marxiana della forma di valore, manifestano ed esemplificano bene
questa difficoltà[4]. Con Que faire
du Capital? Bidet ha, invece, affrontato di petto, eludendo il “non
luogo a procedere” althusseriano, la questione della qualità
dell’ordine di esposizione delle categorie nel Capitale, a
muovere da un esame, il più possibile rigoroso ed accurato, della sua
preistoria: gli sterminati materiali ed abbozzi di critica dell’economia
politica che il pensatore di Treviri ha prodotto con gettito continuo dal
1857-58 in poi[5].
Ma, dicevamo, affrontando la questione del rapporto fra
mercato e capitale Bidet ha, nel contempo, contribuito a rendere più incerta la
consapevolezza circa l’esclusiva intrinsecità del piano al socialismo e,
correlativamente, del mercato al capitalismo. Gli esiti, come vedremo fra poco,
della sua lettura, e cioè la liquidazione della consequenzialità logica fra
mercato e capitale, smuovono il consolidato paesaggio teorico su cui il
movimento operaio ha innestato la sua azione politica. Concependo, infatti, il mercato
come un ordine potenzialmente separabile dal capitalismo, Bidet legittima, sul
piano teorico, progetti di alternativa al sistema capitalistico non
necessariamente legati alla forma-piano, e capaci di combinarsi anche con forme
mercantili di regolazione economico-sociale. Su questo terreno, l’accostamento
vien quasi da sé, Bidet incontra le esigenze e le mozioni teoriche espresse da
un’altra corrente “eretica” del marxismo degli ultimi anni, il marxismo
“analitico” di matrice anglo-sassone[6]. Tutta la ricerca sui “modelli di
socialismo”[7] , sul “socialismo di mercato”[8] etc.,
che, entro quest’ultimo ambito, è stata eseguita, si muove su un orizzonte
problematico molto affine a quello di Bidet.
Il tema del rapporto fra mercato e capitale occupa un posto
di rilievo in tutte e tre le opere più importanti di Bidet: nella sua opera di
complessiva reinterpretazione della teoria marxiana, Que faire duCapital?,
ma anche nei suoi testi più “costruttivi”, Théorie de la
modernité e Théorie générale, quelli in cui egli ha cercato di elaborare
una teoria generale della modernità in cui confluiscano, e trovino un punto di
critica e arricchimento reciproci, contrattualismo e marxismo. Noi, tuttavia,
faremo quasi esclusivo riferimento al modo in cui la teoria marxiana del
rapporto fra mercato e capitale ha trovato ricezione e analisi presso Que
faire du Capital? e Teoria della modernità. Solo qui l’analisi
di Bidet ha avuto la possibilità di dispiegare se stessa con tutto lo spazio e
l’impegno che la difficoltà della materia esige.
La strategia dimostrativa di Bidet si articola in due tempi.
Egli cerca, innanzitutto, di provare l’improduttività e l’inconseguenza delle
deduzioni dialettiche del capitale dal mercato contenute nelle prime due
stesure dell’opera economica matura di Marx, i Grundrisse e
l’Urtext del ’58
di Per la critica dell’economia politica, e, in
seconda battuta, di rendere persuasiva l’ipotesi che
il Capitale abbia messo in atto una nuova forma di costruzione delle
categorie, libera da tutte le scorie dialettiche ed hegeliane. Come, dunque,
Marx aveva impostato originariamente nei Grundrisse, secondo Bidet, la
forma di movimento delle categorie? “Nei Grundrisse Marx - scrive
Bidet - presenta quelle che egli considera le tre funzioni del denaro: la prima
è quella di «misura del valore», la seconda è quella di «mezzo di
circolazione», la terza è quella di «denaro come denaro». Questa terza funzione
corrisponde ai casi in cui il denaro non può essere sostituito da un segno
monetario e deve esistere nella sua realtà materiale: tesaurizzazione,
pagamento o scambio internazionale. La tesaurizzazione è rappresentata con la
sigla D-M-M-D, dove «D» designa il denaro, «M» la merce, «-» lo scambio. Essa
costituirebbe simultaneamente l’ultima figura del denaro,
figura della «circolazione semplice», ancora sprovvista dell’incremento
quantitativo che caratterizza le formule del capitale (D...D’);
e la primaforma del capitale, poiché già presenta un
significato qualitativo quasi capitalistico, dal momento che il denaro diviene
«fine a se stesso» e acquista
«un’esistenza autonoma fuori della circolazione». Esso
costituirebbe dunque l’anello dialettico tra la semplice circolazione
mercantile, di forma M-D-D-M, e la circolazione propriamente capitalistica, di
forma D-M-M-D’ ”[9]
Dunque Bidet individua nella tesaurizzazione la figura
concettuale che nei Grundrisse si dimostra capace di mediare la
circolazione mercantile semplice con la circolazione capitalistica delle merci,
di rendere possibile logicamente il passaggio tra questi due livelli
concettuali. Tuttavia a Bidet non pare che la tesaurizzazione possa riuscire a
svolgere siffatta funzione logica: “La forma D-M-M-D, infatti, non può
rappresentare la tesaurizzazione, perché questa, il cui fine è la costituzione
di uno stock di denaro a partire da altri beni, non può essere rappresentata
che con la semplice sequenza M-D. La forma D-M-M-D resta peraltro in se stessa
priva di senso, perché l’attività che essa descrive appare propriamente
insensata se non la si corregge in D-M-M-D’. Infatti a che pro comprare e poi
rivendere delle merci se non per realizzare un profitto? Ma se la si corregge
in D-M-M-D’, essa allora corrisponde propriamente all’attività commerciale, in
un quadro capitalistico. E si è già nell’ambito del capitalismo, ma non si è
più nell’ambito dei rapporti semplicemente mercantili”[10]. Insussistente logicamente si rivela per
Bidet il tentativo di pensare il passaggio dal denaro al capitale secondo il
canone dialettico del passaggio al diverso che sia, nel contempo, sviluppo del
medesimo. Del fallimento della deduzione dialettica Marx, secondo la
ricostruzione offerta da Bidet, se ne sarebbe accorto subito. Fin
da Per la critica dell’economia politica e poi
via via nei Manoscritti del 1861-1863 e nel Capitale,
Marx priva la tesaurizzazione della qualità di anello di mediazione logica fra
denaro e capitale e della capacità di poter esser denotata dalla formula D-M-D.
Giunti nei “Manoscritti del 61-63 e nel Capitale, D-M-D,
sotto forma di D-M-D’, è riservata al capitale. Vi sono ormai due ordini
strutturali distinti: l’ordine mercantile, quello dello scambio, M-D-M, e l’ordine
capitalistico, raffigurato da D-M-D’ ”[11].
Ma allora, se non dialetticamente, come si realizza nelle
ultime redazioni del Capitale il passaggio dal denaro al capitale?
Bidet pensa che esso avvenga per via sintetica, ossia “mediante un intervento
costruttivo”[12], per aggiunta di una determinazione non
contenuta analiticamente nel concetto di denaro. Onde poter certificare
l’abbandono dello svolgimento dialettico delle categorie a favore di quello
costruttivistico e sintetico, Bidet sottopone all’attenzione del lettore uno
spostamento lessicale che, a suo dire, è intervenuto tra i primi scritti
economici e gli ultimi: “Si noterà infatti che la «forma» D-M-D’, di cui gli
scritti anteriori cercavano di costituire la genesi dialettica a partire da
M-D-M, è ora concepita nel Capitale come una semplice «formula».
Basta leggere i titoli del capitolo 4: «La formula generale del capitale», e
del capitolo 5: «Le contraddizioni della formula generale del capitale». Non si
tratta affatto di «contraddizioni del capitalismo», ma delle contraddizioni
delle formulazioni correnti del capitale, rappresentate dalla sigla D-M-D’,
indicante una serie di scambi da cui scaturirebbe un sovrappiù. Contraddizioni
da cui si esce, dice Marx, solo affermando che una merce (la forza-lavoro)
produce più valore di quanto non ne «possegga». In breve solo dispiegando la
«formula» D-M-D’ in D-M...P...M’-D’, formula quest’ultima, niente affatto
contraddittoria”[13]. Non è possibile, quindi, per Bidet far
avanzare il movimento logico delle categorie se non si introduce un elemento nuovo
non contenuto in esse. L’elemento nuovo che Marx introduce nel sistema
concettuale relativo al sistema mercantile in grado di produrre il passaggio
dal mercato al capitale è la riduzione a merce della forza-lavoro.
La dimostrazione del passaggio al capitale sarebbe stata,
per Bidet, più perspicua se Marx avesse inaugurato l’esposizione dell’ordine
capitalistico immediatamente “ponendo la domanda: «Che cosa accade ora se si
suppone che la forza-lavoro sia una merce?». E per rispondervi dovrebbe da una parte
attingere alle categorie già stabilite (valore, valore d’uso, scambio, ecc.) ed
applicarle alla forza-lavoro, dall’altra parte forgiarne di nuove, proprie a
questa «merce» (per esempio, la sua «attitudine a mettersi a disposizione di un
altro», e quindi anche a sottrarvisi, ecc.). è questo, del resto, il contenuto
della seconda sezione, che opera la transizione dal mercato al capitale. Marx
fornisce però queste risposte senza porre quella domanda. Egli giunge infatti
ad esse per un’altra via: attraverso una digressione pedagogico-critica.
Interpella la coscienza spontanea che, «in un primo momento», non vede nel
capitale che un’altra forma della circolazione mercantile, ossia D-M-D. E
procede alla critica di questa rappresentazione volgare: dimostra che D-M-D è
di natura completamente diversa da M-D-M, poiché ha senso solo come D-M-D’,
cioè come incremento di D. Ne mostra in seguito la contraddizione: da una
sequenza di scambi non può scaturire un sovrappiù. Si può dare un senso alla
formula D-M-D’ solo «costruendo» il concetto di una merce che produce più
valore di quanto non ne possegga, merce che non può che essere la forza-lavoro”[14].
La principale conseguenza di questa impostazione del rapporto tra mercato e
capitale è che viene liquidata l’immanenza logica del capitale al mercato,
ossia, come abbiamo già detto, la considerazione del capitale come sviluppo
logico delle determinazioni racchiuse nel sistema concettuale del mercato.
L’articolazione tra mercato e capitale diventa così più aperta e meno
predeterminata. Se, infatti, ciò che determina il passaggio al capitale è la
mercificazione della forza-lavoro, allora si può ritenere che il campo delle
relazioni fra mercato e capitale sia meno univocamente determinato e quindi più
soggetto a processi reversibili di quanto ha pensato la tradizione marxista.
Tutto viene a dipendere, per Bidet, dallo statuto di merce della forza-lavoro.
È solo “nella misura in cui questo statuto si troverà realizzato che si potrà
realmente parlare di capitalismo. E questa realizzazione dipende evidentemente
dalla capacità dei salariati di resistere alla mercificazione, dalla loro
capacità di associarsi e di controllare i processi centrali. Ritroviamo qui
associatività e centricità”[15].
Vien subito da chiedersi: trova riscontri oggettivi questa
lettura proposta da Bidet del passaggio, costruito da Marx, dal mercato al capitale?
Diciamo subito che essa ci pare non del tutto convincente, per ragioni sia
filologiche che teoriche. Cominciamo dall’analisi di questioni più propriamente
filologiche. Innanzitutto, benché sia vero, come osserva Bidet, che la
tesaurizzazione rappresenta neiGrundrisse uno degli anelli di mediazione
logica fra mercato e capitale, erronea ci sembra l’idea, sostenuta dallo stesso
Bidet, che sia la forma D-M-D nei Grundrisse a costituire, in quanto
espressione della tesaurizzazione, la forma di passaggio tra la forma della
circolazione delle merci M-D-M e la forma di circolazione capitalistica D-M-D’.
È vero, come dice Bidet, ed è merito della sua interpretazione averlo
segnalato, che la forma di circolazione D-M-D mentre
nei Grundrisse veniva adoperata da Marx per designare il carattere
generale della terza e ultima determinazione formale del denaro, quella di
rappresentante materiale della ricchezza, nel Capitale è invece
studiata come forma prima ed imperfetta della circolazione del capitale. Tuttavia
nei Grundrisse il passaggio al capitale non è promosso certo, come
Bidet sembra credere in maniera un pò troppo semplificatoria, dalla formula
D-M-D, formula di mediazione tra M-D-M, la circolazione delle merci, e D-M-D’,
la circolazione capitalistica, bensì da altre e ben più complesse condizioni,
di cui avremo modo di parlare fra poco. Di sicuro vi è che la tesaurizzazione
svolge nei Grundrisse un ruolo di rilievo nella problematica del
passaggio al capitale, ma non perché la formula che dovrebbe
esprimerla si assuma il compito di mediare fra circolazione delle merci e
circolazione capitalistica, sì perché il concetto di tesaurizzazione
espone al massimo grado la contraddizione immanente al concetto di
denaro; contraddizione che si toglie solo con il passaggio al concetto di
capitale. Come rappresentante generale della ricchezza il denaro “è l’insieme
di tutti i valori d’uso”, è valore di scambio universale, capacità di
scambiarsi con tutte le merci, dunque cristallizzazione del valore di
tutte le merci; “ma in quanto è pur sempre una determinata quantità di denaro
[...] il suo limite quantitativo è in contraddizione con la sua qualità”[16].
La realtà del denaro, quella di essere sempre
un determinato quantitativo di denaro, contraddice il
suo concetto, la sua qualità, quello di rappresentante generale di tutti i
valori d’uso. Come si vede, questa contraddizione fra qualità e quantità del
denaro non è altro che un tipico caso di contraddizione dialettica fra
il concetto e il suo modo di esistenza, la sua realtà. Il modo di esistenza del
concetto, la quantità del denaro, incarna in maniera inadeguata il concetto
stesso. La tesaurizzazione, in quanto sottrazione del denaro alla circolazione
e sua accumulazione, è un modo per togliere e superare questa contraddizione.
L’aspirazione del tesaurizzatore, infatti, è quella di disporre della maggior
quantità possibile di denaro, di valore di scambio, per potersi appropriare di
più ricchezza generale possibile. Il punto è che questo tentativo è ancora
rozzo e inadeguato per togliere la contraddizione del denaro. Essa sarà tolta
solo quando il concetto di valore riceverà una forma di esistenza più adeguata,
il capitale, dismettendo la cristallizzazione particolare del denaro. Questo,
in forma concisa, il ragionamento dei Grundrisse. Cambia qualcosa
nel Capitale? A nostro parere, no. Qui la tesaurizzazione è, esattamente
come nei Grundrisse, figura della terza determinazione formale del denaro
e primo ed imperfetto tentativo di togliere la contraddizione fra qualità e
quantità del denaro. Si legga, a prova di quanto si sta dicendo, questo passo:
“L’impulso alla tesaurizzazione è per natura senza misura. Il denaro
è, qualitativamente, ossia secondo la sua forma, senza limiti; cioè è
rappresentante generale della ricchezza materiale, perché è immediatamente
convertibile in ogni merce. Ma allo stesso tempo ogni somma reale di denaro è
limitata quantitativamente, e quindi è anche soltanto mezzo di acquisto di
efficacia limitata. Questa contraddizione fra il limite quantitativo e
l’illimitatezza qualitativa del denaro risospinge sempre il tesaurizzatore al
lavoro di Sisifo dell’accumulazione. Al tesaurizzatore succede come al
conquistatore del mondo: la conquista di un nuovo paese è solo la conquista di
un nuovo confine”[17]. Di questo testo se ne può appieno
valutare il contenuto solo se si tiene presente la differenziazione, ricca di
sapienza teorica, che Marx fa tra il concetto di Schranke e quello
di Grenze. Schranke, in Marx, è in tanto limite in quanto definisce e
designa la natura qualitativa di un concetto, è sua caratterizzazione che, nel
contempo, aiuta a circoscriverlo dagli altri concetti. Grenze, invece,
nella traduzione italiana talvolta tradotto anch’esso un po’ impropriamente
come “limite”, rappresenta sì ancora il limite, ma in quella dimensione per la
quale esso ha la possibilità di variare all’interno di un determinato campo,
senza che, tuttavia, siano, di questo, varcati il massimo e il minimo. La
contraddizione del denaro è tale, perché la qualità del denaro, quindi, in un
certo senso, il suo limite, è schrankenlos, senza limiti, mentre la sua
forma fenomenica è sempre determinata quantitativamente. Si badi, però, che
anche la limitatezza quantitativa del denaro non è qui designata
da Grenze, ma da Schranke, perché la necessaria proprietà del denaro
di essere determinato quantitativamente connota il suo stesso concetto.
Laqualità del denaro, e, di conseguenza, della tesaurizzazione, il suo
“limite”, è di essere sempre quantità determinata, limitata[18].
Il limite quantitativo del denaro appartiene, quindi, di diritto, come sua nota
essenziale, al suo limite qualitativo.
A Bidet è sfuggito poi che in un luogo cruciale della
deduzione marxiana del capitale dal mercato nel Capitale, e cioè il primo
paragrafo del quarto capitolo “Trasformazione del denaro in capitale”, il
confronto tra tesaurizzazione e capitale si ripresenta, allo scopo di
dimostrare che l’accumulazione capitalistica realizza in forma razionale il
medesimo principio sotteso alla fatica del tesaurizzatore: “ilvalore d’uso non
deve essere mai considerato fine immediato del capitalista. E neppure il
singolo guadagno: ma soltanto il moto incessante del guadagnare. Questo impulso
all’arricchimento, questa caccia appassionata al valore, è comune al
capitalista e al tesaurizzatore, ma il tesaurizzatore è soltanto il capitalista
ammattito, mentre invece il capitalista è il tesaurizzatore razionale.
Quell’incessante accrescimento del valore, al quale tendono gli sforzi del
tesaurizzatore quando cerca di salvare il denaro dalla circolazione,
viene raggiunto dal capitalista, più intelligente, che torna sempre di nuovo ad
abbandonarlo alla circolazione”[19]. Al di là di tutte le differenze, e sono
differenze essenziali, che dividono il tesaurizzatore dal capitalista, essi
sono però uniti dall’identico istinto, impulso, dallo stessoTrieb,
quello della ricerca senza freni del valore di scambio. E deve
essere osservato che anche nel Capitale, e non solo nei Grundrisse, il
tema del confronto fra tesaurizzatore e capitalista reso possibile dalla
condivisione del medesimo Trieb è tema ricorrente e posto, talora, in
luoghi chiave dell’esposizione marxiana. Ricorre, per esempio, all’interno del
capitolo dedicato da Marx alla “Trasformazione del plusvalore in capitale”
(sez. VII, cap. 22, § 2 e 3), entro cioè un contesto teorico che mira a
descrivere il meccanismo della riproduzione allargata del capitale, il processo
di reinvestimento del plusvalore nell’attività produttiva[20].
Se, dunque, si abbandona l’idea che sia la formula, e non il
concetto, della tesaurizzazione nei Grundrisse ad essere fra le
condizioni teoriche che promuovono il passaggio al capitale, tutto diventa più
chiaro. Del resto c’è una ragione teorica profonda, trascurata da Bidet, che
spingerebbe di per sé ad abbandonare questa ipotesi: la contraddizione del
concetto di tesaurizzazione, sulla quale Marx si dilunga sia nei Grundrisse che
nel Capitale, non riesce ad essere rappresentata da nessuna formula, né da
D-M-D né da quella, proposta da Bidet, di M-D. Esse riescono solo a descrivere
il movimento formale di sottrazione del denaro dalla circolazione. La
contraddizione tra qualità e quantità del denaro, però, di cui il movimento
della tesaurizzazione è forma di manifestazione, è, di fatto, irrappresentabile
in qualsiasi formula[21]. E le conseguenze negative di questa
fiducia di Bidet nella capacità delle formule di riprodurre i contenuti
concettuali si fanno sentire anche in altri momenti della sua interpretazione
del passaggio marxiano al capitale. Come spiegare la sua altrimenti
stupefacente affermazione per cui “La forma D-M-M-D resta peraltro in se stessa
priva di senso, perché l’attività che essa descrive appare propriamente
insensata se non la si corregge in D-M-M- D’ ”[22]? Bidet sembra dimenticare, infatti, che
Marx si è a lungo diffuso sia nei Grundrisse che
nel Capitale sul fatto che la formula D-M-D appare assurda solo se ci
si attiene al lato formale di questo tipo di circolazione, ossia al
fatto che si scambia un’identica quantità di denaro con una identica quantità
di denaro. La circolazione del denaro D-M-D appare certo, dice Marx, “una pura
astrazione arbitraria e insensata, quasi che si volesse descrivere il ciclo
della vita: morte-vita-morte”[23], ma non si deve commettere l’errore,
continua Marx, di fermarsi solo alla determinatezza quantitativa di questo
ciclo, perché “questo processo va sceverato nella sua forma puramente
qualitativa, nel suo specifico movimento”[24]. E dalla sua forma puramente qualitativa
si cavano utili e decisive determinazioni concettuali: 1) “esso [il ciclo]
implica già che il denaro non vale né soltanto come misura, né come mezzo di
scambio, né come l’uno e l’altro insieme solamente; bensì possiede una terza
determinazione. Esso si presenta anzitutto come fine a se stesso, alla cui
semplice realizzazione servono il mercato e lo scambio”; 2) “dal momento che
con esso [il denaro] qui il ciclo si chiude, esso esce da quest’ultimo, così
come la merce scambiata mediante il denaro col suo equivalente viene espulsa
dalla circolazione. È verissimo che il denaro, finché è determinato come
semplice agente della circolazione, rimane perennemente rinchiuso nel suo
ciclo. Ma qui si rivela che c’è ancora qualcos’altro al di fuori di questo
strumento di circolazione, e che esso possiede anche un’esistenza autonoma
esterna alla circolazione”[25]. Sono quindi il denaro come fine a sé
stesso e il denaro come tesoro le determinazioni qualitative che per il Marx
dei Grundrisse connotano la circolazione del denaro D-M-D.
Il Marx del Capitale mantiene, benché assai più
arricchito, tutto l’impianto di questa argomentazione correggendolo
in un sol punto: slega definitivamente, come abbiamo già rammentato, D-M-D
dalla tesaurizzazione. Ma, all’infuori di questa correzione, tutte le tappe del
ragionamento dei Grundrisse vengono trasposte inalterate
nel Capitale. Anche qui Marx comincia dicendo che “A prima vista esso [il
ciclo D-M-D] sembra senza contenuto, perché tautologico. Entrambi gli estremi
hanno la stessa forma economica. Entrambi sono denaro, quindi non sono valori
d’uso qualitativamente distinti, poiché il denaro è per l’appunto la figura
trasformata delle merci, nella quale i loro valori d’uso particolari sono
estinti. Scambiare prima cento lire sterline contro cotone e poi di nuovo lo stesso
cotone contro cento lire sterline, dunque scambiare per una via indiretta
denaro contro denaro, la stessa cosa contro la stessa cosa, sembra
un’operazione tanto inutile quanto assurda”[26]. Nondimeno, sebbene per via negativa, il
ciclo D-M-D mostra che se tra i due estremi non vi è nessuna distinzione
qualitativa, essendo tutti e due denaro, l’unica differenza fra di essi non può
che essere quantitativa. La distinzione qualitativa fra i due estremi del ciclo
può risiedere solo nella loro differenza quantitativa. Ecco perché la forma
completa e corretta del ciclo non può essere che D-M-D’, scambio, mediato dalle
merci, fra differenti quantità di denaro. Ma ciò fa risaltare con ancor più
evidenza la caratteristica che già emerge dalla semplice circolazione del
denaro D-M-D, e cioè che il motivo propulsore e lo scopo
determinante dello scambio del denaro con il denaro è il denaro stesso, è
il valore di scambio e non il valore d’uso, come
invece accade nella circolazione delle merci[27]. Il valore, dice Marx con una
formulazione che ha creato non poco sconcerto e insofferenza in alcuni
interpreti, è il “soggetto automatico”[28] del processo di circolazione D-M-D,
poiché in esso “merce e denaro, funzionano soltanto
come differenti modi di esistere del valore stesso:
il denaro come suo modo di esistenza generale, la merce come suo modo di
esistenza particolare, per così dire, solo in travestimento”[29]. Come si può ormai constatare, la forma
di circolazione D-M-D è tutt’altro che insensata e priva di funzionalità logica
come pretenderebbe di affermare Bidet.
Rimane da affrontare un’ultima questione filologica. Bidet
ritiene di poter osservare che “la «forma» D-M-D’, di cui gli scritti anteriori
cercavano di costituire la genesi dialettica a partire da M-D-M, è ora
concepita nel Capitale come una semplice «formula» ”[30].
Ora, ciò non è del tutto esatto, poiché anche nel Capitale, come
nei Grundrisse, D-M-D’ viene concepita come forma; basta leggere questa
frase per accorgersene: “la forma completa di questo processo è
quindi D-M-D’ ”[31]. Inversamente, anche “formula” è usato
da Marx nei Grundrisse per qualificare i cicli di circolazione; lo
attestano enunciati come questo: “La formula D-M-M-D è dunque giusta
quanto l’altra M-D-D-M, che è originaria”[32].
II
Sostanzialismo del concetto di forza-lavoro in Bidet -
Deduzione dialettica del passaggio dal mercato al capitale
nei Grundrisse - Discussione con Bidet sulla natura della deduzione
del capitale dal mercato nel Capitale - La sezione I
del Capitale: momento di produzione-circolazione mercantile o di sola
circolazione delle merci?- Bidet, Colletti e Althusser
E veniamo, ora, alle questioni più propriamente teoriche
implicate dalla lettura di Bidet del passaggio marxiano al capitale. Si tratta
di verificare la validità della sua ipotesi interpretativa basata, lo abbiamo
detto, sull’assunto che Marx abbia configurato il movimento delle categorie
secondo un metodo costruttivistico e sintetico. L’aggiunta di una nuova
determinazione, la forza-lavoro come merce che produce un sovrappiù, al sistema
concettuale relativo alla struttura mercantile basterebbe, di per sé, a
consentire il passaggio al capitale. Solo lo scambio tra denaro e forza-lavoro
non si risolve, infatti, a differenza degli scambi fra denaro e prodotto in
forma di merce, in uno scambio di equivalenti. La critica della “coscienza
spontanea” che Marx nel Capitale fa all’interno del capitolo sulla
trasformazione del denaro nel capitale sarebbe, in questo senso, per Bidet, decisiva:
è solo dimostrando che il capitale non è un’altra forma della circolazione
mercantile che si può poi argomentare che è necessario ricorrere ad un altro
elemento per spiegare il fenomeno del surplus. È in questo punto che, dice
Bidet, “Marx “stabilisce” che la forza-lavoro è una merce di questo sistema
[del sistema mercantile]”[33]. Ma perché Marx stabilisce che
la forza-lavoro è una merce del sistema mercantile? Per quale ragione proprio
la forza-lavoro è capace di produrre un sovrappiù? Forse perché ne
possiede per essenza la capacità? Bidet lascia queste domande
prive di risposta. A nostro avviso, ciò che in fondo rimane oscuro nella sua
interpretazione sono precisamente le condizioni del riconoscimento teorico
dell’autonoma capacità della forza-lavoro di produrre un sovrappiù. Bidet
sembra trattare secondo un’ontologia sostanzialistica sia la forza-lavoro che
le merci; la prima, a differenza delle seconde, possiederebbe delle proprietà,
come per esempio la sua “attitudine a mettersi a disposizione di un altro”,
capaci, di per sé, di produrre un sovrappiù. Bidet sembra dimenticare, benché,
a ragione, lo avesse sottolineato in precedenza con forza[34], che Marx è un pensatore fortemente
“relazionista”, cioè un pensatore della relazione e non
della sostanza. È infatti solo all’interno del rapporto di capitale, della
relazione che la forza-lavoro stabilisce come estremo con l’altro estremo del
rapporto, e cioè con il capitale, che la forza-lavoro può essere concepita come
produttrice di valore e plusvalore. In questo senso è necessario che si colga
la specifica natura concettuale del rapporto di capitale, rapporto istituito
tra le condizioni soggettive, lavoro, ed oggettive, mezzi di produzione e
materie prime, del processo di produzione; entrambi momenti, tuttavia, di una
totalità dominata dal capitale, in quanto questo è proprietario sia delle
condizioni oggettive che di quelle soggettive[35]. Il passaggio dal mercato al capitale è,
dunque, riformulato più correttamente, passaggio dal rapporto di mercato al
rapporto di capitale. Visto da questa prospettiva, il passaggio dal rapporto di
mercato al rapporto di capitale non può, allora, essere risolto nella pura
aggiunta di una nuova determinazione al sistema concettuale antecedente. Quella
che va indagata è, propriamente, la natura delle relazioni fra questi due
rapporti. Ora, noi siamo della convinzione che il passaggio fra queste due
relazioni sia dialettico sia nei Grundrisse, cosa accolta universalmente,
sia nel Capitale, cosa invece questa, come ormai sappiamo, contestata con
fermezza da Bidet. Per dimostrare questa tesi dobbiamo, in prima istanza,
estrarre il succo della deduzione dialettica delle categorie neiGrundrisse.
Come è noto, vi è passaggio dialettico tra un concetto e un altro se il primo
concetto è investito da un contraddizione oggettiva, la cui soppressione
comporta il passaggio ad un concetto superiore, immune dalla precedente
contraddizione. Ora, qual’è la contraddizione del primo stadio della deduzione
marxiana, la circolazione semplice delle merci? Essa consiste nel fatto, scrive
Marx, che “non si può dire che nella circolazione semplice il valore di scambio
si realizzi in quanto tale. Esso viene sempre realizzato soltanto nel momento
del suo scomparire. Se la merce viene scambiata con la merce mediante il denaro,
la sua determinazione di valore scompare nel momento in cui essa si realizza,
ed esce fuori del rapporto, diventa indifferente ad esso e ormai soltanto
oggetto diretto del bisogno. Se il denaro viene scambiato con la merce, si pone
addirittura la scomparsa della forma dello scambio in quanto mediazione formale
per impadronirsi del materiale naturale della merce. Se la merce viene
scambiata con denaro, la forma del valore di scambio, il valore di scambio come
tale, il denaro persiste soltanto finché si mantiene al di fuori dello scambio,
finché gli si sottrae, diventando dunque una realizzazione puramente illusoria,
puramente ideale in questa forma in cui l’autonomia del valore di scambio
esiste tangibilmente. Se infine il denaro viene scambiato col denaro [...],
allora non appare neanche più una differenza formale tra i distinti; si ha
distinzione senza differenza; non solo scompare il valore di scambio, ma anche
il movimento formale del suo scomparire”[36]. Si noti l’insistenza marxiana sul tema
dello scomparire, dello svanire del valore di scambio nella circolazione. Esso
ha in gran parte il medesimo statuto concettuale del “dileguarsi” hegeliano. Il
valore di scambio come tale nella sua autonomia dal valore d’uso, infatti, non
viene “sopportato” dalla circolazione; esso deve continuamente entrare ed
uscire dalla circolazione e quindi dipendervi. L’estremo tentativo, concepito
all’interno della sfera della circolazione, per rompere questa dipendenza, il
movimento della tesaurizzazione, si rivela anch’esso un’illusione: il punto è
che per quanto denaro si accumuli si sarà sempre costretti a reimmetterlo nella
circolazione, giacché il valore di scambio si realizza solo nella sua conversione
in valore d’uso. Anche, cioè, nella sua terza e ultima determinazione, come
rappresentante materiale della ricchezza, nel punto della sua massima autonomia
di valore di scambio come tale, il denaro “viene realizzato solo in quanto
viene di nuovo posto in circolazione, e svanisce di fronte ai singoli modi
particolari della ricchezza”[37]. Ecco dunque dispiegata la
contraddizione: il valore di scambio non raggiunge, anche nell’ultima
determinazione dal denaro, quella piena autonomia dal suo opposto, il valore
d’uso, che gli è prescritta dal suo concetto. Esso deve perciò togliersi come
terza determinazione del denaro, negarsi come denaro e conquistare una nuova e
più adeguata forma di esistenza. In questa nuova forma di esistenza esso deve
essere capace di passare nella circolazione rimanendo nel contempo presso di sé
e rimanere presso di sé passando nella circolazione. Ma in questa nuova forma
di esistenza il valore di scambio deve anche superare il rapporto accidentale
che intratteneva con il valore d’uso all’interno della circolazione. Qui il
valore d’uso non si contrappone come tale al valore di scambio “ossia come un
valore d’uso determinato dallo stesso valore di scambio; mentre viceversa il
valore d’uso come tale non è in rapporto al valore di scambio, bensì diventa
valore di scambio determinato per il fatto che la natura comune dei valori
d’uso - di essere cioè tempo di lavoro - è imposta loro come criterio
estrinseco [...]. Che il valore d’uso divenga tale soltanto mediante il valore
di scambio, e che il valore di scambio si medi attraverso il valore d’uso, deve
essere ora posto. Nella circolazione del denaro [...] [un] reale rapporto tra
valore di scambio e valore d’uso non aveva luogo. La merce in quanto tale - la
sua particolarità - è perciò un contenuto indifferente, meramente accidentale,
rappresentato en général, il quale cade al di fuori del rapporto
economico formale”[38]. I valori d’uso nel processo di
circolazione erano accidentali per il valore di scambio poiché al valore di
scambio era indifferente con quale particolare e determinato valore
d’uso esso si scambiasse. Il contenuto dello scambio era, dunque,
indifferente al valore di scambio, cioè alla forma di valore dei
particolari valori d’uso. E questa contraddizione, questo reciproco non
corrispondersi tra forma e contenuto può
essere negato solo a patto che il valore di scambio ponga un valore
d’uso ad esso adeguato. Ma se il concetto di valore, in quanto totalità dei
valori d’uso, è un concetto universale, la cui determinazione formale perciò
non può essere esaurita da nessuna quantità determinata di valori d’uso, allora
contrapporgli un valore d’uso adeguato significa contrapporgli qualcosa che
possa accrescerlo e moltiplicarlo ad infinitum, che rappresenti
la possibilità della ricchezza e non la sua realtà. La realtà
della ricchezza, esprimentesi in una determinata quantità di lavoro oggettivato
in merci, lo ripetiamo, non fa che contraddire sempre alla determinazione
formale di valore, la cui conservazione coincide ipso facto con
la sua moltiplicazione. L’unico valore d’uso che si contrappone alla realtà
determinata quantitativamente del lavoro oggettivato in merci è il
lavoro come soggettività, come infinita possibilità di creare valore. Per
concludere: il valore che percorre tutte le fasi della circolazione, merce e
denaro, rimanendo presso di sé e si scambia con un valore d’uso, il suo
contenuto, che corrisponde pienamente alla sua determinazione formale di essere
valore che si accresce e moltiplica è il capitale. Come si può, ora,
agevolmente notare, costruire logicamente il concetto di capitale fa tutt’uno
col concepirlo come rapporto fra sé e il suo opposto, il lavoro.
Tutto questo
nei Grundrisse. Il capitale smentisce o riformula in altro
e diverso modo questa presentazione del concetto di capitale? A noi pare di no.
Certo, qui la forma espressiva è molto più asettica, meno ricca di stilemi
dialettici, quasi del tutto sfrondata da quel linguaggio speculativo che
contrassegna i Grundrisse e che ha esercitato un fascino ipnotico su
molte schiere di lettori e interpreti. Nondimeno la sostanza del ragionamento
marxiano a proposito del passaggio al capitale rimane, diversamente da quanto
pensa Bidet, immutata. Anche nel Capitale Marx comincia la
trattazione del nucleo della deduzione del capitale dal mercato lumeggiando la
contraddizione oggettiva esistente tra il concetto di valore e le sue funzioni
e forme di esistenza ricoperte all’interno della circolazione semplice delle
merci. Qui, dice Marx, “Le forme autonome, le forme di denaro, assunte nella
circolazione dal valore delle merci, servono soltanto da mediazione allo
scambio di merci, e scompaiono nel risultato finale del movimento”[39].
Il valore di scambio non riesce a porsi come tale nella
circolazione, ad arrestare il suo dileguare perenne nei valori d’uso.
Precisamente come neiGrundrisse, anche nel Capitale l’accento di Marx
batte sul tema hegeliano dello svanire, dello scomparire del valore nei valori
d’uso, e sull’incapacità del valore di conquistare un’autonomia positiva,
e non negativa come nella tesaurizzazione, dalla circolazione
semplice delle merci. Invece già nella prima forma, sebbene imperfetta, di
circolazione del denaro D-M-D appare con chiarezza che “merce e denaro,
funzionano soltanto come differenti modi di esistere del valore stesso:
il denaro come suo modo di esistenza generale, la merce come suo modo di
esistenza particolare [...]. Il valore trapassa costantemente da una forma
all’altra, senza perdersi in questo movimento, e si trasforma così in un
soggetto automatico [...]. Come soggetto prepotente di tale processo,
nel quale ora assume ora dimette la forma di denaro e la forma di merce, ma in
questo variare si conserva e si espande, il valore ha bisogno prima di tutto di
una forma autonoma, per mezzo della quale venga constatata la sua identità con
se stesso. E possiede questa forma solo nel denaro [...]. Ma qui il
denaro, per sé preso, conta solo come una forma del valore, poiché questo
ha due forme. Senza l’assunzione
della forma di merce il denaro non diventa capitale, quindi
il denaro non si presenta qui in antagonismo con la merce, come nella
tesaurizzazione”[40]. È un passo questo di eccezionale
importanza: qui Marx mostra che l’autonomia positiva dalla circolazione che il
valore acquisisce già nel ciclo D-M-D non significa assolutamente
allontanamento del denaro dagli scambi, che è operazione puramente negativa
caratteristica della tesaurizzazione, ma piuttosto sua assunzione in alternanza
e della forma di merce e della forma di denaro. Risuona qui il dettato
dei Grundrisse: è capitale quel valore che pur passando nella circolazione
rimane presso di sé e rimane presso di sé pur passando nella circolazione.
Certo, cambiano i termini, quel “rimanere presso di sé”, che aveva
neiGrundrisse una distinguibile coloritura hegeliana, diventa qui in
maniera meno speculativa “identità con se stesso”, ma la sostanza concettuale
non muta. Non è sorprendente, dunque, che questa sequenza argomentativa termini
proprio con un confronto fra il modo di esistenza del valore nella circolazione
delle merci e quello nella circolazione D-M-D: “Se nella circolazione semplice
il valore delle merci nei confronti del loro valore d’uso riceve tutt’al più la
forma autonoma del denaro, qui esso si presenta improvvisamente come una
sostanza dotata di proprio processo vitale e di moto proprio, per la quale
merce e denaro sono entrambi pure e semplici forme”[41]. Senza l’assunzione della forma di
merce, dice Marx, il denaro non diventa capitale. Ma, di nuovo come
nei Grundrisse, il valore, nella forma di denaro, se assume la forma di
merce di oggetti utili al soddisfacimento di un bisogno, assume un contenuto a
sé esteriore ed indifferente, un contenuto che nella sua determinatezza
qualitativa, di essere sempre e comunque una quantità determinata di
valore d’uso, contraddice alla nota concettuale essenziale del valore, e cioè
quella di essere una quantità che si accresce adinfinitum. Il valore deve
trovare un valore d’uso a sé adeguato. Il possessore di denaro deve trovare
perciò “all’interno della sfera della circolazione, cioè
sul mercato, una merce il cui valore d’usostesso possedesse la
peculiare qualità di essere fonte di valore; tale dunque che il
suo consumo reale fosse esso stesso, oggettivazione di lavoro, e
quindi creazione di valore. E il possessore di denaro trova sul
mercato tale merce specifica: è la capacità di lavoro,
ossia la forza-lavoro”[42]. La qualità di questa merce specifica è
di essere capacità di lavoro, ossia di essere
infinita possibilitàdi creare ricchezza, unico termine antitetico al
lavoro oggettivato spazialmente presente e alla realtà della
ricchezza. Si riversa qui tutta la problematica del lavoro come unico opposto
adeguato al capitale di cui i Grundrisse avevano cominciato a
delinearne i tratti specifici. Marx, come unico opposto adeguato al capitale,
si riferisce, dunque, ad una sorta di musiliano uomo senza qualità, ad un uomo
della possibilità, privo di ogni determinatezza tranne quella di creare
ricchezza sociale. È questo il lato del lavoro posto come non-capitale sia
nella figura di lavoro non-oggettivato negativamenteconcepito, e cioè
posto nella sua astrazione dall’oggettività del lavoro, i mezzi e gli
oggetti di lavoro, sia nella figura di lavoro
non-oggettivato positivamente concepito, e cioè come pura possibilità
produttrice, sorgente inesauribile del valore[43]. Senonché – e ciò basta da sé a revocare
in dubbio le letture idealistico-operaistiche che talora si fanno
dei Grundrisse a muovere da questa sola dimensione del lavoro - Marx
connette tale determinazione del lavoro come valore d’uso opposto al capitale
alla sua determinazione come valore d’uso del capitale. Per Marx solo
se “portato ad attività reale mediante il contatto con il capitale – da se
stesso non può giungervi, perché è privo di oggetto -, esso diventa un’attività
reale creatrice di valori, un’attività produttiva”[44]. L’incorporazione del lavoro nel
capitale come sua dimensione oggettiva consente, per Marx, al lavoro di
congedarsi dalla sua esistenza puramente soggettiva, riflessa in sé, e al
capitale di acquisire l’elemento che lo attiva, lo “porta a fermentazione”[45].
Diversamente da Heidegger, Marx pensa che la possibilità non sia mai più alta
della realtà.
Con l’individuazione della capacità di lavoro come unico
opposto adeguato al capitale, Marx conclude sia nei Grundrisse che
nel Capitale la deduzione dialettica del capitale dal mercato. È
importante notare che il passaggio al capitale rappresenta il “dileguarsi del
dileguare”[46], il dileguarsi cioè della “sfrenata
inquietudine”[47] che caratterizza la circolazione.
La perenne conversione della forma di merce nella forma di denaro e della forma
di denaro nella forma di merce che avviene nella circolazione è analogo al
perenne sparire dell’essere nel nulla e del nulla nell’essere che costituisce
il divenire hegeliano. E proprio come il divenire hegeliano è affetto da una
contraddizione in se stesso, poiché raccoglie in unità ciò, l’essere e il
nulla, che si allontana continuamente da questa unità, così la marxiana
circolazione semplice delle merci è in contraddizione con sé perché raccoglie
in unità ciò, la merce e il denaro, che si allontana continuamente
da questa unità. E come la “sfrenata inquietudine” del divenire hegeliano si
risolve nel “risultato calmo”[48] dell’esser determinato così la
perenne inquietudine della marxiana circolazione semplice delle merci trova
riposo solo nella conversione del denaro, cioè del valore, in una merce, la
forza-lavoro, il cui consumo assicura la conservazione e la
moltiplicazione del valore stesso. Il capitale è, così, il risultato di un
rapporto finalmente stabile e organico tra il denaro e la merce.
Bidet, tuttavia, ha in riserva un altro atout per
delegittimare la tesi della sostanziale identità concettuale fra la deduzione
del capitale dal mercato dei Grundrisse e quella del Capitale. A
suo giudizio, la trama della deduzione dialettica tiene solo nella misura in
cui si concepisce il primo momento dell’esposizione, il mercato, come il
“fenomeno” dell’“essenza” costituita dal “laboratorio della produzione”. È ciò
che accade nei Grundrisse, dove i rapporti di circolazione sono esplicitamente
inscritti sotto l’arco della “superficie” della struttura sociale
capitalistica. Nondimeno, sostiene Bidet, “Marx passa poi progressivamente a
concepirlo [il primo momento] come il momento
della produzione-circolazione mercantile (quindi anche della relazione
concorrenziale) in generale, inteso non come uno stadio precapitalistico,
ma come il momento più «astratto» della struttura del modi di produzione
capitalistico. Quest’ultima concezione è quella che si afferma
nel Capitale, ma in maniera ancora implicita e frammentaria, e senza che
Marx ne tragga tutte le conseguenze, il che provoca una indeterminatezza tale
da lasciar persistere, anche in quest’ultimo scritto, la tendenza a rendere
marginale e puramente fenomenica la questione della concorrenza. […] Il
capitale reca, su questo punto, un profondo rimaneggiamento. La sua prima
sezione si intitola «Merce e denaro». Essa intende trattare della «legge della
produzione mercantile». Ed il primo capitolo tratta anzitutto della produzione
(§§ 1-2). Solo in seguito vengono le questioni dello scambio, della
circolazione e del denaro. Marx sembra dunque scegliere come primo oggetto
dell’analisi la struttura di produzione-circolazione mercantile in generale”[49].
In definitiva, la I sezione del Capitale assomiglia di più
all’esposizione delle strutture costitutive di un rapporto di produzione
mercantile che alla sfera della circolazione delle merci.
Ora, lo stesso Bidet ritiene che per la compiuta
caratterizzazione della I sezione come rapporto di produzione mercantile
manchino nel Capitale ancora molti e decisivi tasselli: la categoria
di concorrenza (in una branca/tra branche), di valore (individuale/sociale), di
prezzo di mercato, di Stato, e infine le categorie giuridiche. Completare
questi vuoti significa di fatto, però, ricostruire la teoria marxiana dalle
fondamenta. È quello che in questi anni ha, infatti, cercato di fare Bidet
allargando la I sezione del Capitale a presupposto astratto e
generale della società moderna. Ma sono sviluppi questi che, in tale sede,
siamo impossibilitati ad esaminare. A noi interessa ancora mettere alla prova
la tenuta della sua proposta interpretativa, rispetto alla quale serbiamo, di
nuovo, perplessità e di ordine, per così dire, “filologico” e di ordine più
strettamente teorico.
Dal versante “filologico” ci convince poco la maggiore
evidenza testuale addotta da Bidet: il titolo del I paragrafo del capitolo
XXII, “Processo di produzione capitalistico su scala allargata. Conversione
delle leggi della proprietà della produzione delle merci in leggi
dell’appropriazione capitalistica”, e il suo contenuto, non ci sembrano che
facciano riferimenti diretti alla I sezione. Perché se è vero che Marx fa cenno
alle “leggi primordiali della produzione di merci”[50], è altresì vero, però, che lo fa per
mettere in rilievo il loro rovesciamento ad opera dell’appropriazione
capitalistica[51]. Il fuoco dell’analisi è ancora una
volta il rovesciamento della forma dello scambio
forza-lavoro/capitale, l’eguaglianza dei possessori di merci che si
fronteggiano ed entrano in relazione tra di loro, nel suocontenuto, la
disuguaglianza del rapporto di sfruttamento. Marx sembra qui riprodurre movenze
già conosciute, quelle esibite al termine della II sezione del I Libro con il
contrasto fra l’Eden dei diritti umani dello scambio e l’estrazione di
pluslavoro. Ed è, del resto, proprio da quest’ultimo luogo che giungono gli
elementi più probanti per continuare a qualificare la I sezione come sezione
della circolazione delle merci. In questo punto, Marx sembra non nutrire dubbi:
“Il consumo della forza-lavoro, come il consumo di ogni altra merce, si
compie fuori del mercato, ossia della sfera dellacircolazione.
Quindi, assieme al possessore di denaro e al possessore di forza-lavoro,
lasciamo questa sfera rumorosa che sta alla superficie ed è accessibile agli
sguardi, per seguire l’uno e l’altro nel segreto laboratorio della
produzione”[52]. Esattamente, quindi, sulla soglia del
passaggio alla III sezione, a partire dalla quale viene svolta l’analisi del
nucleo della produzione capitalistica di merci, Marx volge indietro il suo
sguardo verso le sezioni già compiute e le inscrive senza indecisioni entro la
cornice della circolazione di merci.
Nondimeno, le nostre riserve verso la disposizione entro un
contesto di rapporti di produzione mercantili della I sezione
del Capitale provengono da un ambito più strettamente teorico.
Temiamo, infatti, che non sia facile tenere assieme in maniera non
contraddittoria con l’ipotesi che la I sezione esprima le strutture costitutive
di un autonomo rapporto di produzione mercantile l’assunzione che la materia
espositiva del Capitale sia organizzata secondo il circolo dialettico
del presupposto-posto, che è convinzione più volte ribadita da Bidet. A rigore,
il circolo dialettico del presupposto-posto implica che sia il posto a
presupporre il suo presupposto. Il primo momento, il presupposto, deve essere
posto dai momenti successivi. La I sezione, quindi, deve essere posta da tutto
ciò che segue la III sezione; la teoria del valore deve essere posta dalla
teoria del plusvalore. Se così è, già una proposta interpretativa può essere
esclusa dalla nostra attenzione: quella che ritiene che il primo momento si
muova in un orizzonte precapitalistico, secondo la
lettura, auctore Engels, logico-storica del Capitale.
Se il primo momento fosse precapitalistico il posto presupporrebbe un
presupposto interamente diverso da sé, il che non è logicamente sostenibile. Né
si può ritenere che il primo momento sia interamente penetrato dalle mature e
compiute determinazioni capitalistiche di forma: in tal caso il posto
presupporrebbe un presupposto a sé identico. Il presupposto, come rileva anche
Bidet, conformemente alla logica del passaggio dall’astratto al concreto che
il Capitale mutua dalla Scienza della logica, non può essere già
pieno di determinazioni. Deve essere un momento astratto, vale a dire semplice,
meno ricco di determinazioni. Rimangono sul terreno due ipotesi: che il primo
momento sia di produzione-circolazione mercantile, e cioè un autonomo rapporto
di produzione mercantile, o che sia di circolazione delle merci. Noi riteniamo
che se fosse vera la prima ipotesi il posto, la produzione capitalistica di
merci, dovrebbe presupporre come suo presupposto ancora una volta un
presupposto a sé estrinseco, un rapporto di
produzione non capitalistico, dotato di proprie e specifiche
articolazioni, con propri e specifici rapporti sociali, politici etc. Il
presupposto, rammentiamolo, rientra in un circolo riflessivo, e perciò non può
mai recidere i suoi nodi con il posto. Ecco perché è la seconda ipotesi, quella
secondo la quale il primo momento rappresenta un momento di circolazione delle
merci, a parerci la più persuasiva: essa soddisfa contemporaneamente e
l’esigenza che il presupposto rimanga interno al circolo riflessivo e
l’esigenza che il primo momento sia astratto. La circolazione delle merci della
I sezione è, quindi, già interna al processo capitalistico di produzione delle
merci, ma ne rappresenta, al contempo, il suo momento più astratto. Solo questa
ipotesi di lettura impedisce di pensare che il Capitale sia anche
teoria di altri modi produzione, oltre a quello capitalistico. A noi
il Capitale pare essere ciò che, letteralmente, suggerisce il titolo:
una teoria della società capitalistica indagata nelle sue diverse scansioni e
articolazioni[53].
Visto dunque nella sua purezza, prescindendo da tutte le
differenze nella disposizione degli elementi nell’argomentazione, dalla forma
espressiva etc., lo schema di sviluppo dialettico delle categorie che
caratterizzava i Grundrisse continua, a nostro avviso, contrariamente
a quanto pensa Bidet, ad operare anche nel Capitale. In fondo, si potrebbe
dire che la tesi di Bidet, seguendo un suggerimento da lui stesso offerto[54],
rappresenta una radicalizzazione della lettura di Marx avanzata da Lucio
Colletti. Come è noto, Colletti si distinse nell’ambito della discussione su
Marx svoltasi tra gli anni ’60 e ’70 per aver sostenuto, in particolar modo
nella fase finale della sua esperienza di interprete dell’autore
del Capitale, che si poteva rivolgere alla dialettica marxiana la medesima
critica che si era rivolta, da Trendelenburg al Marx della Kritik del
’43 a Galvano Della Volpe, alla dialettica hegeliana. La dialettica hegeliana
inscenava, secondo questa critica, solo l’apparenza di un autosviluppo delle categorie,
giacché a garantire che il movimento delle categorie non fosse soltanto una
finzione era l’Einschiebung, l’interpolazione entro di sé di
elementi provenienti dall’esterno, dall’empiria. Colletti estese[55] questa
critica anche alla dialettica marxiana: essa non era sostenibile perché
riproduceva la stessa ibrida mescolanza tra il piano ideale dello sviluppo
delle categorie e gli elementi empirici surrettiziamente inseriti in esso per
assicurarne la plausibilità. Bidet ritiene da un lato, alla pari di Colletti,
che il movimento delle categorie marxiane abbia luogo solo attraverso la
progressiva assunzione di elementi dall’empiria[56], ma, dall’altro lato, pensa,
diversamente da Colletti, che già Marx avesse conseguito la consapevolezza, una
volta giunto alla redazione del Capitale, della sterilità di ogni
tentativo di organizzare dialetticamente la materia concettuale. Il paradosso
teorico di cui pare non accorgersi Bidet è che, anche una volta che sia
assodato che questo metodo costruttivistico si pone in netta antitesi rispetto
a quello dialettico, esso rimane ugualmente esposto alla critica, di stampo
gnoseologico, che Colletti muoveva sia alla dialettica hegeliana che alla
dialettica marxiana. Il metodo costruttivistico caldeggiato da Bidet non può
funzionare, infatti, che attraverso quella che Colletti chiamerebbe una cattiva
mediazione dell’empiria: essa è qui assunta dall’esterno entro il sistema
teorico e non le viene assegnato nessun ruolo nella produzione dei concetti.
Essa ìntegra e riempie di contenuto un piano concettuale già sviluppatosi
autonomamente. La teoria si dirompe in due lati connessi fra di loro in modo
esteriore: nel lato del concetto, pieno di forma ma vuoto di contenuto, e nel
lato dell’empiria, vuoto di forma ma pieno di contenuto.
Ma l’ingresso in campo di Colletti ci consente di
riconvocare anche l’altro capofila della lettura “scientista” di Marx emersa e
impostasi negli anni ‘60 e ’70 del secolo scorso: Althusser. Con gli elementi
raccolti possiamo, infatti, pervenire ad un, almeno provvisorio, bilancio circa
il rapporto tra Bidet e la problematica teorica althusseriana. Certamente, come
abbiamo già avuto modo di accennare all’inizio, Bidet ha promosso una lettura
post-althusseriana del Capitale. Pur avendo, infatti,
abbracciato il progetto althusseriano di analisi dei meccanismi di costruzione
della teoria nel Capitale, mutuandone così anche l’intenzionalità
anti-dialettica, Bidet se ne è posto poi ai suoi margini. E non solo in ragione
della maggiore attenzione posta alla storia evolutiva dei materiali di critica
dell’economia politica che Marx redige fino alla pubblicazione
del Capitale e del maggior valore che nella sua analisi riveste il
concetto di “ordine di esposizione”, ma anche perché, in un modo che qui non
abbiamo avuto la possibilità di esaminare, Bidet è giunto, attraverso
l’evidenziazione delle valenze “politiche” del concetto economico di
“valore”[57], a destituire di fondamento la totalità
strutturale althusseriana, poggiante sulla netta separazione delle diverse
strutture regionali (economia, politica, scienza, ideologia etc.) che
compongono un sistema sociale. Così come la tematica althusseriana
dell’interpellation, da cui conseguono potenti effetti svalorizzanti dei lati
giuridici e politici di una società[58], non poteva non essere rimessa in
questione dalla convinzione, progressivamente maturata da Bidet, dell’autonomia
dei princìpi normativi racchiusi nel diritto e nella politica moderni.
E tuttavia il debito contratto da Bidet con Althusser non è
facilmente estinguibile. Esso continua a farsi intravedere proprio entro la
ricostruzione che Bidet ha elaborato del passaggio marxiano dal mercato al
capitale. A noi pare, infatti, che sia precisamente lo spostamento di
attenzione che Bidet ha operato dalle contraddizioni del concetto di denaro
alle contraddizioni della formula D-M-D a custodire una profonda radice
althusseriana. L’analisi si trasferisce dallo studio delle contraddizioni che
investono la determinazione formale di denaro alla rilevazione della assenza di
senso che caratterizza la formula D-M-D. Ma questa assenza di senso, dice
Bidet, viene individuata solo allorquando si procede ad una critica della
coscienza spontanea che “non vede nel capitale che un’altraforma della
circolazione mercantile”[59]. Marx, quindi, giunge da D-M-D a D-M-D’
solo interpellando la coscienza spontanea, ridestandola dalla sua
torpida subordinazione alla ideologia del capitale. La formula D-M-D,
infatti, come Bidet dice in Théorie générale, è la formula ideologica del
capitale: “Il carattere non dialettico dell’operazione si manifesta nel fatto
che non è dalla considerazione del primo momento, il mercato, che emerge il
secondo, ma da una (splendida) anticipazione didattica che consiste
nell’impadronirsi dell’espressione ideologica del capitale, a
mostrarne la contraddizione interna, e, per un movimento di regressione, a
ritornare sul primo momento, la teoria del mercato, per trovarne gli elementi
concettuali che permetteranno di togliere questa contraddizione”[60].
È la conoscenza della assenza di senso della formula D-M-D che
induce, dunque, a ricercare quell’elemento, la forza-lavoro, che, solo, può
restituire coerenza a D-M-D trasformandola in D-M-D’. La scena del passaggio
dal mercato al capitale viene sgombrata dalla consecuzione logica tra una forma
e un'altra, tra un concetto e un altro, per essere occupata dalla battaglia fra
scienza e ideologia. Tema caratteristico di Althusser. Il quale si figura il
rapporto fra scienza e ideologia come il rapporto spinoziano
tra ratio e imaginatio. È proprio così, infatti, che Althusser
dispone, in Lire le Capital, il rapporto fra la scienza marxiana e
l’ideologia dell’economia politica classica e neoclassica. Una volta che la
scienza abbia posto il concetto adeguato del suo oggetto “allora la pretesa
dell’Economia politica sparisce in ciò che essa è: pretesa immaginaria”[61].
L’ideologia si rivela per tale solo allorché viene conosciuta nella sua genesi
e nella sua struttura dalla scienza. L’ideologia, cioè, non dispone di risorse autoriflessive, non è capace
di sapersi. Se avesse accesso alla conoscenza di sé sarebbe, allora, in
grado di illuminare le ragioni strutturali che la inducono a produrre
distorsioni del reale; si troverebbe nella paradossale, e contraddittoria,
situazione per la quale conosce proprio mentre produce errori. Il passaggio
dall’ideologia alla scienza non può essere, quindi, generato da contraddizioni
immanenti all’ideologia, non può svolgersi secondo cadenze dialettiche. Non vi
è nessuna fenomenologia: si giunge alla scienza dalla scienza stessa.
Similmente, dicevamo, Spinoza configura il rapporto fra immaginazione e
ragione: la prima non scopre di essere affetta da erroneità finché non
interviene la ragione. Bisogna osservare, dice Spinoza nell’Etica, che “le
immaginazioni della mente, considerate in sé, non contengono nulla di erroneo,
ossia che la mente non cade in errore per il fatto che immagina; ma soltanto in
quanto la si considera priva dell’idea che esclude l’esistenza di quelle cose
che immagina come a sé presenti”[62]. Solo le idee adeguate, prodotto di
ragione, portano alla luce gli errori compiuti dall’immaginazione. Risultato
cui Spinoza perviene anche attraverso l’analisi della profezia
nel Trattato teologico-politico: finché i profeti rimangono avvinti
dall’immaginazione non hanno consapevolezza dei propri errori e, perciò,
possono acquisire la chiarezza e la distinzione che appartengono alle idee adeguate
solo in forza dell’intervento della ragione[63].
Facendo sorreggere il passaggio marxiano dal mercato al
capitale non dalla dialettica, ma dalla critica dell’ideologia, Bidet
piega, dunque, Marx più verso Spinoza, che verso Hegel. È ciò che,
instancabilmente, Althusser ha perseguito lungo tutto l’arco della sua
tormentata vicenda intellettuale.
Note
* Nello stesura di questo
articolo, che è la rielaborazione di una parte della tesi di laurea che ho
dedicato alla filosofia politica di Jacques Bidet, ho cercato di tener conto
delle obiezioni che, nel corso di una discussione epistolare avente per oggetto
precisamente la mia tesi, mi sono state mosse dallo stesso Bidet
[1] Jacques
Bidet, Que faire du Capital?, Materiaux pour une refondation,
Klincksieck, Paris 1985. Noi citeremo però dall’ultima edizione del
testo, Que faire du Capital?, Philosophie, économie et politique dans le Capital deMarx,
PUF, Paris 2000, cui Bidet ha fatto precedere una nuova prefazione e nuova nota
editoriale.
[2] Jacques Bidet, Théorie générale,
Théorie du droit, de l’économie et de la politique, PUF, Paris, 1999.
[3] Louis Althusser, L’objet du
Capital, in Louis Althusser, Étienne Balibar et. al., Lire le
Capital, Maspero, Paris 1965, tome II, pp. 170-177. Citiamo dall’edizione
francese perché nella traduzione italiana, quella uscita per Feltrinelli nel
1968, manca, inspiegabilmente, il capoverso in cui Althusser ragiona sulla
polarità Darstellung/Vorstellung. E non è l’unico inciampo: il concetto,
di ispirazione lacaniana, di “causalité métonymique” (ed. fr. p.171), invece di
essere tradotto come “causalità metonimica”, è trasformato in “causalità
metanomica” (ed. it. p. 198).
[4] Ivi, p. 82 e anche il
suo Avertissement aux lecteur du Livre I du Capital, in Karl Marx, Le
Capital, Garnier-Flammarion, Paris 1969. La successiva messa in
campo del concetto di “procès sans sujet”, articolato per la prima volta nel
febbraio del 1968 nel corso del seminario organizzato da Hyppolite sul tema
“Hegel e il pensiero moderno”, rappresenta, in qualche modo, anche il tentativo
di recuperare, purgato da tutti gli elementi finalistici, un rapporto positivo
con la forma idealistica di esposizione, oltre che di ristabilire a livello
interpretativo, dopo la decisa coupure di Lire le Capital, un
rapporto più “amichevole” fra Marx ed Hegel (cfr. Louis Althusser, Sur le
rapport de Marx à Hegel, in Jacques D’Hondt (sous la direction de), Hegel
et la pensée moderne, PUF, Paris 1970, pp. 105-111 e Réponse à John Lewis,
Maspero, Paris 1973, in particolare pp. 50-60).
[5] E lo stesso Althusser, come ormai
sappiamo dopo la pubblicazione dei suoi materiali postumi, si rese conto della
novità della lettura che di Marx ha fatto Bidet. Non solo riconobbe in Que
faire du Capital? un importante seguito alle sue ricerche, ma arrivò
persino a ritenere che l’idea che si era costruito del rapporto Marx-Hegel,
dovesse essere, alla luce delle indagini effettuate da Bidet, ricalibrata (Cfr.
Louis Althusser, L’Avenir dure longtemps, suivi de Les Faits,
Stock-IMEC, Paris 1992, p. 236, 506 e 522 e Sur la philosophie, Gallimard,
Paris 1994, p. 23 e 37). Althusser rimase stupito, in particolare, dell’uso
elegante ed informato che Bidet fa in Que faire du Capital? dei
manoscritti anteriori al Capitale. Come è noto, Althusser non ha mai letto
non solo i Manoscritti del 1861-1863, ma anche i Grundrisse, di cui
conosceva bene solo l’Einleitung del ‘57 e le Formen (cfr. su
ciò Lucien Sève,Althusser et la dialectique, in Pierre Raymond (sous la
direction de), Althusser philosophe, PUF, Paris 1997, p. 122).
[6] La letteratura prodotta dal marxismo
analitico è ormai copiosa e si estende su diversi regioni concettuali, da
quella economica e sociologica a quella più propriamente filosofica. Delle
opere maggiori degli autori principali (Roemer, Elster, Cohen etc.) del
marxismo analitico esiste in Italia un accurato florilegio preparato da Stefano
Petrucciani e Francesco Saverio Trincia: Marx in
America. Individui etica scelte razionali, Editori Riuniti,
Roma 1992. Ha iniziato ad aprire, in maniera sollecitante, un confronto fra i
temi normativi avanzati dal marxismo analitico e la più assestata tradizione
europea hegelo-marxista Mario Reale in Normativismo come patrimonio della
sinistra, “Critica Marxista” nuova serie, 1997, n. 2-3, pp. 88-92.
[7] Sarebbe impossibile in questa sede
riportare il ricco e articolato dibattito, ancora in corso, entro il marxismo
analitico sulla problematica dei “modelli di socialismo”. Cfr. per una
introduzione generale e una messa a punto dei risultati della discussione E.O.
Wright, Class Counts, Cambridge University Press, Cambridge 1997.
[8] La proposta forse più organica di
“socialismo di mercato”, è, come è noto, quella di John Roemer. Per giungervi
Roemer ha dovuto attendere ad una radicale ristrutturazione della teoria
marxiana del valore. Né è risultata una teoria dello sfruttamento non più
fondata sul rapporto di valore, bensì sui rapporti di proprietà. L’attenzione
si sposta quindi dall’analisi del processo produttivo di estrazione del
plusvalore, come accade in Marx, all’analisi delle diverse modalità secondo cui
si valorizzano o, viceversa, si svalorizzano gli assets, le “dotazioni”,
dei produttori di merci allorché entrano tra di loro in rapporti di
circolazione. Diventando il mercato il focus dell’analisi, ne segue
che la strategia di correzione delle disuguaglianze che il mercato stesso
produce, il socialismo, non può avere più come suo principale punto di
riferimento, come è in Marx, la sfera produttiva, bensì la stessa sfera
mercantile. Di Roemer, studioso poco conosciuto in Italia - come del resto
tutto il marxismo analitico - ci sembrano importanti soprattutto Rapporti di proprietà contro plusvalore nello sfruttamento marxiano,
in Stefano Petrucciani, Francesco Saverio Trincia (a cura
di), Marx in America. Individui etica scelte razionali, cit., pp. 99-137;
Should marxists be interested in exploitation?, in Bernard Chavance
(textes réunis par), Marx en perspective, Édition de l’École des Hautes
Études en Sciences Sociales, Paris 1985, pp. 29-50; A
General Theory of Exploitation and Class, Harvard
University Press, Cambridge Mass. 1982.
[9] Jacques Bidet, Théorie de la
Modernità suive de Marx et le marché, PUF, Paris 1990; trad. it. a cura di
Gianluca Foglia, Teoria della modernità, Marx e il mercato,
Editori Riuniti, Roma 1992, pp. 56-57.
[10] Ivi, p. 57.
[11] Ivi, p. 58.
[12] Ivi, p. 58.
[13] Ivi, p. 58.
[14] Ivi, p. 59.
[15] Ivi, p. 60.
[16] Karl
Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica,
trad. it. e cura di Enzo Grillo, La Nuova Italia Editrice, Firenze 1968, vol.
I, p. 249.
[17] Karl Marx, Il capitale, cit.,
Libro I, p. 165.
[18] Un eccezionale campione della
diversificazione marxiana fra Schranke e Grenze, che abbiamo
cercato di spiegare nel corpo del testo, è dato dalla discussione marxiana de
“I limiti della giornata lavorativa” (sez. III, cap. 8, § 1, ivi, pp. 265-269).
Questo è il titolo che Delio Cantimori, l’autore della traduzione italiana del
I Libro del Capitale di più largo uso nel mondo scientifico, ha
preferito assegnare al primo paragrafo dell’ottavo capitolo. Tale titolo, in
realtà, almeno a nostro avviso, dovrebbe essere modificato, giacché il testo
tedesco porta per “limiti” non Schranken, bensì Grenzen (cfr.
Karl Marx, Friedrich Engels, Gesamtausgabe, Abt. 2. “Das Kapital” und Vorarbeiten, Bd. 8. Das
Kapital, Kritik der politischen Ökonomie: 1. Bd., Hamburg
1883, Dietz Verlag Berlin 1989, p. 237). Grenze andrebbe
tradotto, in linea di massima, con “termine”. È ciò che, infatti, il
traduttore italiano talvolta compie quando nel corso del testo Marx costruisce
la coppia concettuale Schranke/Grenze. Marx dice infatti in uno di
questi luoghi: “Obgleich nun der Arbeitstag keine feste, sondern eine fliebende
Gröbe ist, kann er andrerseits nur innerhalb
gewisser Schranken variiren. Seine Minimalschranke ist
jedoch unbestimmbar. Allerdings, setzen wir die Verlängrungslinie b c, oder die
Mehrarbeit, =o, so erhalten wir eine Minimalschranke, nämlich den Theil
des Tags, den der Arbeiter nothwendig zu seiner Selbsterhaltung arbeiten mub. Auf Grundlage der kapitalistischen
Produktionsweise kann die nothwendige Arbeit aber immer nur einen Theil seines
Arbeitstags bilden, der Arbeitstag sich also nie auf dies Minimum verkürzen.
Dagegen besitzt der Arbeitstag eine Maximalschranke. Er is über eine
gewisse Grenze hinaus nicht verlängerbar. Diese Maximalschranke ist
doppelt bestimmt [...]”(Karl Marx, Friedrich Engels, Gesamtausgabe, Abt.
2. “Das Kapital” und Vorarbeiten, Bd. 8. Das Kapital, Kritik der
politischen Ökonomie: 1. Bd., Hamburg 1883, cit., p.
238). La traduzione italiana è: “Ora, benché la giornata lavorativa non
sia una grandezza fissa, ma anzi fluida, tuttavia essa può variare
soltanto entro certi limiti[Schranken]. Però il suo limite
minimo [Minimalschranke] è indeterminabile. Certo, se poniamo la linea di
prolungamento b c, ossia il pluslavoro, come eguale a zero, otteniamo un limite
minimo [Minimalschranke], cioè la parte del giorno che l’operaio deve
necessariamente lavorare per la propria conservazione. Ma, sul piano del modo
di produzione capitalistico, il lavoro necessario può costituire sempre
soltanto una sola parte della giornata lavorativa dell’operaio;
quindi la giornata lavorativa non può mai essere ridotta a questo minimo.
Invece la giornata lavorativa ha unlimite massimo [Maximalschranke], che
non è prolungabile al di là di un certo termine [Grenze]. Questo limite massimo
[Maximalschranke] è determinato da due cose [...]” (Karl Marx, Il
capitale, Critica dell’economia politica, Libro I, trad. it. di Delio
Cantimori, Editori Riuniti, Roma 1994, p. 266). Altrove, qualche pagina più in
là, in cui la distinzione viene chiaramente riaffermata, il traduttore
dimentica di far valere la medesima accortezza: “Man sieht: von ganz
elastischen Schranken abgesehn, ergiebt sich aus der Natur des
Waarenaustauschs selbst keine Grenze des Arbeitstags, also
keine Grenze der Mehrarbeit. Der Kapitalist behauptet sein Recht als Käufer, wenn er den Arbeitstag
so lange als möglich und wo möglich aus Einem Arbeitstag zwei zu machen sucht.
Anderseits schliebt die specifische Natur der verkauften Waare
eine Schranke ihres Konsums durch den Käufer ein, und der Arbeiter
behauptet sein Recht als Verkäufer, wenn er den Arbeitstag auf eine bestimmte
Normalgröse beschränken will” (Karl Marx, Friedrich
Engels, Gesamtausgabe, Abt. 2. “Das Kapital” und Vorarbeiten, Bd. 8. Das
Kapital, Kritik der politischen Ökonomie: 1. Bd., cit., p. 241). La
traduzione in italiano recita così: “È evidente: astrazion fatta da limiti
[Schranken] del tutto elastici, dalla natura dello scambio di merci, così
com’è, non risulta nessun limite [Grenze] della giornata lavorativa, quindi
nessun limite [Grenze] del pluslavoro. Il capitalista, cercando di rendere più
lunga possibile la giornata lavorativa e, quando è possibile, cercando di farne
di una due, sostiene il suo diritto di compratore. Dall’altra parte,
la natura specifica della merce venduta implica un limite [Schranke] del suo
consumo da parte del compratore, mentre l’operaio, volendo limitare
[bescränken] la giornata lavorativa ad una grandezza normale determinata,
sostiene il suo diritto di venditore” (Karl Marx, Il capitale, Critica
dell’economia politica, Libro I, cit., p. 269). Una chiara illustrazione,
infine, del significato che noi abbiamo cercato di assegnare aSchranke è,
secondo noi, quel luogo del III libro del Capitale (sez. III, cap.
15, § 3) in cui Marx, discutendo i problemi che ineriscono alla caduta
tendenziale del saggio di profitto, mette in luce il doppio significato del
concetto di limite: da una parte, esso indica e circoscrive la natura immanente
al concetto di “modo di produzione capitalistico” , dall’altra ne esprime le
contraddizioni e le disfunzioni interne che spingono verso la sua
stessa dissoluzione: “Il vero limite della produzione capitalistica
è il capitale stesso, è questo: che il capitale e la sua
autovalorizzazione appaiono come punto di partenza e punto di
arrivo, come motivo e scopo della produzione; che la produzione è
solo produzione per il capitale, e non al contrario i mezzi di produzione sono
dei semplici mezzi per una continua estensione del processo vitale per la società dei
produttori. I limiti nei quali possono unicamente muoversi la conservazione e
l’autovalorizzazione del valore-capitale, che si fonda sull’espropriazione e
l’impoverimento della grande massa dei produttori, questi limiti si trovano dunque
continuamente in conflitto con i metodi di produzione a cui il capitale deve
ricorrere per raggiungere il suo scopo, e che perseguono l’accrescimento
illimitato della produzione, la produzione come fine a se stessa, lo sviluppo
incondizionato delle forze produttive sociali del lavoro. Il mezzo – lo
sviluppo incondizionato delle forze produttive sociali – viene permanentemente
in conflitto con il fine ristretto, la valorizzazione del capitale esistente.
Se il modo di produzione capitalistico è quindi un mezzo storico per lo
sviluppo della forza produttiva materiale e la creazione di un corrispondente
mercato mondiale, è al tempo stesso la contraddizione costante tra questo suo
compito storico e i rapporti di produzione sociali che gli
corrispondono” (Karl Marx, Il capitale, Libro III, trad. it. di
Maria Luisa Boggeri, p. 303). Tutta da indagare rimane la questione del
rapporto fra la concettualizzazione marxiana del
binomio Schranke/Grenze e l’assestamento del suo significato entro
l’idealismo tedesco – dal Kant dei Prolegomeni, passando per il Fichte
della Dottrina della scienza del 1794, fino all’Hegel
della Scienza della logica (per una primissima introduzione al
problema si confronti la breve, ma densa puntualizzazione, posta nella sua nota
introduttiva, di Claudio Cesa in Scienza della logica, trad. it di Arturo
Moni rivista da Claudio Cesa, tomo I, Laterza, Roma-Bari,
pp. XXXIX-XLII).
[19] Ivi, p. 186.
[20] Ivi, p. 645, 648, 650. Altre
volte Trieb è usato proprio per designare la stessa molla interna che
governa il processo di capitale. Si veda, per esempio, Karl Marx,
Friedrich Engels, Gesamtausgabe, Abt. 2. “Das Kapital” und Vorarbeiten, Bd. 8. Das
Kapital, Kritik der politischen Ökonomie: 1. Bd., Hamburg
1883, Dietz Verlag Berlin 1989, pp. 239.
[21] In generale, è votato al fallimento
ogni tentativo di esaurire con la costruzione di formule la ricchezza di
contenuto di cui sono pregne le contraddizioni dialettiche. Ne è prova il fatto
che anche gli sforzi più seri per riuscire a dotare la dialettica, al pari della
logica formale, di sue formule caratteristiche sono, di fatto, naufragati nel
nulla. Il massimo che si può riuscire a conseguire è la produzione di formule
che rappresentino le cosiddette leggi generali della dialettica, coniate da
Engels nell’Antidühring e assunte pedissequamente da buona parte della
tradizione marxista: l’identità dei contrari, la doppia negazione e il
passaggio della quantità in qualità (cfr. fra i più validi studi che vanno in
questa direzione Leszek Nowak, On the structure
of marxist dialectics, “Erkenntnis”, XI, 1977, pp. 341-363). Senonché
è a sua volta dubbio se da un punto di vista rigorosamente dialettico sia
corretto e legittimo elaborare delle leggi generali della dialettica.
[22] Jacques
Bidet, Teoria della modernità, cit., p. 57.
[27] Ivi, p. 183.
[28] Ivi, p. 187.
[29] Ivi, p. 187.
[30] Jacques
Bidet, Teoria della modernità, cit., p. 58.
[31] Karl Marx, Il capitale,
cit., Libro I, p. 184. Il corsivo è nostro.
[32] Karl Marx, Lineamenti
fondamentali della critica dell’economia politica, cit., vol. I
, p. 160. Il corsivo è nostro.
[33] Jacques
Bidet, Teoria della modernità, cit., p. 59.
[34] Jacques
Bidet, La teoria del modo di produzione capitalistico,
in Biagio Muscatello (a cura di), Gramsci e il
marxismo contemporaneo, Editori Riuniti, Roma 1990, p. 166.
[35] Per questa ragione non è senza
pertinenza teorica l’analogia strutturale che Theunissen riscontra tra il
concetto hegeliano e il concetto di capitale marxiano. Dice, infatti, Theunissen
che “Già appare a prima vista, che la compiuta critica dell’economia politica
non limita solamente nel suo uso la logica delle determinazioni della
riflessione, ma la estende anche, per un altro riguardo, attraverso
l’applicazione contemporanea di categorie “posteriori” come “fondamento” e
“forma”, “soggetto” e “contenuto” . Si, perché già nell’analisi della
contraddizione del rapporto di capitale è presente, insieme alla sviluppata
logica dell’essenza, anche tutta la logica del concetto. Qui si manifesta con
chiarezza, che Marx si figura la dialettica riflessiva di questo rapporto nel
contenuto di uno svolgimento che riproduce, come realizzazione del concetto di
capitale, il comprendere/superare del concetto tout court sul
“suo altro” “Schon auf den ersten Blick fällt auf, daß die ausgebildete
Kritik der politischen Ökonomie die Logik der Reflexionsbestimmungen in ihrem
gebrauch nicht nur einengt, sondern in anderer Hinsicht auch ausweitet: durch
die gleichzeitige Verwendung “späterer” Kategorien wie “Grund” und “Form”,
“Subjekt” und “Inhalt”. Ja,
mit der fortgeschritten Wesenslogik ist auch die ganze Begriffslogik bereits in
der Analyse der Widersprüchlichkeit des Kapitalverhältnisses gegenwärtig.
Hierin kommt sinnenfällig zum Ausdruck, daß Marx die Reflexionsdialektik dieses
Verhältnisses in das Material einer Geschichte einbildet, die als Realisierung
des Kapitalbegriffs das Übergreifen des Begriffs schlechthin über “sein
Anderes” nachamt” (Krise der Macht, Thesen zur Theorie des dialektischen Widerspruchs, “Hegel-Jahrbuch”
1974, p. 325.La traduzione dal tedesco è nostra). Ci pare di poter dire,
anche sulla scorta di quanto dice Theunissen e accennando solo per sommi capi
ad una tematica che meriterebbe di essere svolta con ben maggiore ampiezza, che
la costituzione logica del concetto di capitale riproduce in larga parte la
struttura del concetto hegeliano: entrambi sono, infatti, concetti universali
che raggiungono un autoriferimento a sé solo assorbendo e incorporando la loro
alterità. Entrambi sono concetti, cioè, la cui universalità non è astratta, ma
racchiude al suo interno momenti differenti. La totalità del concetto in Hegel
e del concetto di capitale in Marx può essere pensata solo come la differenza
in sé stessa, differente dai differenti e dunque come identità con sé. Si
potrebbe dire che è proprio la figura dell’Übergreifen, del
comprendere/sopravanzare ad accomunare il concetto di capitale marxiano al
concetto hegeliano. La struttura dell’Übergreifen dice che qualcosa è, in
quanto si manifesta nel suo contrario. In Hegel il concetto è
un universale che si manifesta tuttavia nel suo opposto,
nel particolare, così come in Marx il capitale è, in quanto si manifesta
nel suo opposto, nel lavoro.
[36] Karl
Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica,
cit., vol. I, pp. 235-236.
[43] Karl Marx, Lineamenti
fondamentali della critica dell’economia politica, cit., vol. I, pp. 279-281.
[44] Ivi, p. 282.
[45] Ivi, p. 283.
[46] G.W.F.
Hegel, Scienza della logica, cit., p. 99.
[47] Ivi, p. 99.
[48] Ivi, p. 99.
[49] Jacques Bidet, Teoria della modernità,
cit., pp. 135-136.
[50] Karl Marx, Il capitale, cit.,
vol. I, p. 640.
[51] Riportiamo, per comodità del lettore,
uno dei frammenti di questo paragrafo che più possono aver indotto Bidet a
presentare la sua ipotesi di lettura: “In quanto il plusvalore, del quale
consiste il capitale addizionale n. 1 era risultato dell’acquisto della
forza-lavoro per mezzo di una parte del capitale originario, acquisto che
corrispondeva alle leggi dello scambio di merci, e, considerato giuridicamente,
non presuppone da parte dell’operaio altro che la libera disponibilità delle
proprie capacità, e da parte del possessore di denaro o di merci altro che la
libera disponibilità dei valori appartenentigli; in quanto il capitale n. 2 è
semplicemente risultato del capitale addizionale n.1, e quindi conseguenza di
quel primo rapporto; e in quanto ogni singola transazione corrisponde
costantemente alle leggi dello scambio di merci, e il capitalista compra sempre
la forza-lavoro e l’operaio sempre la vende - e vogliam supporre
sempre al suo valore reale -, la legge dell’appropriazione poggiante sulla
produzione e circolazione delle merci ossia legge della proprietà
privata si converte evidentemente nel proprio diretto opposto, per la
sua propria, intima, inevitabile dialettica. Lo scambio di equivalenti che
pareva essere l’operazione originaria si è rigirato in modo che ora si fanno
scambi solo per l’apparenza in quanto, in primo luogo, la parte di
capitale scambiata con forza-lavoro è essa stessa solo una parte
del prodotto lavorativo altrui appropriato senza equivalente, e, in
secondo luogo, essa non solo deve essere reintegrata dal suo produttore,
l’operaio, ma deve essere reintegrata con un nuovo sovrappiù.
Dunque, il rapporto dello scambio fra capitalista e
operaio diventa soltanto una parvenza pertinente al processo di
circolazione, pura forma, estranea al contenuto vero e proprio, semplice
mistificazione di esso. La compravendita costante della forza-lavoro è la
forma. Il contenuto è che il capitalista torna sempre a permutare contro sempre
maggiore quantità di lavoro altrui vivente una parte del lavoro altrui già oggettivato
che egli si appropria incessantemente senza equivalente. Originariamente il
diritto di proprietà ci si è presentato come fondato sul proprio lavoro.
Perlomeno abbiamo dovuto tener per valida questa ipotesi, perché si trovano
l’uno di fronte all’altro soltanto possessori di merci a pari diritti, e il
mezzo per appropriarsi merce altrui è soltanto l’alienazione della propria
merce, e questa si può produrre soltanto mediante lavoro. Adesso la proprietà
si presenta, dalla parte del capitalista come il diritto di
appropriarsi lavoro altrui non retribuito, ossia il prodotto di esso, e
dalla parte dell’operaio come impossibilità di appropriarsi il proprio
prodotto. La separazione fra proprietà e lavoro diventa conseguenza
necessaria di una legge che in apparenza partiva dalla loro identità”
(Karl Marx, Il capitale, cit., Libro I, pp. 639-640).
[52] Ivi, p. 208.
[53] È, a nostro avviso, con ragione,
quindi, che filosofi e studiosi “dialettici” come Hans Georg Backaus
(cfr. Zur Dialektik der Wertform, in Alfred Schmidt (herausgegeben
von), Beiträge zur marxistischen Erkenntnistheorie,Frankfurt 1969, pp. 128-152),
Helmut Reichelt (cfr. La struttura logica del concetto di capitale in
Marx, cit., pp. 188-206 e 275-320), Michael Theunissen
(cfr. Krise der Macht, cit., p.325) hanno sostenuto la necessità
di interpretare il primo momento dell’esposizione categoriale marxiana come il
momento della circolazione delle merci. Tuttavia essi non si limitano ad
affermare che il primo momento del sistema categoriale
marxiano, nei Lineamenticome nel Capitale, sia il momento
della circolazione delle merci, ma sostengono, inoltre, che esso rappresenti la
forma fenomenica del secondo momento dell’esposizione marxiana, la produzione.
Essi leggono quindi il passaggio dalla circolazione alla produzione come un
passaggio dal fenomeno all’essenza del capitalismo. Ciò accade perché la loro
interpretazione è legata eccessivamente alla forma di organizzazione delle
categorie che Marx ha presentato nei Lineamenti e manca perciò di
notare che Marx attenua, in tutti i testi successivi ai Lineamenti, la
caratterizzazione della circolazione come momento fenomenico del capitalismo.
Probabilmente qui la dipendenza da Hegel degli interpreti “dialettici”
del Capitale è troppo intensa. Considerare la circolazione come
momento fenomenico del capitalismo è funzionale, infatti, ad una lettura del passaggio
dalla circolazione alla produzione come un “ritorno al fondamento” di marca
hegeliana. Le conseguenze di una tale lettura sono, a nostro avviso, poco
accettabili: la circolazione perde quasi del tutto la propria autonomia
ontologica venendo risucchiata dal momento produttivo. In generale, poi, l’uso
della coppia essenza/fenomeno andrebbe accompagnato da maggiori cautele.
[54] Jacques
Bidet, Que faire du Capital?, cit., p.147.
[55] I prodromi di questa tesi si trovano
già in Il marxismo e Hegel, Laterza, Roma-Bari 1969, anche se la
sua dimostrazione definitiva e più esplicita si trova nel Tramonto delle ideologie,
Laterza, Roma-Bari 1980.
[56] Sembra paradossale ma anche studiosi
“dialettici” come Il’enkov caratterizzano il metodo marxiano in modo analogo a
quanto fa Bidet. Secondo Il’enkov Marx produce il passaggio al capitale proprio
attraverso un “ritorno all’empiria”. Come si concili il nesso dialettico delle
categorie con questo “ritorno all’empiria” non è però spiegato (cfr. E. V.
Il’enkov, La dialettica dell’astratto e
del concreto nel Capitale di Marx, cit., p. 235).Se si
concepisce la deduzione dialettica in questo modo allora ha buon gioco Colletti
ad affermarne la natura ambigua ed ibrida.
[57] Cfr. Jacques Bidet, Que faire
du Capital?, cit., pp. 45-75.
[58] Secondo Althusser, l’ideologia
giuridica, che è consustanziale al sistema moderno del diritto, così come ogni
altra ideologia, “costituisce” la categoria di soggetto, la chiama in vita. Nel
suo specifico campo d’azione, cioè, l’ideologia giuridica si comporta, per
Althusser, come tutte le altre ideologie (filosofiche, morali etc): interpella
gli individui concreti tramutandoli in soggetti, nel suo caso in “soggetti
titolari di diritti”. Ne consegue, quindi, che, conformemente al concetto di
ideologia che Althusser ha procurato di stabilire, anche l’ideologia giuridica
assieme alla pratica sociale cui è collegata, la creazione e il buon
funzionamento di un sistema giuridico, contribuiscono a gettare gli uomini in
un rapporto immaginario ed obliquo con le proprie condizioni di esistenza (cfr.
su ciò Louis Althusser, Lo Stato e i suoi apparati, trad. it. di Maria
Teresa Ricci, a cura di Roberto Finelli, Editori Riuniti 1997, in particolare
pp. 191-199).
[59] Jacques Bidet, Teoria della
modernità, cit., p. 59.
[60] “Le caractère non dialectique de
l’opération se manifeste dans le fait que ce n’est pas de la considération du
premier moment, le marché, qu’émerge le second, le capital, mais
d’une (splendide) anticipation didactique qui consiste à s’emparer de
l’expression idéologique du capital, à en montrer la contradiction
interne, et, par un mouvement de régression, à revenir sur le premier moment,
la théorie du marché, pour y trouver les élements conceptuels qui premettront
de lever cette contradiction” (Jacques Bidet, Théorie générale, cit., p.
165. La traduzione è nostra).

[62] Baruch Spinoza, Etica, Dimostrata
con Metodo Geometrico, a cura di Emilia Giancotti, Editori riuniti, Roma 1988,
p. 142, scolio della prop. XVII, parte II.
[63] Baruch Spinosa, Trattato
teologico-politico, trad. it. di Antonio Droetto e Emilia Giancotti Boscherini,
Einaudi, Torino 1972, p. 47.