
L’ampio saggio di Gennaro Sasso, Gramsci e l’idealismo
(Appunti e considerazioni), di recente uscito sulla rivista La Cultura (2003,
n. 3, pp. 351-402), presenta più di un aspetto singolare. Dedicato alla
ricostruzione del rapporto di Gramsci con l’idealismo, ma in realtà quasi
esclusivamente al suo rapporto con Benedetto Croce, in esso si alternano due
distinti registri, rispettivamente storico-filosofico e logico-teoretico. Ad
esempio, quando sostiene che il marxismo non può essere una “teoria delle
contraddizioni”, perché la contraddizione è qualcosa di impensabile, Sasso
adduce un argomento logico-teoretico, che richiederebbe, per la sua
discussione, di definire anzitutto cosa si intenda con “contraddizione” e con
“teoria”, ecc. A me interessa però considerare questo saggio in quanto studio
storico-filosofico
sul pensiero di Gramsci. Mi limiterò qui, pertanto, ad
esaminare il modo in cui viene da Sasso presentato il rapporto di Gramsci con
l’idealismo. Certo, nel fare questo sarà inevitabile produrre alcuni
riferimenti alla più generale problematica del “marxismo” e del suo statuto;
essi saranno però ridotti al minimo indispensabile e contenuti nei limiti della
funzionalità alla discussione che qui si intende svolgere
La tesi sostenuta da Sasso è in estrema sintesi la seguente:
nei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci troviamo sì un forte rapporto con
l’idealismo, e nella fattispecie con Croce più che con Gentile (l’A. contesta
nettamente la ricostruzione proposta da Augusto Del Noce), «ma la suggestione
esercitata dall’idealismo si determinò [per Gramsci] entro un quadro
consapevolmente delineato con i concetti del marxismo» (p. 378). In altri
termini Gramsci, anche il giovane Gramsci, non fu mai idealista, ma semmai si
rivolse ad alcune istanze idealistiche per servirsene, da un punto di vista
marxistico. E questo vale a fortiori per i Quaderni. Solo che, argomenta Sasso,
il marxismo stesso è una forma di idealismo, un pensiero “speculativo” (p.
377), una filosofia della storia in piena regola (p. 374), un pensiero affine
all’escatologia (p. 356). Obiezioni vecchie, e in parte anche giustificate
dalla storia del marxismo, cioè da alcune manifestazioni, al suo interno,
contro le quali Gramsci appunto rivolse tutte le proprie energie, con
particolare efficacia nei Quaderni. Ora, a questo proposito la tesi di Sasso è
che Gramsci, pur avvertendo il problema, non riuscì a risolverlo ma si limitò
ad esasperarne la drammaticità.
Alla discussione di questo punto vorrei ora rivolgermi, non
senza però aver fatto un appunto di carattere metodologico a un momento
centrale della ricostruzione di Sasso: il concetto di “marxismo” da lui
utilizzato. Esso è infatti decisivo per l’impianto dell’analisi e del giudizio
che ne scaturisce. Ebbene, Sasso lavora con un’idea unitaria di marxismo, che
peraltro non definisce né giustifica né in quanto unitaria, né per i tratti che
le assegna. Gli sparsi riferimenti lasciano comunque pensare che per lui il
marxismo sia in sostanza il pensiero di Marx, e anzi questo preso in blocco,
come un tutto indifferenziato dai Manoscritti del ’44 al Capitale. Entrambe
queste assunzioni corrispondono a delle precise scelte di campo storiografiche
in un dibattito che ha ormai superato il limite del secolo, scelte di campo che
andrebbero giustificate. Che il marxismo non sia una costruzione di Engels (Antidühring,
Ludwig Feuerbach), e che il Marx della Questione ebraica disponga degli stessi
strumenti concettuali e dello stesso quadro teorico del Capitale, è una tesi,
non un’ovvietà.
L’impressione è invece che questa assunzione sia funzionale
a rendere disponibile una comoda testa di turco bersagliabile à merci. Non solo
(e questo qui più importa), essa rende di diritto impossibile pensare che
Gramsci, o chiunque altro, abbia potuto interagire creativamente col pensiero
di Marx, di Engels ecc., pur rimanendo “marxista”: certo le cose, messe in
questo modo, sono un po’ troppo facili e lineari.
A questo proposito mi dispiace dover ricordare a Sasso cose
elementari, come l’articolo Il nostro Marx (pubblicato da Gramsci nel maggio
1918), dove il concetto di “marxismo” come terreno aperto e problematico è
articolato in modo limpido. Ma più in generale, solo se si assume quella del
marxismo come una “storia” nel vero senso del termine – cioè come un processo
plurale e costruttivo, e non come lo svolgimento di un’essenza – si può
comprendere come un Labriola, un Lukács, un Korsch, un Gramsci, un Althusser,
per fare i primi esempi che vengono alla mente, abbiano potuto dirsi “marxisti”
e rivendicare un’“ortodossia”, senza peraltro che le loro teorie si
accordassero in tutto e, qualche volta, nemmeno in grande parte.
In questo modo giungiamo a Gramsci. Sasso sostiene che
l’escatologia marxistica mette capo nella riduzione del passato filosofico ad
allegoria: esso viene cioè articolato in relazione alla natura ideologica delle
filosofie (p. 357). Gramsci, concede Sasso, non amò questo metodo
allegorizzante, eppure «in lui a prevalere [...] fu tuttavia una variante» (ibid.)
di esso, cioè «una disposizione a considerare i sistemi filosofici come
integrati in un blocco di forze storiche e solidale con queste» (pp. 357-8),
ciò che Gramsci definisce “blocco storico”. Vedremo tra breve il modo in cui
Sasso discute questo concetto, ma anzitutto va precisato questo punto.
L’allegoresi marxistica è, secondo Sasso, inscindibile dall’idea che il
presente prepari il futuro annullandosi in esso, insomma dall’essere il
marxismo un’escatologia. Allegoria ed escatologia si rimandano reciprocamente,
e tutte e due rinviano alla dialettica, cioè all’idea che vi sia, nella
struttura economica della società, una contraddizione che sviluppandosi produce
una società nuova.
Ma come non vedere che tutto ciò è assente in Gramsci? e
direi assente fin dalla Rivoluzione contro il Capitale del 1917, se non
addirittura già dalla Neutralità attiva ed operante (cioè dall’intreccio
strutturale guerra-rivoluzione) del 1914? Ma limitiamoci ai Quaderni: come è
possibile ignorare, come fa Sasso, che la categoria di “rivoluzione passiva”,
insieme a quella di “traducibilità dei linguaggi” (da lui nominata solo per
dire che possiede nei Quaderni un significato «in realtà soltanto metaforico»,
p. 360: come se in ciò non fosse appunto consapevolmente riposta da Gramsci la
sua potenza euristica!) – come è possibile ignorare che queste due categorie
tolgono di mezzo qualsiasi tentazione escatologica appunto perché (la
traducibilità) dispongono la “verità” dentro ogni espressione ideologica in una
forma particolare, e questa “particolarità” è a questo punto ciò che davvero
conta; e dall’altra parte (la rivoluzione passiva) ripensano il movimento
storico come “produzione” e non più come “evoluzione”, come cioè costante,
ininterrotta articolazione e riarticolazione di “rapporti di forza”
(l’espressione è gramsciana), il cui risultato netto è la storia e la cui
pensabilità globale è l’egemonia?
Certo, a
queste osservazioni Sasso potrebbe replicare che per poter discutere occorre
anzitutto mettere in discussione i presupposti. Ma ciò che qui conta, in
quanto obiezione, non è solamente la funzione di queste due categorie, ma
proprio la legittimità della loro assenza da una ricostruzione del pensiero di
Gramsci sulla storia e la storicità: questa assenza non è in alcun modo
giustificabile.
Giungiamo così al blocco storico. Discutendo Q 8, 61, Sasso
(pp. 358 ss.) richiama l’attenzione sul passaggio: «Ma si può parlare di
dialettica dei distinti? Concetto di blocco storico, cioè di unità tra la
natura e lo spirito, unità di opposti e di distinti», per concluderne che, se
si pone che “l’identità” viene assunta all’interno del blocco storico, essa
annulla tutte le differenze, distinzioni e opposizioni che si voglia. Ma pone
forse Gramsci il blocco storico come “identico”? A me non pare: Gramsci si
domanda, in quello stesso testo, «in che senso si può parlate di identità di
storia e politica e quindi che tutta la vita è politica», ma è appunto altra
cosa dal dire che nel blocco vi è «unità di opposti e di distinti». “Unità” qui
vuole dire semplicemente che se noi riusciamo a superare la concezione
dicotomica del reale (oggettività e soggettività, cose e idee, verità e
apparenza, ecc.), e lo afferriamo invece “in blocco” (ricordiamo che Gramsci rinvia
a Sorel per l’origine di questo concetto!), come insieme di forze in movimento,
come praxis («dove tutto è pratica, in una filosofia della praxis...»), al suo
interno potranno sì essere ricavati momenti di prevalenza della distinzione e
dell’opposizione (cioè, in breve, della coerenza e della rottura, della
stabilità e della trasformazione, della sintesi culturale e della lacerazione
di essa a partire dall’azione politica), ma, appunto, questi saranno a questo
punto solo aspetti, cioè diversi modi di vedere la medesima praxis.
Il problema allora si sposta, e diventa il seguente: come
sia possibile sostenere l’identità tra storia e politica, senza che, per dirla
con Sasso, non sia più possibile distinguerle. Aggiungiamo che Gramsci estende
questa identità anche alla filosofia. Ciò accade in Q 10 II, 2, dove Gramsci
precisa che l’identità di filosofia e storia (postulata da Croce) ha senso solo
se si pone anche l’identità di filosofia e politica. Cosa vuole dire ciò? La
risposta si trova in Q 7, 35: «Si giunge così anche all’eguaglianza o equazione
tra “filosofia e politica”, tra pensiero e azione, cioè ad una filosofia della
praxis». L’identità di filosofia e politica è “l’equazione” di pensiero e
azione. Che cosa questa “equazione” sia nel pensiero di Gramsci non è qui
possibile svilupparlo; mi limito a ricordare che essa è impensabile senza la
teoria della “traducibilità dei linguaggi” (rapporto tra Germania e Francia,
che dicono in linguaggi diversi, rispettivamente filosofico-speculativo e
politico-pratico, la stessa cosa, cioè la rivoluzione). Come si vede, lungi dal
comparire nell’accezione nella quale Sasso crede di leggerla, la nozione di
“identità” rinvia a quella di “equazione” e questa al rapporto teoria-pratica
nel quadro della teoria della traducibilità. Dire la stessa cosa è possibile in
due lingue diverse: tra identità e distinzione vi è reciproca implicazione, ma
questo lo si comprende solo se, invece di sovrapporre al testo astratte nozioni
pescate dove fa più comodo, si legge Gramsci a partire da Gramsci, si rispetta
cioè anzitutto il documento.
Ma sul “blocco” va detto di più. Quando Gramsci afferma che
il concetto di blocco storico è una risposta al problema di una “dialettica dei
distinti” (cfr. più chiaramente Q 10 II, 41.X), sta prendendo posizione
(dispiace che Sasso non se ne sia accorto) nel dibattito animato da Spirito,
Volpicelli ecc., i quali proprio in quegli anni definivano il pensiero di Croce
negli stessi termini, cogliendo in ciò la compresenza irrisolta, in esso, del
momento positivistico della classificazione (la distinzione) e di quello
dialettico-speculativo dell’unità (l’opposizione), e rinviavano al Saggio sullo
Hegel. Solo se si tiene conto di questa circostanza è possibile capire cosa
Gramsci sta realmente dicendo: egli sta riconoscendo, contro gli attualisti,
che la distinzione esiste, e che anzi qui va riconosciuto il maggiore
contributo filosofico di Croce. Gramsci cioè riconosce nel Croce della Storia
d’Europa e della Storia d’Italia, in breve nel Croce della “storia
etico-politica”, il Croce maggiore.
Ma cosa voglia poi dire “maggiore”, per uno che pone
l’equazione di filosofia e politica, non è cosa semplice e immediata da capire.
Sasso, che assume tutto astrattamente, si domanda come possa Gramsci aver
sospettato che Croce fosse il momento “mondiale” della filosofia (p. 379), e
ricorre (come molti prima di lui) alla carenza di informazione di cui soffriva
il prigioniero del carcere fascista. Insomma Gramsci avrebbe da una parte
voluto sostenere che il pensiero di Croce aveva nel Novecento un’importanza, in
quanto filosofia, paragonabile a quella di Hegel; dall’altra avrebbe preso le
mosse da una diffusione internazionale della filosofia dello spirito che, per
carenza di informazioni, egli presumeva realmente esserci ma che non c’era né
allora, né in seguito. Sasso ignora invece, così dicendo, che il principio
della distinzione non è e non può essere per Gramsci un quid speculativo e
basta: la sua “verità” teorica, che pur c’è, sta nella sua efficacia, e la sua
efficacia sta nella storia. Il Croce teorico della rivoluzione passiva, di cui
Gramsci addirittura teorizza la concomitanza (la «concordia discors») con il
fascismo (cfr. Q 8, 236, Q 10 I, , Q 10 I, 9, e la lettera a
Tania del 6 giugno 1932): ecco il Croce che per Gramsci rappresenta «il momento
mondiale odierno della filosofia classica tedesca» (Q 10 I, 11)! Ovvero: come
Hegel aveva introdotto/tradotto la Rivoluzione francese nella Restaurazione,
divenendo il precursore dello Stato liberale, allo stesso modo Croce elabora
l’Ottobre bolscevico lavorando, dentro il fascismo, per una ripresa in grande
stile dell’iniziativa “passiva” liberale.
Questa ripresa, se non vado errato, è proprio ciò che
accadde dopo la seconda guerra mondiale, e quindi davvero fuori fuoco sono le
osservazioni (pp. 380 ss.) che Sasso fa sul fatto che i Quaderni, così
incentrati sulla critica a Croce, furono letti quando Croce non era più una
figura egemone nella cultura italiana (per non dire europea o mondiale). No, i Quaderni
furono letti (se bene, o male, non importa qui approfondire) ancora al momento
giusto: essi volevano offrire al movimento comunista, in primo luogo italiano,
una teoria all’altezza delle “rivoluzioni passive” post-rivoluzionarie sul
terreno della società di massa, e non certo attardarsi alla critica di una
singola figura di filosofo perché questa sarebbe (stata) “egemone”. Giustamente
Sasso definisce “tediosissimo” il “concetto di egemonia culturale” (p. 382):
sì, ma appunto non è quello gramsciano, che è notevolmente più complesso, ma di
ciò non vi è traccia di comprensione nello scritto che discutiamo.
Sorprende dunque trovare, in un saggio uscito in una rivista
di grande prestigio, per la firma di uno studioso serio, tali manchevolezze.
Ripeto: indipendentemente dalla eventuale discussione dei presupposti
dell’analisi, qui si parla di elementari principi di ricostruzione storica.
Sasso precisa in una nota alla prima pagina che siamo di fronte ad una
“redazione” nella quale “le note sono state ridotte al minimo”, e ne annuncia
una possibile prossima versione. Tale circostanza suscita due considerazioni,
con le quali concludo questa discussione. In primo luogo, l’assenza di un ricco
apparato di note: è ovvio che la mancanza di un certo rinvio in nota non esclude
necessariamente la presenza implicita della conoscenza, nel testo, della
corrispondente documentazione bibliografica. Ma altre volte ciò può essere
proprio indizio di ignoranza dei testi e della letteratura in proposito. È
precisamente questo il caso, quando Sasso insiste in piú luoghi, e a lungo, sul
fatto che Gramsci assume da Marx il “dislivello ontologico” tra struttura e
superstruttura. Ma se gran parte delle energie sono impiegate, nei Quaderni,
per lasciarsi alle spalle questa dicotomia! Su questo punto vi è una certa
letteratura, e se non bastasse rinviamo Sasso a Q 11, 50: «la filosofia della
prassi, proponendosi di riformare intellettualmente e moralmente strati sociali
culturalmente arretrati, ricorre a metafore talvolta “grossolane e violente” nella
loro popolarità», come appunto «il concetto di struttura e superstruttura, per
cui si dice che l’ “anatomia” della società è costituita dalla sua “economia”»
(Q 8, 207). Ma non si può forse dire che Gramsci, pur volendo superare questa
dicotomia, abbia però mancato di riuscire nell’impresa? Rinviamo alle
precedenti considerazioni sul “blocco storico”.
E come reagire a un passo come questo, riferito alla
questione dell’ideologia: «Non può dirsi, infatti, che fino in fondo Gramsci
penetrasse nella questione; e che della necessità di reinterpretare in modo
radicale la tesi marxiana avvertisse, appunto, la necessità» (p. 366)? Ma se in
Q 4, 37 (ma anche in numerosi altri passi) Gramsci “avverte”, in riferimento a
Marx, proprio questa “necessità” in modo esplicito! E cosa dire del fatto che
(a p. 370) il «luogo più delicato del marxismo inteso (quale anche Gramsci lo
intendeva) come teoria (e anche prassi) delle contraddizioni» viene individuato
nel «rovesciamento della prassi»? A meno che non vi sia un refuso o un salto di
riga, Sasso sta qui affermando che il «rovesciamento della prassi», questa
singolare espressione, assente in Marx ed Engels, introdotta da Giovanni
Gentile nel 1899 grazie a un errore di traduzione della III tesi su Feuerbach
(«umwälzende Praxis»), ostinatamente ripresa da Mondolfo con infinite varianti
barocche, nominata da Gramsci quattro volte (non una di più) nei Quaderni (per
indicare, aggiungiamo, qualcosa di completamente diverso da Gentile e Mondolfo)
– Sasso, dicevo, sta qui affermando che questo sarebbe il luogo più delicato
del marxismo: ma di quale marxismo? Di quello inesistente di Gentile? di quello
positivistico di Mondolfo? Perché certo non del pensiero di Marx qui si tratta.
Si potrebbe continuare, ma mi arresto qui, per fare una
seconda e conclusiva considerazione. Se, come è possibile, questo saggio
conoscerà una seconda redazione, ci auguriamo che essa mostri maggiore
precisione, e maggiore rispetto e conoscenza dei documenti. A questo proposito,
per offrire un piccolo contributo a questo miglioramento, alle osservazioni che
precedono ne aggiungiamo altre tre. Nella nota 11 vi è un evidente refuso,
essendo i rinvii di pagina invertiti. Nella nota 16 viene citato, erroneamente
come “Starkemburg”, il destinatario “Starkenburg” di una delle lettere di
Engels sul materialismo storico. Ma forse Sasso non sa che non di Starkenburg
si trattava, ma di W. Borgius, come si seppe in seguito? Infine a pp. 366 ss.,
dopo aver discusso Q 8, 61, Sasso passa a citare e discutere Q 8, 182, affermando
che in quest’ultimo Gramsci “torna” a occuparsi del rapporto tra struttura e
sovrastruttura, di cui si era occupato in Q 8, 61. Il problema è però che Q 8,
182 precede temporalmente, e non segue, Q 8, 61, risalendo essi rispettivamente
al dicembre 1931 e al febbraio 1932. Questi dati erano ricavabili dall’apparato
critico dell’edizione Gerratana dei Quaderni, e sono stati messi in valore e
largamente e sistematicamente sviluppati in un ampio tentativo di datazione di
tutti i testi dei Quaderni, in un libro noto e indispensabile a chiunque si
accosti a questa opera: Gianni Francioni, L’officina gramsciana. Ipotesi sulla
struttura dei “Quaderni del carcere”, Bibliopolis, Napoli 1984, parte prima, a
cui rinviamo Sasso.